
Con una certa cadenza torna nel dibattito politico il tema della soppressione del Cnel, che nella riforma costituzionale Renzi-Boschi, sottoposta a referendum il 4 dicembre 2016, doveva essere abolito. Il Cnel è un organo inutile?
Uno dei più grandi giuslavoristi italiani del Novecento, Gino Giugni, era molto critico nei confronti del Cnel, ma, ad un certo punto, lo studiò, aprì un dibattito sulla sua riforma, partecipò ai suoi lavori come consigliere del Cnel. Ebbene, cambiò opinione. Il Cnel andrebbe riformato, ma in questo senso si sta lavorando. È un organo utile perché la società è sempre più complessa; il distacco della politica dalla società sempre più ampio e preoccupante. È davvero necessario allargare la democrazia economica e sociale. Il rafforzamento del governo, che va avanti da diversi anni, ai danni delle istituzioni rappresentative (anche del Parlamento), dovrebbe essere oggetto di riflessione critica. Il nostro sistema istituzionale ha necessità di organi come il Cnel che preparino il terreno dove possano germogliare le buone leggi. Il costituzionalista Massimo Luciani domandandosi se il Cnel ha oggi ancora senso ha dato una risposta affermativa, richiamando i limiti della retorica della democrazia decidente.
Qual era il pensiero dei padri costituenti sul Cnel?
Il pensiero dei padri costituenti si è realizzato soltanto in parte. Il legislatore impiegò quasi dieci anni prima di arrivare alle legge istitutiva del Cnel (1957). E quando, finalmente, arrivò alla legge il risultato era un testo eccessivamente frenante, che penalizzava fortemente l’azione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Il legislatore si fece travolgere dal timore che il Cnel avrebbe potuto modificare gli equilibri che si erano affermati tra partiti, istituzioni e sindacati. La Democrazia cristiana temeva che il Cnel potesse ostacolare, rallentare, contenere l’azione del governo. Il Pci paventava che il nuovo organo potesse mettere in discussione la centralità del Parlamento. Neanche i maggiori sindacati sostennero il Cnel, perché ormai avevano già un canale diretto con i partiti, i gruppi parlamentari, i membri dell’esecutivo per incidere nella produzione normativa.
Come si sviluppò l’attività del Cnel tra il 1958 ed il 1989?
L’attività del Cnel fu prevalentemente caratterizzata da pareri e osservazioni e proposte. I pareri, richiesti da governo e parlamento, toccarono diverse questioni importanti, come l’applicazione degli articoli 39 e 40 della Costituzione, cioè gli articoli relativi all’ordinamento sindacale e al diritto di sciopero, la formazione dei lavoratori, la tutela della libertà di concorrenza, il Mercato comune etc. In appendice al volume di documenti che ho curato sulla storia del Cnel si trovano elencate le pronunce dell’organo. Le osservazioni e proposte, invece, erano lo strumento che il Cnel utilizzò per far arrivare al legislatore le proprie idee sulla riforma del processo del lavoro, sulla politica agricola comune, sul riordinamento delle fonti di energia, sulla riforma della previdenza sociale e così via.
Quali novità introdusse la legge n. 936 del 30 dicembre 1986?
Diverse le novità che introdusse. Cambiò la composizione, aprendo il Cnel ai rappresentanti del pubblico impiego. Modificò le attribuzioni, cercando di valorizzare la funzione di raccolta dei documenti. In questo senso è importante la nascita dell’archivio dei contratti collettivi di lavoro presso il Cnel. Si tratta di una grande banca dati che raccoglie gli accordi di rinnovo e i nuovi contratti. I contenuti sono facilmente fruibili. Il servizio è fondamentale per lo Stato italiano.
Come si sono articolati i lavori del «nuovo» Cnel?
Nell’ultimo trentennio si possono distinguere almeno quattro fasi. La prima fase corrisponde al tentativo di rilancio del Cnel, che suppergiù corrisponde alla presidenza De Rita (1989-2000), durante la quale l’organo cercò di esplorare nuove strade. Ne sono testimonianza i temi affrontati, dai patti territoriali alla questione settentrionale. Fu una fase di particolare attivismo. La seconda fase, invece, si caratterizza per una concezione più tradizionale del Cnel. Con la presidenza di Pietro Larizza (2000-2005) e poi con quella di Antonio Marzano (2005-2010) l’organo investì sulla collaborazione con il governo, senza avere l’ambizione di seguire percorsi originali. L’attività di consulenza istituzionale insieme a quella di servizio assorbirono gran parte delle energie dell’organo. La terza fase è quella della crisi dell’organo. Il periodo più difficile della sua storia ebbe inizio durante l’estate del 2011, quando, in un contesto generale di forte preoccupazione a causa dell’instabilità finanziaria, il governo Berlusconi modificò per decreto la legge 936, cambiando le procedure di funzionamento e la composizione del Cnel. L’esecutivo Monti intervenne nuovamente, riducendo i consiglieri a 64. E poi il governo Renzi agitò la bandiera dell’abrogazione dell’articolo 99, come se fosse uno dei limiti principali della nostra Costituzione e il grande problema dello Stato italiano. L’esito del referendum, tuttavia, fermò l’entrata in vigore della riforma costituzionale. Oggi il Cnel ha ripreso la sua attività. È questa, cominciata nella primavera del 2018, la quarta fase. Nella seduta di insediamento, il 5 giugno, il neopresidente Tiziano Treu non ha nascosto i problemi. All’organo gli ha assegnato il compito di ascoltare la società, il dovere di ripensare alle sue attribuzioni, la missione di confrontarsi con le istituzioni statali, con le autonomie locali, con l’Europa, senza mai trascurare la questione della rappresentanza, il grande tema delle diseguaglianze, i problemi del lavoro e della competitività delle imprese.