
Lo scrittore di origine comasca è stato il «pioniere delle scuole di scrittura in Italia», sin dall’autunno del 1985, quando diede avvio, a Milano, ai suoi corsi presso il Teatro Verdi. Giuseppe Pontiggia vi tenne corsi di scrittura per dodici anni, sino al 1996. Su invito di Giorgio Dell’Arti, egli accettò di mettere in forma scritta il contenuto dei suoi insegnamenti per un pubblico di lettori: a partire dal primo numero della rivista letteraria «Wimbledon. La gente che legge» (marzo 1990), fino alla sua cessazione (febbraio 1993), all’interno di un’apposita rubrica intitolata «Imparare a scrivere». Il libro raccoglie queste trentatré conversazioni sulla scrittura in cui «lo scrittore, conversando, si sdoppia in un sé interrogante e in un sé interrogato, con l’obiettivo di animare e di rendere concreta e problematica la trattazione. La simulazione di un contraddittorio in alcuni casi assume tratti ironici e paradossali, lasciando emergere aspetti della poetica di Pontiggia come l’amore per il rovesciamento e la coesistenza degli opposti, o la tendenza a suggerire la complessità e profondità delle questioni, avvicinabili e illuminabili da molteplici punti di vista e di luce, al di là della semplicità con cui possono essere comunicate in superficie.»
«Il decennio durante il quale Pontiggia tiene i corsi di scrittura al Teatro Verdi coincide con la genesi di due opere narrative nuove, il romanzo La grande sera (1989) e Vite di uomini non illustri (1993); con la parziale riscrittura di romanzi già editi, Il raggio d’ombra (2a ed. 1988) e L’arte della fuga (2a ed. 1990), cui seguirà la versione rivista della Grande sera (2a ed. 1995); con la pubblicazione di due raccolte di scritti saggistici: Le sabbie immobili (1991) e L’isola volante (1996).»
Scrittori si nasce o si diventa? «Non ho mai conosciuto nessuno che sia «nato» scrittore. Ho conosciuto alcuni che lo sono diventati dopo un tirocinio molto duro, fatto di tentativi, scacchi, fallimenti, provvisorie esultanze e ricorrenti depressioni.» Una lezione preziosa quella di Pontiggia che indaga le motivazioni stesse dello scrivere: «Si scrive per quel sé ideale che converge con gli altri. Con quel sé che si aspetta dal testo non quello che sa, ma qualcosa di più. Io credo che il testo ne debba sapere di più di chi l’ha scritto. Il testo va oltre i programmi, le previsioni, il sapere stesso dell’autore. Altrimenti non varrebbe la pena di scrivere. Scrivere non è mai trascrivere. È inventare, ossia trovare, invenire, attraverso le parole. È conoscere attraverso il linguaggio delle parole.»
Quando si scrive, rimarca l’autore, ci si rivolge a lettori «severi e impazienti, consci che stiamo sottraendo loro il bene più prezioso, il tempo».
«Chi decide il valore di un testo?» – si domanda Pontiggia – «Nessuno, se si deve decidere per gli altri. Ogni lettore lo decide, attraverso la sua risposta al testo. Lo decide chi è in grado di riconoscerlo. Non esistono criteri esterni e quantitativi, neanche il consensus omnium, l’accordo di tutti, che tra l’altro non è mai totale. Lo decide anche l’autore stesso, se riesce a diventare lettore del proprio testo, a leggerlo come se non lo avesse scritto lui.» E allora il pensiero del giudizio del pubblico che incombe: ma basta pensare che «i lettori buoni siano pochi. Nietzsche parlava di tre lettori, Stendhal di lettori che lo avrebbero capito cinquant’anni dopo la sua morte. Manzoni parlava di venticinque lettori e la sua dichiarazione è stata interpretata come una prova di umiltà. Io propendo invece per una interpretazione diversa, tenendo conto della sapienzialità ironica di Manzoni, e penso che alludesse a venticinque lettori non in senso riduttivo, ma selettivo.»
Il giudizio sui cosiddetti “scrittori commerciali”, che Pontiggia dichiara di non disprezzare affatto: «per affermarsi come scrittori commerciali bisogna avere alcune qualità specifiche che sono di per sé apprezzabili e non comuni. Il mestiere, la tecnica, la capacità di organizzare il racconto, di avvincere l’attenzione. Dostoevskij diceva di avere imparato molto dagli autori di feuilletons. E aggiungeva che se non riusciva ad avvincere il lettore nelle prime pagine, come riusciva a loro, il suo compito di narratore era fallito. […] Defoe, Dickens scrivevano per un pubblico popolare, e hanno scritto capolavori. Anche Collodi ha scritto Pinocchio per un pubblico infantile e teneva conto, nel corso delle puntate, delle reazioni dei suoi lettori, tanto che ha dovuto risuscitare il suo personaggio dopo averlo fatto morire.»
Il difficile percorso verso l’originalità interroga l’autore: «Forse è già stato scritto tutto. Dove va dunque cercata l’originalità dello scrittore o di chi voglia impiegare la scrittura come mezzo di ricerca?» La risposta è certamente illuminante: «Io penso che la frase «tutto è già stato detto» vada rovesciata nel suo contrario. Per uno scrittore, «niente è già stato detto». Almeno di quello che vorrebbe dire lui. Il suo atteggiamento è semmai di pensare: «Quello che io sto per scoprire attraverso il linguaggio non lo ha mai detto nessuno prima di me». Io penso che questo sia vero. E trovo radicalmente falso che tutto sia stato detto. Naturalmente chi scrive si colloca anche in un rapporto ideale con la tradizione, con gli autori che l’hanno preceduto. Un poeta che oggi scrive d’amore dialoga anche con la poesia d’amore del passato e ne modifica e ne rinnova la lettura […] la novità assoluta compare solo nelle locandine teatrali, però il compito che uno scrittore affronta è di dire qualcosa che sia nuovo non solo per gli altri, ma per lui. È di scoprire. Perciò da un lato deve eludere la banalità, l’ovvietà, il noto. Dall’altro deve puntare a una sorta di sincerità metaforica, […] la sincerità stratificata che si esprime attraverso una pluralità di voci, all’interno di uno stesso scrittore.»
È in ogni caso importante «che uno scrittore sia sempre rivolto al futuro del testo più che al passato della memoria. Penso che Proust fosse orientato verso il futuro del suo percorso, tendesse a creare un universo espressivo in cui abitare. Attingeva al passato, però lo trasformava. Psicologicamente il suo interesse era per la metamorfosi, non per la memoria, era per la recherche, non per le temps passé.»
Qual è il ruolo dell’ispirazione? «Quando il latino dice Nulla dies sine linea, e cioè sottolinea l’importanza di non lasciare passare neanche un giorno senza tracciare almeno una riga, esclude forse l’ispirazione? No, sottolinea semplicemente l’importanza del lavoro, della concentrazione, della continuità. Se vogliamo, anche della tecnica. Questo non significa escludere l’ispirazione. Significa spostare l’accento su quella parte dell’operare artistico che può essere avvicinata e programmata. Significa anche predisporre lo spazio più adeguato per l’ispirazione, per i momenti in cui si manifesta. Si potrebbe addirittura sostenere che tutto il lavoro sia preparatorio, sia propedeutico alla ispirazione, ma non mi sento di dirlo, sarebbe una illazione che non mi persuade. Perché molta parte del lavoro artistico è costituita da correzioni, rifacimenti, tentativi che rientrano solo in minima parte in ciò che si suole definire ispirazione. C’è un aspetto anche di fatica sorda, che alcuni artisti non hanno mancato di compendiare in modi paradossali. Oscar Wilde, a proposito di ispirazione e di lavoro, diceva che uno scrittore può impiegare una mattina per mettere una virgola e un pomeriggio per toglierla. È auspicabile che non tutti i giorni siano così, ma l’ironia della provocazione riguarda sia l’ispirazione aleatoria sia la programmazione ottimistica. Flaubert diceva cose analoghe. Comunque anche vivere il senso di scacco a tavolino, «pensandoci sopra», come suggeriva Manzoni, di solito non è sterile, può costituire la premessa per superarlo, può produrre un’accumulazione di energia che poi trova l’alveo giusto per incanalarsi.»