
Anzitutto c’è da dire che, com’è noto a tutti coloro che si siano accostati all’argomento, tra Basso Medioevo e prima Età moderna la disciplina del lusso è stata tipicamente una materia di ius proprium, cioè disciplinata a livello locale, tanto con legislazione cittadina quanto con fonti di diritto canonico particolare – cioè sostanzialmente con decreti dei vescovi, una fonte quest’ultima ad oggi relativamente poco studiata in relazione a questi aspetti.
Tale fioritura di diritto proprio rispondeva a una serie di ragioni fondamentali. Innanzitutto, lo ius commune (cioè quel diritto di matrice sostanzialmente dottrinale che venne elaborato a partire dall’XI secolo dai giuristi dottori sulla base tanto del Corpus iuris civilis giustinianeo quanto della legislazione conciliare e pontificia) forniva pochissime indicazioni utili per risolvere i problemi con cui le società cittadine bassomedioevali e moderne si confrontavano in relazione alla tematica suntuaria. Ciò derivava dal fatto che il lusso che i legislatori di queste realtà intendevano regolare era un fenomeno sostanzialmente originale, rispondente a dinamiche sociali che avevano fatto la loro comparsa solo negli ultimi secoli del Medioevo.
I vasti fenomeni di urbanizzazione sperimentati nell’Italia centrosettentrionale a partire dall’XI secolo diedero infatti vita a una nuova classe sociale, di origine mercantile, la cui prepotente ascesa economica e politica portò alla crisi di quegli equilibri consolidati, di matrice sostanzialmente feudale, che erano risultati ancora determinanti nella prima fase della vita cittadina. La nuova rilevanza assunta da questa componente recentemente arricchita della popolazione trovava espressione in ostentazioni di benessere che potevano assumere le forme più varie. Sappiamo ad esempio che molto frequente era lo sfoggio delle ricchezze di famiglia in occasione di cerimonie pubbliche come battesimi, feste di fidanzamento, prime messe ma soprattutto matrimoni e funerali: abbiamo ampie testimonianze di leggi che disciplinano nel dettaglio questi momenti, definendo puntualmente aspetti come il numero di sacerdoti chiamati a concelebrare la messa (talvolta anche dei ceri che potevano essere accesi sull’altare) o anche della qualità e quantità delle portate che potevano essere servite a tavola nel banchetto celebrativo.
Questa forma di ostentazione, per quanto significativa, è tuttavia secondaria rispetto a un’altra, che emerge proprio nel corso del Medioevo e che è quella a cui il mio libro è dedicato in via principale: vale a dire lo sfoggio in vesti e ornamenti femminili. È proprio in questi secoli che, attraverso un meccanismo che è stato studiato a livello sociologico sotto il nome di “consumo vicario”, si inizia ad attribuire all’apparenza delle donne, marginalizzate nel mondo del lavoro e del tutto escluse dalle funzioni pubbliche, la funzione di segnalare il benessere economico e il prestigio sociale della famiglia di appartenenza.
Nel fonti giustinianee e canonistiche non c’era però quasi nessuna norma che aspirasse a moderare il lusso nell’apparenza femminile: mentre nel Corpus iuris civilis si erano tramandate solo alcune costituzioni imperiali che proibivano sotto pena di morte agli individui di sesso maschile di sfoggiare determinati capi di abbigliamento o accessori che venivano considerati insegne imperiali, come le vesti di porpora o i finimenti per i cavalli (e le else delle spade) in oro, in ambito ecclesiastico la legislazione conciliare si era concentrata invece sul vietare ai chierici abiti troppo sfarzosi o eccessivamente stravaganti.
La regolazione dell’apparenza femminile, che era avvertita come un problema di ordine pubblico, perché mirava a ristabilire una visibile gerarchia in una realtà sociale che aveva perso i suoi tradizionali punti di riferimento, era un compito del tutto inedito, che i legislatori cittadini si trovarono a fronteggiare sostanzialmente ex novo.
Questo ha fatto sì che le testimonianze storiche che di ciò ci sono rimaste abbiano tutte le caratteristiche delle fonti di ius proprium: si tratta di un materiale archivistico che si è prodotto nel corso dei secoli in maniera alluvionale e che risulta attualmente disperso nei registri delle Riformanze (cioè nei verbali delle assemblee che esercitavano il potere legislativo) delle varie città.
A fronte di tanta dispersione (resa meno ostica per gli studiosi, negli ultimi decenni, dalla meritoria edizione di una serie raccolte di questi documenti, distinti per macroaree geografiche), l’idea originaria dietro alla mia ricerca era quella rintracciare nell’ambito della dottrina romano-canonica tutte le opere che avessero avuto l’ambizione di fornire un’elaborazione scientifica di questi fenomeni, al fine di utilizzarle per pervenire a un’interpretazione complessiva sul tema della regolazione del lusso tra Basso Medioevo e prima Età moderna.
Quale funzione avevano i provvedimenti suntuari?
Essendo un fenomeno di dimensioni continentali, che si è sviluppato senza soluzione di continuità tra XII secolo e fine dell’Ancien Régime, è impossibile attribuire a questo tipo di provvedimento un’unica funzione. Diciamo che in generale il loro scopo è stato quello di regolare il modo in cui le famiglie dell’epoca rappresentavano se stesse e la loro posizione sociale attraverso l’ostentazione del lusso, soprattutto per mezzo dell’abbigliamento.
È stato ipotizzato da alcuni studiosi che nella loro primissima fase i principali bersagli di tale legislazione restrittiva fossero gli esponenti di quelle famiglie aristocratiche che in molte città vennero progressivamente escluse dalla vita pubblica con l’ascesa del cosiddetto Popolo: si potrebbe così attribuire a questi primi provvedimenti, che riducevano la visibilità, e dunque l’influenza politica di tali stirpi, una funzione in un certo senso avvicinabile a quella della legislazione antimagnatizia.
In una fase successiva, le cui origini si possono collocare a metà del XIV secolo, è emersa invece, per paradosso, una funzione opposta: dal momento in cui si è iniziato a differenziare il lusso consentito sulla base all’appartenenza sociale delle persone a cui le norme si rivolgevano, gli interventi suntuari hanno iniziato a definire quella che è stata definita un’ “estetica di classe”, in modo da dare risalto pubblico a chi godeva di posizioni socialmente privilegiate.
La volontà di servirsi di questo tipo di strumenti legislativi per regolare l’abbigliamento attribuendo ad esso valenza simbolica non mancava di trovare applicazioni particolari: ad esempio quella di rendere immediatamente riconoscibili le appartenenti a gruppi marginalizzati, come le donne ebree e le prostitute, entrambe in molti centri esentate da ogni tipo di restrizioni proprio allo scopo di sottolineare la loro alterità rispetto alla comunità cittadina.
Accanto a tale utilizzo al fine di definire la collocazione sociale delle persone, realizzata modulando in maniera differenziata la loro possibilità di accedere ai beni di lusso, le leggi suntuarie rispondevano inoltre a un’importante funzione economica. Occorre tenere conto che gli anni che ho preso in considerazione – in sostanza, come dicevamo, i secoli di passaggio tra Basso Medioevo e prima Età moderna – sono anche quelli in cui la mercatura inizia ad essere esercitata in forma capitalistica. La nozione di capitale, cioè di denaro che può essere legittimamente investito in operazioni commerciali senza incorrere nei tradizionali divieti di usura, comincia ad essere divulgata dai predicatori proprio nel corso del Quattrocento. Ciò porta anche a nuovo modo di guardare all’acquisto di beni di lusso, come condotta antieconomica, che dissipava in vane ostentazioni fondi che si sarebbero potuti utilmente impiegare nella mercatura, con vantaggio per l’intera comunità.
In ragione di questa rinnovata mentalità, molti prologhi delle leggi suntuarie fanno riferimento alla volontà di razionalizzare il modo in cui la popolazione cittadina impiegava le sue ricchezze. La tendenza all’improduttivo utilizzo di esse viene denunciata in questi testi come causa di molti dei mali che affliggevano le comunità locali: molto spesso viene affermato, ad esempio, che le eccessive spese a scopo di ostentazione disincentivavano gli uomini a prendere moglie, dal momento che i costi sia del banchetto di nozze che dell’ornato necessario a una donna sposata per non sfigurare a livello sociale potevano risultare iperbolici. Per questo motivo le leggi suntuarie, che cercavano di abbattere tali costi ponendo un freno allo sfarzo esibibile in pubblico, rivendicano spesso la funzione di favorire i matrimoni, incoraggiando la crescita demografica.
Non bisogna infine dimenticare che sotto il profilo religioso la rinuncia ai lussi aveva un significato penitenziale. Per questo si assiste in genere a un accresciuto ricorso alla legislazione suntuaria all’indomani di guerre, pestilenze o catastrofi naturali: mettere al bando le più spregiudicate forme di ostentazione, specie nell’apparenza femminile, era considerato un modo per riconquistare il favore divino che si credeva perduto in ragione della propria disordinata condotta.
Su quali linee di tendenza si sono evolute le leggi suntuarie emanate nelle città italiane tra fine del Medioevo e prima Età moderna?
L’evoluzione più evidente sotto questo profilo, almeno per quanto riguarda la regolazione dell’apparenza femminile, è stata rappresentata dall’introduzione prima di una serie di clausole di esenzione in favore degli appartenenti a gruppi privilegiati, poi di una vera e propria diversificazione della disciplina applicabile sulla base del ceto.
Com’è stato messo in luce da alcuni illustri studiosi della materia, tra cui la prof. Maria Giuseppina Muzzarelli dell’Università di Bologna, una delle più approfondite conoscitrici di questi fenomeni, in questo percorso è possibile individuare tre diverse fasi.
La prima di esse ha inizio con la comparsa della legislazione suntuaria medioevale (convenzionalmente datata al 1157, anno a cui risale la più antica disposizione di questo tipo di cui ci è rimasta memoria, un breve genovese volto a vietare le preziose pellicce di zibellino). Essa, destinata a proseguire fino alla metà del XIV secolo, si caratterizza per norme di portata universale, che si applicavano nella stessa maniera a tutti gli abitanti della città, qualunque fosse la loro collocazione sociale.
Nel giro di circa due secoli questa originale onnicomprensività delle disposizioni suntuarie cominciò a incontrare dei limiti per effetto dell’introduzione di una serie esenzioni concesse in favore prima di determinati personaggi di spicco – di regola aristocratici e dottori in medicina e in diritto civile e canonico – poi anche delle loro mogli e figlie, mettendo mano così al progressivo riconoscimento dell’esistenza di un ceto privilegiato. Questa seconda fase, per così dire di passaggio, ha inizio verso la metà del Trecento e si protrae per circa un secolo. La possiamo ritenere conclusa verso la metà del Quattrocento, quando si afferma l’uso di leggi disciplinanti nel dettaglio l’apparenza dei membri di ciascuna delle varie classi sociali cittadine, individuando a questo fine una serie di elementi cui veniva attribuita una particolare rilevanza come indicatori di status: tra questi, ad esempio, la tipologia e il colore della stoffa utilizzata negli abiti, il numero di gioielli (collane di perle, anelli) che potevano essere indossati contemporaneamente in pubblico o anche la lunghezza degli strascichi consentiti, che variava considerevolmente a seconda della collocazione sociale della donna interessata.
Questo tipo di provvedimenti contemplanti un regime giuridico differenziato a seconda dello status dei loro destinatari risultano peraltro molto emblematici della natura della legislazione di Antico Regime, in cui a ciascuna regola generale faceva da contraltare una molteplicità di eccezioni, determinate sulla base dello statuto giuridico delle persone a cui si rivolgevano, essendo ancora del tutto assente l’idea dell’unità del soggetto di diritto, per cui la legge deve essere uguale per tutti.
Qual è l’importanza del trattato di Orfeo Cancellieri per la ricostruzione di tale disciplina?
Come ha osservato una volta in maniera divertita e penetrante il professor Filippo Liotta, direttore della collana che con grande generosità ha accettato di pubblicare il mio libro, frate Orfeo Cancellieri, docente di diritto presso lo Studium bolognese che al principio del Cinquecento, dopo una conversione in età matura, aveva abbandonato la cattedra per vestire il saio dell’Osservanza francescana, ha un po’ rappresentato il mio Virgilio: nel senso che il suo trattato ha costituito per me un punto di riferimento per comprendere ed esporre in maniera ordinata e fruibile per i lettori il confuso, alluvionale e ipertrofico materiale relativo alla legislazione suntuaria dei secoli che ho voluto prendere in considerazione.
Dal momento che oltre che giurista questo personaggio fu anche un predicatore di una certa fama, il suo trattato mi ha consentito di mettere a fuoco allo stesso tempo un altro fenomeno che ha segnato in maniera molto importante la storia delle città italiane tra Quattro e Cinquecento, vale a dire la predicazione itinerante da parte degli esponenti dei vari Ordini mendicanti. Nelle raccolte di sermoni di questi personaggi la condanna dei lussi femminili è un tema molto ricorrente, tanto che rispetto ad alcuni di loro – tra cui Bernardino da Siena, Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano e Bernardino da Feltre – è possibile parlare di una vera e propria crociata contro gli eccessi dell’ornato, che trovava il suo culmine nei cosiddetti falò delle vanità, dei rituali pubblici in cui gli abiti eccessivamente lussuosi venivano dati alle fiamme nelle piazze insieme ad altri oggetti colpiti dalla disapprovazione dei frati.
È interessante peraltro notare come, condannando la sterile tesaurizzazione in beni di lusso e incoraggiando l’investimento, questi predicatori fossero allo stesso tempo significativamente impegnati nel favorire la diffusione di un nuovo modo di vedere la vita economica, più rispondente a modi di produzione capitalistici che si andavano affermando negli stessi anni.
Tali idee economiche dei frati, unite a una concezione fortemente gerarchica della società e a una visione del tutto tradizionale del ruolo della donna, hanno rappresentato il sostrato ideologico che ha permesso a questi religiosi di rappresentare un efficacissimo strumento di propaganda al servizio di quei poteri pubblici che intendevano impegnarsi nella regolazione dei lussi.
Allo stesso modo soprattutto i Francescani osservanti hanno raggiunto un tale livello d’influenza sulle autorità cittadine da riuscire in molti casi a orientare le priorità della loro azione legislativa, dando essi stessi origine – specie in occasione delle campagne di predicazione quaresimale – a ulteriori iniziative di regolazione suntuaria. L’analisi specifica di tali iniziative, particolarmente frequenti in zone dell’Italia centrale come l’Umbria e le Marche, gode di un particolare spazio all’interno del mio volume, perché esse rappresentano precisamente il punto d’incontro tra i due macrofenomeni che ho inteso studiare sulla scorta del Cancellieri, vale a dire la legislazione suntuaria e la predicazione francescana osservante.
Quali indicazioni contiene il trattato del predicatore francescano?
Anzitutto il Tractatus risulta molto significativo dal punto di vista delle fonti utilizzate: essendo stato docente di diritto civile prima di entrare in convento, il suo autore passa in rassegna con grande acribia tutte le fonti di diritto romano e canonico rilevanti per gli aspetti che intende trattare, nonché le trattazioni dottrinali costruite sulla base di esse. Ciò ci permette di farci un’idea d’insieme di tutto ciò che era stato elaborato dalla tradizione di diritto comune in tema di regolazione dell’apparenza femminile. Seguire il percorso tracciato nel Tractatus mi ha portato a interessarmi anche di autori e generi letterari di regola abbastanza trascurati dalla ricerca storico-giuridica: sotto il profilo canonistico ad esempio il Cancellieri dà grande spazio alle trattazioni sul tema dell’ornato incluse nelle Summae confessorum, cioè i manuali per confessori, un genere che è stato a lungo poco studiato dagli storici del diritto, con poche lodevoli eccezioni.
Sotto il profilo contenutistico il Tractatus appare invece interessante perché presenta una molteplicità d’indicazioni sul tema della regolazione dell’abbigliamento, anche al di là dell’aspetto strettamente suntuario. Accanto alla trattazione del tema del lusso ci sono infatti molti spunti polemici contro l’abitudine di indossare capi succinti o comunque eccessivamente provocanti. Significativamente, mentre in ragione del meccanismo del “consumo vicario” che nominavo prima il vizio di pretiositas (cioè l’ostentazione di un’apparenza eccessivamente fastosa rispetto al proprio status) viene imputato soltanto alle donne, maschi e femmine sono biasimati da frate Orfeo nella stessa misura per questa forma d’impudicizia. Ciò trova d’altronde un preciso riscontro nell’inclusione, all’interno delle leggi suntuarie emanate negli stessi anni sotto l’influenza della predicazione osservante, tanto di norme che regolavano la profondità delle scollature delle signore quanto di disposizioni che vietavano agli uomini di sfoggiare in pubblico braghette così aderenti da dare scandalo, lasciando poco spazio all’immaginazione.
Per quanto riguarda invece l’aspetto del lusso, risulta particolarmente significativo come pur appartenendo a un movimento che poneva al centro del suo modello di vita l’ideale di povertà volontaria, il Cancellieri è pronto a uniformarsi alle idee dei suoi contemporanei in merito all’accesso differenziato ai beni di lusso: il conservatorismo politico tipico del movimento osservante porta a vedere nella regolazione delle apparenze un imprescindibile strumento per rendere visibile, e dunque per riaffermare, le gerarchie sociali della tradizione, in un momento in cui esse cominciavano ad essere messe con forza in discussione.
Federica Boldrini è nata a Roma nel 1984. Dopo la maturità classica, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, laureandosi con lode nel 2009 con una tesi in Storia del diritto italiano, ottenendo nel 2013 un dottorato in questa materia. Da quel momento svolge attività di ricerca nelle materie storico-giuridiche, con particolare interesse nella storia del diritto canonico, negli iura propria di età medioevale e moderna nella letteratura giuridica francescana. È avvocato canonista e collabora con la cattedra di Storia del Diritto italiano dell’Università di Parma.