
Come si esprime il gender data-gap?
In tantissimi modi e su tantissimi fronti. Come già accennato nella misurazione degli incidenti sul lavoro, ma soprattutto nel prendere come riferimento un “maschio standard”, una sorta di “uomo tipo” alto un metro e ottanta che semplifica molto le metriche uniformandole ma rende un cattivo servizio alla maggior parte della popolazione perché in realtà rappresenta una minoranza piuttosto esigua anche nella popolazione maschile.
Nel libro mostriamo infatti come un design (inteso come progettazione) e una ricerca scientifica, ma anche un’urbanistica e un sistema dell’informazione che prende in considerazione solo un tipo di utente (il maschio standard, che richiama inevitabilmente il modulor di Le Corbusier) sia una pessima scelta perché estremamente inefficiente, oltre che spesso pericoloso come mostriamo parlando di farmaci, per la maggior parte di noi, sia donne che uomini.
La cultura della discriminazione di genere si annida spesso in pratiche apparentemente innocue. Gli studi dimostrano, ad esempio, che le donne hanno il 75% di probabilità in più di soffrire degli effetti collaterali di un medicinale a causa della minore sperimentazione su di loro: quali dinamiche determinano queste distorsioni?
Qui non si tratta di cultura ma di norme. Nel caso dei farmaci, ma lo stesso vale per i manichini dei crash test, molti sistemi di sicurezza e dispositivi di protezione, si è ancora ancorati a metodologie antiquate. Oggi, in un’epoca di big data, capacità di calcolo e memoria esponenziale e prototipazione rapida, è semplicemente anacronistico pensare di fare farmaci, servizi o prodotti standardizzati. Il lato più pericoloso di questa discriminazione è che spesso le leve che la determinano sono invisibili perché molto tecniche, nonostante gli effetti finali sono molto evidenti.
Il Vostro libro evidenzia come i rischi di disuguaglianza siano presenti soprattutto nei settori economici più dinamici e avanzati: quali ne sono le cause?
Sì tra i settori dove le diseguaglianze sono più evidenti ci sono proprio quelli legati alla computer science, ai dati e al digitale in generale. Le cause sono in primis una scarsa quota di donne tra chi si laurea in queste discipline. Per cambiare questi equilibri è chiaro che la prima necessità è avere più ragazze coinvolte nelle STEM, ma non basta. Bisogna anche assicurarsi che vengano valutate con imparzialità nei passaggi successivi della propria carriera e che vengano applicate metriche adeguate. Spesso le stesse donne che valutano altre donne per un ruolo manageriale tendono a considerare tratti come l’autostima e la rapidità di decisione, che in un uomo sono percepite come un segno di leadership, come un sintomo di un carattere prepotente e “bossy” un una candidata. C’è poi tutto il fronte dei finanziatori delle nuove imprese, le start-up, che anche oltre oceano sono fortemente dominate dai maschi e, inevitabilmente, tendono a sottofinanziare le startupper donne. È una perdita grave anche per gli investitori, perché i numeri mostrano che le startup fondate da donne sono mediamente più solide e resilienti generando ritorni migliori.
Quali benefici apporterebbe all’intera società l’eguaglianza di genere?
Pensiamo all’Italia: che cosa succederebbe alle famiglie e al Paese se più italiane avessero accesso a lavori più stabili e meglio remunerati? Una famiglia con due redditi è sicuramente più sicura e può investire di più nella formazione dei figli, nella salute e così via. Sul fronte macroeconomico l’anemico Pil italiano finalmente crescerebbe un po’ più di qualche frazione di punto percentuale. Al di là del tema dell’equità e della giustizia che non abbiamo approfondito non perché non lo riconosciamo importante ma perché già molto frequentato, ciò che ci premeva mostrare è che una società così asimmetrica e “a taglia unica” è in realtà perdente per tutti. Anche perché i diritti non sono a somma zero. Come spieghiamo anche con un esempio personale, la parità non significa togliere ai maschi per dare alle femmine, ma dare di più a tutti. Per riequilibrare i ruoli sul lavoro, per esempio, basterebbe cominciare a dare il congedo di paternità. Sarebbe qualcosa in più per i maschi e un fattore di discriminazione in meno per tutte le donne.
A che punto è la transizione verso la Gen Alpha?
Molto avanti. La rete, intesa come combinato disposto di reti sociali e dispositivi mobili, ha accelerato moltissimo la diffusione di modelli culturali. È ovvio che spesso si tratta di fenomeni e correnti anche stimolati da interessi commerciali come quelli delle case di moda (ma non lo era anche il punk?) e di marchi green ma che hanno grandissima presa sulla fetta più giovane della popolazione per la quale il fattore etico è molto importante, che si tratti di essere ambientalmente sostenibili, o non discriminatori sul fronte del genere. I ragazzi più giovani sono addirittura perplessi quando noi “anziani” parliamo di due generi, perché ne vedono molti di più e le diseguaglianze sono semplicemente inaccettabili. Sul fronte culturale insomma, le cose stanno accelerando molto ma, come raccontiamo nel libro, è gran tempo di affrontare il tema di quelle “infrastrutture invisibili” che sono i dati sui quali sono costruiti prodotti, servizi e sistemi del mondo nel quale ci muoviamo.
Emanuela Griglié scrive per “La Stampa” di cultura digitale e questioni di genere
Guido Romeo scrive per “Il Sole 24 Ore” di economia e innovazione. È co-autore di Silenzi di Stato