
Cambiando metafora, voglio dire che il seme latino germinato sulla sponda sinistra del Tevere otto secoli prima di Cristo ha prodotto un albero gigantesco le cui fronde, più o meno folte, coprono oggi il mondo intero, per via innanzitutto linguistica. Le principali lingue neolatine (spagnolo, portoghese, francese, italiano) hanno infatti messo radici non solo nel Vecchio Continente ma ovunque nel mondo, particolarmente nell’America centromeridionale (compreso il Messico) e in Africa. Con l’approssimazione inevitabile in questo tipo di conteggi, si può affermare con sufficiente certezza che nel mondo, in questo primo scorcio di XXI secolo, circa un miliardo di persone sa parlare una lingua neolatina come prima o seconda lingua. Un abitante della Terra su sette è dunque in grado di comprendere con relativa facilità il significato del lessico di base di tutte le lingue romanze, o almeno di riconoscere una stretta parentela fra le proprie parole e quelle usate negli altri idiomi neolatini. Ad esempio, la parola latina “lingua” è rimasta identica in italiano, còrso, portoghese, occitano; la variante “lengua / llengua” in castigliano e catalano; “lenghe” in friulano; “”langue” in francese; “limba” in sardo e rumeno.
Parlavo di “petrolio culturale”. Sì, questa è la nostra ricchezza, fatta di un patrimonio lessicale estremamente raffinato e acuminato che consente (meglio, consentirebbe) con facilità di trasmettere idee e concetti complessi, di essere tradotto in forme iconiche e retoriche travolgenti; fatta di arte pagana e cristiana che ha inondato di bellezza pubblica e visibile tutti i nostri centri piccoli e grandi e ogni parte d’Europa, e che pulsa di mistero nei musei anche più periferici della nostra Repubblica Umanistica, da Lisbona (Museo del Carmo) allo straordinario Museo dell’Hermitage a San Pietroburgo. Tutto questo, vorrei aggiungere neanche troppo silenziosamente, dovrebbe costituire l’ossatura e lo spirito dell’Europa, non la moneta dell’alta finanza, l’euro.
Ricchezza fatta di tradizioni, di usi, leggi, costumi: “Ubi tu Caius et ego Caia” diceva la sposa novella al marito che le chiedeva (secondo il rito) come si chiamasse. Rispondendo così, ella dichiarava la sua fedeltà e la sua volontà di perfetta comunione con il suo uomo, dopodiché i parenti la sollevavano affinché entrasse nella nuova casa matrimoniale senza toccare la soglia. E il diritto romano costituisce, ancora oggi, il più grande e perfetto sistema di esperienze giuridiche cui il moderno legislatore possa ispirarsi; esso, ponendo al centro del sistema la libertà dell’uomo salvaguardando nel contempo i diritti della società e proteggendo gli interessi dei forti senza nel contempo lasciare indifesi i deboli, continua ancora oggi ad essere un potente muro di difesa contro la barbarie, che purtroppo abbiamo visto scatenarsi a più riprese nel mondo in questi primi quasi due decenni di XXI secolo.
Ricchezza fatta di pensieri e riflessioni profondi, autenticamente umani nel senso più alto della parola – se per “uomo” non si deve intendere un tubo digerente fornito di una bocca e quattro arti, ma l’unica creatura sulla Terra capace di unire in sé spirito e materia, “logos” e “soma” – espressi nelle forme alte e artistiche di una prosa e una poesia che non cessano di incantare e di indurci a un confronto tra la nostra nanitudine e l’eccellenza dei Cicerone, dei Seneca, dei Tacito, non per sentirci miseri ma per cercare di essere migliori.
Ricchezza, infine – e mi fermo qui solo per ragioni di spazio – fatta di sapiente uso di quel che la terra ci mette a disposizione, se ben accudita attraverso la pratica dell’agricoltura e dell’allevamento. Da qui una cultura gastronomica che è la nostra, fondata sul grano, sul vino, sull’olio, sul latte e sul formaggio, sulla carne di maiale e di manzo, sugli insaccati, sul pesce fresco, sul miele. Potremmo mai, avendo presente quali sono le nostre radici, accettare di “integrare” la nostra dieta con gli insetti? Follia.
Come si è evoluto il dibattito sull’utilità del latino ai giorni nostri e con quali posizioni?
Pare strano, ma già verso il 1830 il conte Monaldo, il signor Padre del ben più illustre figliolo, Giacomo Leopardi, scriveva pagine di fuoco contro gli “innovatori” e i “settatori astutissimi della cabala rivoluzionaria”, tesi a estromettere il latino dalla scuola, dai tribunali di giustizia, dalla scienza medica. Nel primo dei sedici brani antologici di “scudieri del latino” che ho raccolto, proprio Monaldo accosta più volte al latino il concetto di “utilità”, replicando con sdegno e con disprezzo a coloro che negavano che esso ne avesse alcuna.
Dice Monaldo: utile è il latino perché abitua al ragionamento logico, perché forza le menti dei piccoli alunni (sette-dieci anni) a imparare a memoria regole spinose; perché avvicina alla comprensione della lingua della Chiesa Cattolica; perché consente di leggere in originale gli splendidi testi della letteratura di Roma; perché la sua logica ferrea apre le menti e prepara i giovani allo studio consapevole di altre lingue; perché forma il gusto espressivo e stilistico in italiano; perché è mezzo di comunicazione tra persone colte di tutto il mondo. E continua deridendo gli sforzi, iniziati già ai suoi tempi, di inventare una “lingua universale” che avrebbe dovuto esentare gli uomini dal faticoso studio delle tante lingue diverse: il “risultato di tutto questo travaglio chimico, e veramente pulcinellesco” sarà il completo fallimento – aggiunge Monaldo – perché i decreti di Dio stabiliti a Babele sono irreversibili e comunque – se proprio si vuole – esiste già una lingua universale per la comunità dei dotti, e questa è il latino, che sarebbe follia voler estromettere.
Monaldo in questo sarebbe stato buon profeta: l’Esperanto, lingua universale artificiale creata da Zamenhof nel 1882, non ha avuto il successo che il suo inventore sperava, e oggi è usato da pochi e marginali appassionati. Quanto al Latino sine flexione, concepito nel 1903 dal matematico Giuseppe Peano per facilitare con un latino senza declinazioni la comunicazione scientifica internazionale tra studiosi di lingue diverse e difficilissime (come quella cinese o russa), ebbe una certa diffusione nei primi trent’anni del XX secolo, ma conobbe un’inarrestabile decadenza dopo la morte del suo creatore (1932) quando l’inglese cominciò a imporsi come lingua d’uso generale, sinché scomparve dall’orizzonte travolto dalla catastrofe della seconda guerra mondiale.
È chiaro che le spiegazioni di Monaldo sono in gran parte irrimediabilmente datate e marchiate da un’ideologia clerical-reazionaria che non ha certo potuto trovare ascolto nell’Italia post 1946, per quanto alcune sue idee gli siano lungamente sopravvissute sino ad arrivare ai giorni nostri, come ad esempio la ripetutissima affermazione secondo la quale “la logica ferrea del latino apre le menti”. Convintamente ripetuta quanto aspramente derisa dai pedagogisti democratici, che l’hanno usata per decenni come una delle più efficaci armi per sostenere l’implausibilità della tesi dei classicisti d’antan secondo cui il latino dovrebbe costituire l’architrave del sistema formativo proprio per la sua presunta capacità di forgiare le menti: ogni lingua infatti – e specialmente quelle con una grande letteratura alle spalle, come la russa, la tedesca, l’araba – è organizzata secondo regole logiche e talora molto complesse; e tutte le scienze matematiche richiedono un approccio severamente logico che non si capisce in che cosa sarebbe inferiore a quello del latino. Per questo motivo nel mio saggio dedico alcune pagine a disinnescare questa mina che con autolesionistica ingenuità tanti onesti amanti del latino continuano a maneggiare finché ovviamente non gli esplode fra le mani, spiegando quali sono le autentiche ragioni per le quali il latino va studiato, letto, insegnato con rigore e profondità, esteso all’intero ciclo delle scuole medie inferiori e possibilmente alle elementari: ma non certo per le ragioni di Monaldo. Quali siano non lo dirò qui. Invito a cercarle in “Per le nostre radici”.
Due parole invece sul concetto di “utilità”, che recentemente ha ispirato a Nuccio Ordine un saggio che ha acquisito una certa notorietà: “L’utilità dell’inutile” (Bompiani 2013). Questo paradosso ossimorico, ha indubbiamente un suo fascino: sventurata quella società che si appaga solo dell’utilità economicamente concreta di ciò che fa, pensa e produce, ignorando il valore aggiunto di una sonata di Bach, della conoscenza della metrica greca, di un affresco di Giotto, della lettura di Catullo… Quel che i materialisti e i capitalisti giudicano “inutile” è invece utilissimo per la formazione umana, per dare nutrimento allo spirito, senza il quale siamo tubi digerenti forniti di quattro arti per lavorare e mangiare.
Però. Però non tutto quadra come pare in quell’assioma dell’”utilità dell’inutile” che per la prima volta è stato coniato da Eugène Ionesco nel 1961. Il latino, la lingua latina, la letteratura latina non possono e non debbono essere inquadrati nel letto di Procuste delle coordinate “utile-inutile”.
Utile perché chi sa il latino capisce meglio il significato delle parole latine. Inutile perché lo studio della grammatica obbliga i ragazzi a stillarsi il cervello su declinazioni e coniugazioni sottraendo un mare di ore ad applicazioni molto più utili come l’elettrotecnica. Utile perché allena il cervello a una ginnastica mentale che servirà negli studi universitari successivi. Inutile e perfino dannoso perché allontana il ragazzo dalla realtà attorno a lui, facendone un disadattato.
Si capisce bene che andando avanti di questo passo si finisce in un circolo vizioso da cui non si esce più, fonte di una conflittualità permanente e irresolubile tra letteratura e ambito tecnico-scientifico. No, occorre uscire fuori da questa logica perversa. Anche di questo parlo nel mio saggio.
In un mondo sempre più anglofono e tecnologico, qual futuro per il latino?
Il conflitto fra inglese e latino è più apparente che reale. Come già soleva sottolineare il compianto grande linguista Tullio De Mauro (mancato l’anno scorso) l’inglese andrebbe nominato “lingua neolatina ad honorem”, in quanto circa il 75% del suo lessico è formato da prestiti dal francese (lingua ovviamente neolatina) o da parole derivanti direttamente dal latino.
Prendo a caso qualche riga dagli articoli di politica estera del ” rel=”noopener” target=”_blank”>Guardian di oggi:
Philippines president Rodrigo Duterte has ordered the arrest of another senator critical of his administration, revoking a seven-year-old amnesty granted to rebel-turned-senator Antonio Trillanes.
Duterte ordered the military and the police to apprehend Trillanes so that the former navy officer could face trial for leading two failed coups in 2003 and 2007 against the presidency of Gloria Arroyo, an ally of Duterte who was recently installed as speaker of the house of representatives.
“President” viene dal latino praesidens. “To order” dal latino ordo, ordinis. “Arrest” dal latino ad + restare. “Another” è collegato al latino alter, “uno fra due”. “Senator” è identico al latino senator e viene dal latino senex, “vecchio” e da senatus. “Administration” viene dal latino ad + ministrare.
Devo ancora andare avanti? Perché aver paura dell’inglese? Si potrebbero ricavare grandi cose da un proficuo incontro fra il latino e l’inglese. Per quanto riguarda il lessico tecnologico, è saturo di derivazioni greche e latine. “Computer” deriva dritto dritto dal latino computare, “calcolare” e “bit” è abbreviazione di “binary digit”, dove “binary” deriva dal latino bini (“due per volta”) e “digit” da digitus, “dito”. Niente paura: la tecnologia digitale applicata agli studi letterari e filologici ha consentito e sempre più consentirà di fare enormi progressi nel campo delle nostre conoscenze.