“Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria” di Michele Cometa

Prof. Michele Cometa, Lei è autore del libro Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria pubblicato da Raffaello Cortina: quale importante funzione antropologica riveste la narrazione?
Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria Michele CometaIl libro prende le mosse dalla semplice constatazione che la narrazione è un “comportamento” comune a tutta la specie umana e che dunque la teoria della letteratura non può sottrarsi a un confronto con l’antropologia e anche con la biologia. Del resto ci sono molti motivi perché questo passo venga compiuto. Ne elenco tre: il primo sta nel fatto che la separazione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, già a suo tempo denunciata da Ch. P. Snow, riguarda certamente le discipline accademiche, direi soprattutto in Italia, ma non è mai esistita per la reale produzione letteraria e persino per gli scienziati che spesso, e consapevolmente, fanno ricorso alla letteratura e alla fiction per spiegare, illustrare e, a volte, provare le loro teorie. La letteratura da sempre si confronta con la biologia e con le altre scienze della natura, basti pensare, per limitarci al canone novecentesco italiano, a figure come Calvino, Gadda, Levi, Erri De Luca e via discorrendo. Per converso le scienze della mente, per non parlare delle neuroscienze, sono a loro volta pervase di metafore tratte dalla letteratura e dalle altre arti. Si pensi a quando Daniel C. Dennett parla della mente come di una «macchina joyciana». E non si tratta solo di metafore occasionali ma di qualcosa che allude al funzionamento “narrativo” della mente, un tema che va ancora ripreso e sviluppato, soprattutto da parte dei letterati. Un altro motivo per cui bisogna riconnettere letteratura, antropologia (intesa anche e soprattutto come studio delle facoltà cognitive degli ominidi sino all’Homo Sapiens) e biologia (nella tradizione evoluzionista) sta proprio nel fatto che il padre dell’Evoluzionismo, Darwin, ci ha consegnato un’estetica che ancora oggi impone degli approfondimenti – che autori come Winfried Menninghaus e Karl Eibl hanno fatto in Germania, come la folta schiera dei Literary Darwinist negli Stati Uniti, o Lorenzo Bartalesi e Maria Grazia Portera in Italia – ma ci ha detto pochissimo sull’evoluzione delle storie, se non in trasparenza, parlando della facoltà linguistica dell’Homo Sapiens. È giunto dunque il momento di dare una risposta a Darwin e di integrare l’estetica evoluzionista con la parte che riguarda la facoltà di narrare e, in seconda istanza, la letteratura.
Vi è un ulteriore motivo per affrontare la narrazione dal punto di vista della biologia: il fatto che si tratti di un comportamento universale ci stimola a confrontarlo con quello figurativo – oggi sempre più al centro dei cosiddetti World Art Studies – e a riprendere alcune questioni sugli universali poetici, tematici e cognitivi che la teoria letteraria novecentesca non aveva mai del tutto dismesso, da Jung a Northrop Fry.
Insomma, ce n’è abbastanza per riaprire un dialogo che, a dire il vero, non si è mai interrotto se si pensa che oggi le neuroscienze e le scienze cognitive, soprattutto quelle che discendono dalla scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti, Gallese etc.), quelle che si interrogano sul Sé (Gallagher, Hutto) o i teorici della mente estesa (Clark, Chalmers, Menary etc.) attingono a piene mani al vocabolario dell’estetica, recuperando tradizioni consolidate nella psicologia e nell’antropologia. Si pensi alla questione dell’empatia, solo per fare un esempio. Si scopre così che l’estetica psicologica tedesca di fine Ottocento o l’altrettanto vivace teoria dell’ornamento sviluppata tra Germania e Stati Uniti sono tutte forme di biopoetica ante litteram. E del resto nulla di nuovo sotto il sole, se pensiamo che la Poetica di Aristotele, che fonda la narratologia occidentale (tra l’altro) esordisce con considerazioni biopoetiche che riguardano il comportamento imitativo, il piacere, l’evoluzione cognitiva del bambino e via discorrendo. Insomma si tratta a questo punto di riconsiderare la storia millenaria della biopoetica e rimetterla al centro del dibattito sulla narrazione e sui comportamenti artistici. L’implicito di questo discorso è che si tratta di considerare non solo quello che le scienze naturali possono fare per noi umanisti, ma quello che noi umanisti – filologi, letterati, estetologi – possiamo fare per le scienze della natura (ammesso che questa distinzione sia ancora sensata).

Cosa afferma la teoria biopoetica della narrazione?
Appunto che il comportamento narrativo, come quello artistico, affondano le proprie radici nella biologia dell’Homo Sapiens, non solo nel senso che dal punto di vista della sua evoluzione cognitiva, arte e narrazione sono essenziali, ma anche nel senso, più strettamente evoluzionista, che la narrazione e l’arte hanno dato – e continuano a dare all’Homo Sapiens – un enorme vantaggio in termini di adattamento e sopravvivenza. Per quanto difficile sia stabilire cosa sia un adattamento dal punto di vista delle scienze biologiche, va considerata, tra le molteplici varianti, anche la facoltà di raccontare storie e di produrre segni figurativi. Non è un caso che i più recenti sviluppi della teoria evoluzionista, quelli che si concentrano sull’interazione tra biologia e cultura nell’ambito della nicchia ecologica abitata dall’Homo Sapiens, insistano sull’interazione tra queste due sfere, sino al punto che giustamente si comincia a parlare di “nicchia narrativa” o di “nicchia estetica”. Non si tratta solo della coevoluzione natura-cultura, ma di studiare analiticamente gli effetti di “retroazione” che i comportamenti culturali, e dunque quelli “artistici”, hanno sull’impianto genetico che guida le trasformazioni e gli adattamenti dell’Homo Sapiens (e anche di altri animali).
Sul versante della teoria letteraria significa recuperare e studiare con gli strumenti della paleontologia e dell’archeologia cognitiva le relazioni tra fenomeni dell’evoluzione dell’Homo Sapiens solo apparentemente lontani, come la costruzione degli strumenti e le facoltà linguistiche e narrative, la decorazione di questi stessi utensili e l’educazione estetica degli ominidi – già prima dell’Homo Sapiens! – tra le “cose” e le facoltà cognitive (soprattutto la memoria), l’entanglement tra il mondo degli oggetti e quello sociale etc. Questo significa – ed è questa la tesi principale del libro – che i letterati dovranno cominciare a confrontarsi con gli archeologi e i paleontologi e si tratta di un percorso di avvicinamento per nulla lineare e semplice. E dovranno anche imparare a considerare il bios – come del resto affermato dalle punte più avanzate della filosofia italiana – come parte integrante del loro discorso. Anche perché la letteratura è davvero la più ampia riserva di documentazioni sui comportamenti sociali, sessuali, culturali dell’Homo Sapiens e sarebbe assurdo non utilizzare questo immenso archivio ai fine delle scienze della natura. Molto è già stato fatto in questa direzione, sin dalle scaturigini della poetica occidentale, e gran parte del nostro compito è liberare questo elemento forcluso della teoria letteraria.

Qual è il ruolo della fiction?
Per rispondere a questa domanda bisogna subito mettere le mani avanti e affermare che non ci può essere – soprattutto in una teoria compiutamente evoluzionista – un solo ruolo per la fiction, per la narrazione e per la letteratura. Innanzitutto bisogna distinguere questi tre elementi con rigore, una cosa è la fiction, con le sue innumerevoli e molteplici “funzioni” evolutive (anche non narrative), una cosa è la narrazione – che ci costringe a un confronto con tempi immemoriali e con le origini del linguaggio – e un’altra è la letteratura che riguarda tempi minimi dal punto di vista evolutivo. Fatta questa premessa, e considerata la complessità, sia cronologica che sociale, di questi fenomeni, sarà meglio parlare di ruoli e funzioni della narrazione al plurale. Anche perché l’evoluzionismo, nelle sue molteplici e sempre più aggiornate versioni, ci ha avvertiti del fatto che i fenomeni evolutivi non sono né unici né lineari, anzi possono inscriversi in percorsi di adattamento, ma anche agire come esattamenti ed effetti di spandrel. Soprattutto vanno considerati, come nella teoria della niche construction, nella loro complessità bioculturale. Se già in ambito umanistico è meglio diffidare delle teorie uniche che spiegano tutto, nell’ambito della natura le spiegazioni monolitiche sono un assurdo di per sé. Si tratta perciò di ricostruire un puzzle in cui la narrazione e la fiction hanno via via ruoli e funzioni diversissime – dall’informazione al pretend play, dall’organizzazione di routine cognitive che affinano le performance della mente alla selezione sessuale, dal making special al dominio psicologico delle carenze esistenziali degli ominidi, dal mind reading allo sviluppo di capacità prosociali come l’empatia, la collaborazione e via discorrendo. Si tratta di funzioni – e con questo dobbiamo rinunciare a tutte le apologie del “disinteresse” estetico della teoria moderna e contemporanea – che palesemente danno dei vantaggi adattivi all’ominide che le pone in atto. Ma su questo, in fin dei conti, i letterati potranno convergere facilmente. Più difficile è semmai accettare l’incontrovertibile dato di fatto che del comportamento narrativo, della fiction, anche della letteratura molto spesso, non rimangono fossili e dunque, se dal punto di vista cognitivo possiamo cominciare dall’uomo attuale – con tutto quello che comporta la differenza, spesso in milioni di anni, con i nostri predecessori – per le origini di questi fenomeni dovremo affidarci a ciò che ci resta – per esempio gli strumenti litici, le rare pitture rupestri, gli ancor più rari manufatti “artistici” – un territorio di studio parecchio scomodo e per certi versi addirittura precluso ai teorici della letteratura. E tuttavia a me pare che lo studio delle facoltà cognitive, soprattutto quello che si avvale di corollari come l’idea della mente estesa, delle pratiche di embodiment, dello studio delle patologie narrative, è tutto sommato ancora a portata di mano per i letterati e, opportunamente combinato con uno studio delle attuali facoltà cognitive dell’Homo Sapiens, ci può permettere inferenze estremamente utili per comprendere il nostro comportamento narrativo dal punto di vista bioculturale. Per non parlare del valore aggiunto che una tale collaborazione (consilience) con le scienze della natura può avere sul piano del riconoscimento del valore e della funzione sociale della letteratura e della teoria letteraria.

Si può affermare che il contenimento dell’ansia rappresenti uno dei motivi fondanti lo sviluppo della narrazione?
La mia proposta nel libro è che la narrazione abbia un ruolo specifico nel contenimento dell’ansia che scaturisce dai nostri deficit funzionali ed esistenziali (psicologici). Per studiare questo nesso ho fatto ricorso, da un lato, a un tema ben noto dell’antropologia filosofica moderna e contemporanea che muove dall’assunto che sul piano biologico e dunque antropologico l’Homo Sapiens non dispone di tutta una serie di capacità e di istinti che gli possano permettere la sopravvivenza sulla base delle proprie qualità biologiche d, che l’uomo insomma sia una creatura carente e deficitaria rispetto all’ambiente e ai conspecifici e che per compensare questi deficit abbia dovuto fare ricorso a “protesi esterne” di carattere culturale. Il guaio sta nel fatto che queste protesi, nonché la potente autoconsapevolezza che l’uomo acquisisce in questa rete culturale, lo rendono sempre più vulnerabile e soprattutto, unico tra i viventi, lo confrontano con la propria morte. L’incertezza verso l’ambiente e verso il proprio futuro ne fanno un essere ansioso, poiché l’ansia è una forma di incertezza che deriva dall’oggettiva complessità dell’ambiente e dalla soggettiva incapacità di prevedere il futuro. Nell’ultimo capitolo del libro ho cercato di coniugare la teoria classica della “compensazione” con la riflessione evoluzionistica sui limiti degli umani, sulla loro prolungata condizione altriciale che ne condiziona tutto lo sviluppo cognitivo, sui deficit istintuali. Naturalmente si tratta di spogliare la teoria della compensazione del suo inevitabile portato teologico come ha fatto l’antropologia contemporanea.
Tuttavia la narrazione non è solo una forma di compensazione perché ci dota di qualità utili alla sopravvivenza, sia nella forma di strumenti esterni sia in quella di carattere psicologico. La narrazione permette un duplice approccio all’ansia che proviamo rispetto all’ambiente, rispetto ai nostri simili e rispetto all’incertezza sul nostro futuro. Essa, in prima istanza, costituisce una sorta di training che ci rende per così dire resistenti all’ansia producendola in vitro – si pensi a Sherazade che stimola l’ansia del principe e, appunto, sopravvive per questo, mentre lo tiene in vita e sotto scacco (non si dimentichi che l’ansia evoluzionisticamente è anche ciò che letteralmente ci tiene in vita rendendoci più accorti, più riflessivi etc. o ai romanzi di Kafka – e, nel contempo, contiene l’ansia esonerandoci dalla realtà. È la celebre tesi che da Arnold Gehlen arriva sino a Hans Blumenberg e Odo Marquard secondo cui l’esonero dall’assoluto (della realtà, della religione, della scienza) è ciò che ci permette di sopravvivere, semplicemente perché sospendendo il soverchiante peso del reale (la parola Entlastung in tedesco dice proprio questo) l’Homo Sapiens si crea un’oasi di serenità. Significativo è il fatto che questo esonero avviene grazie alla finzione e accompagna costantemente il comportamento narrativo (si pensi all’ascolto o alla stessa lettura) o altri comportamenti estetici, come lo sprofondarsi – lo hanno chiarito in modo inequivocabile Vittorio Gallese e Michele Guerra – in una sala cinematografica. Del resto oggi la teoria dell’esonero, che discende dall’antropologia del controverso Arnold Gehlen, viene ripresa, a un livello più alto e più fondato biologicamente, proprio dalla teoria della «simulazione incarnata liberata» (Gallese) secondo cui durante l’esperienza estetica in qualche modo “inibiamo” la nostra attività motoria e la nostra presa sulla realtà, ci liberiamo della necessità di comprendere e modellare la nostra presenza nel mondo reale e nello stesso tempo usiamo queste energie risparmiate per concentrarci su una dimensione dell’essere – direbbero i filosofi – liberata dalle cure quotidiane. È proprio questa forma peculiare di “inibizione/esonero” che le neuroscienze, le scienze cognitive e la teoria letteraria possono e devono continuare a studiare.

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