
Sono due cose assolutamente diverse. 7 miliardi di persone sanno usare le loro lingue, pochi milioni sanno “sulle” lingue che parlano. Un analfabeta non scolarizzato parla in modo da essere perfettamente accettato dai suoi simili, sa correggere chi sbaglia, sa fare battute, esprimere amore, educare i figli usando la lingua, pur non sapendola scrivere o leggere e tanto meno descrivere.
Ma, dal punto di vista della crescita intellettuale, lavorare sulla propria lingua è fondamentale per l’educazione cognitiva, l’educazione all’intelligenza. La propria lingua è l’unica cosa che ogni persona sa senza sforzo: magari non è una conoscenza ampia, ma il nucleo base c’è, e non crea difficoltà: si impara a categorizzare e a classificare meglio sulle cose che si sanno che non su quelle in cui si devono imparare insieme imparare sia i concetti (triangolo, quadrato, rettangolo, rombo, ecc.) sia le parole che li descrivono.
L’analisi grammaticale, l’analisi logica, quella del periodo, quella testuale non servono a comprendere o parlare meglio, cioè a usare la lingua orale, servono a correggere le proprie produzioni scritte (funzione ‘monitor’); ma primariamente servono a far funzionare le rotelline del cervello. Il che è bene.
Come motivare dei (pre)adolescenti allo studio della nostra lingua?
Si parte dalla lingua in uso.
Far fare la telecronaca orale di un video di una partita, registrandola per poi riascoltarla, fa capire la necessità di saper riferire con precisione, facendo frasi di senso compiuto, riducendo gli inevitabili anacoluti, usando il minimo di parole per restare nei tempi stretti di un’azione di calcio.
Far scrivere il regolamento, ad esempio, del calcio, e poi far notare come non sappiano cogliere gli elementi costitutivi differenziandoli da quelli accessori – attività di natura cognitiva – ed esprimerli in maniera chiara, priva di ambiguità, fa capire che i testi regolativi (dai codici alle regole matematiche) abbiano una loro natura specifica che bisogna padroneggiare.
Far descrivere l’autunno e poi passo dopo passo far aggiungere gli elementi sensoriali che mancano aiuta a passare dalla descrizione dilettantesca a quella professionale: tutti infatti partono dai colori, pochi trattano gli odori, nessuno offre sensazioni tattili, olfattive, gustative, che pure appaiono non appena gli si insegna ad usare tutti i sensi in una descrizione.
In altre parole: si motiva facendo rilevare come tra l’uso intuitivo e quello maturo, ‘professionale’, c’è molto lavoro da fare, ma facendo anche notare che alla fine il prodotto di chi ha ragionato sulla tipologia dei testi è migliore di quella spontanea iniziale.
Gli studenti non sanno che hanno bisogno di padroneggiare i registri formali della lingua, ma bastano poche attività per metterli di fronte a questa carenza, come a quella riguardante la lettura di un testo giuridico come il codice della strada o il regolamento di un gioco, oppure la capacità di narrare avvincendo, e così via.
Gli studenti non sanno di aver bisogno di italiano complesso, ma non glielo può spiegare lo Spirito Santo, devono scoprirlo da soli in attività il più giocose possibile, svincolate da ogni logica di compito in classe, di votazione, di promozione e bocciatura.
In che modo è possibile realizzare in maniera coinvolgente attività di riflessione sulla lingua?
Facendo scoprire. Scoprire da sé è meglio che sentirsi dire le cose. Confucio spiega: “dimmi, e io dimentico; mostrami, e io ricordo; fammi fare, e io imparo”. È possibile – ci sono le basi online – costruire la propria grammatica, intesa come scoperta e non come regolamento linguistico.
Partendo dai bisogno, senza elencarglieli dall’alto della propria esperienza – che essendo quella di un adulto viene sistematicamente rifiutata – ma facendo toccare con mano le necessità.
Mettendo insieme più teste, in modo che la costruzione sia più facile, e l’insegnante venga chiamato laddove non ci si sa più districare nel magma della lingua.