
E che ruolo svolge il filosofo scozzese nel romanzo di Dacia Maraini?
Sarei incline a rispondere un ruolo fondamentale, se non sapessi bene che chi studia qualcosa è sempre incline a pensare che quel qualcosa sia fondamentale in tutto e per tutti. Chi studia Hume da tempo finisce per vederlo sempre e ovunque. Nella Lunga Vita Hume svolge un ruolo importante per il movimento di liberazione di Marianna attraverso la conoscenza di sé e del mondo. Hume conduce Marianna nelle regioni del sentimento, in opposizione a ragione ed educazione, soprattutto a un’educazione che pretende di fondarsi sulla ragione e invece si fonda soltanto su tradizioni e abitudini, su convenzioni che non sempre aiutano a vivere meglio, quanto meno non aiutano tutti. Perché in pochi sopportano la libertà di Marianna e tutti la vorrebbero casta, mentre lei pensa di poter disporre di sé come crede. Marianna è “mutola” (anche se non dalla nascita), non parla ma legge continuamente, in un mondo di mani che non hanno mai sorretto un libro per più di due minuti; immersa nella sua poltrona può leggere per tutta la notte. Ma Hume è per lei qualcosa di nuovo, rispetto alle letture abituali; lei che ha “girovagato sbadatamente fra romanzi di avventure, libri d’amore, libri di storia, poesie, almanacchi, favole”. Hume è un nuovo modo di pensare e Marianna, “disabituata a pensare secondo un ordine preciso, radicale”, si trova costretta a rileggere due volte per entrare nel ritmo di questa intelligenza prorompente, “così diversa dalle altre intelligenze che l’hanno tirata su”, per entrare nel ritmo di una logica “petulante e ostinata”. La lettura di Hume è una frustata nelle gambe del pensiero di Marianna, che si trovava abbandonato “all’incuria delle antiche incertezze”. Ma Hume non è soltanto un pensiero, è anche un corpo, un volto: “Un uomo sui trent’anni con un turbante di velluto a righe che gli copre le tempie. Una faccia larga, soddisfatta, gli occhi che guardano verso il basso come a dire che tutto il sapere viene dalla terra su cui poggiamo i piedi. Le labbra sono leggermente dischiuse, le sopracciglia folte e scure suggeriscono una capacità di concentrazione quasi dolorosa. Il doppio mento fa pensare a un signore che mangia a sazietà”.
Ma qual è la storia del turbante e del suo colore?
Beh, per quella bisogna leggere il libro, fino in fondo, compreso il dialogo conclusivo, dove parlano le rose e dove Dacia racconta la storia di Odilia, senza dimenticare la copertina: è un ritratto del pittore Allan Ramsay, un amico di Hume. Insieme, nel 1754, quando fu dipinto il ritratto, avevano fondato la Select Society. E proprio Ramsay nel suo Dialogo sul gusto, più esattamente l’Investigatore (lo sto traducendo), pubblicato un paio d’anni prima del Criterio del gusto (1757) di Hume (l’ho tradotto), rappresenta il problema delle lettrici, che Hume riteneva giudici molto migliori degli uomini e per le quali pensava che la storia fosse più adatta dei “romanzi per signorine che parlano d’amore con ipocrita licenza”, come li chiama Marianna. Nel Dialogo il Colonnello Freeman, il portavoce di Ramsay che ricorda anche uno Hume radicale, si lascia scappare di aver fatto un discorso poco gradevole per le “signore” e propone di parlare di ballerine, ma le signore sono veloci a reagire: “ti dovresti scusare per avere interrotto una conversazione seria a causa nostra, come se fossimo incapaci di farci intrattenere da qualcosa che non sia frivolo”. Marianna, che si intrattiene anche con il pensiero profondo, sceglie Hume. Non legge i Saggi, morali e letterari, e nemmeno la Storia di Inghilterra, che Hume avrebbe ritenuto appropriati al pubblico femminile colto, senza dubbio più colto di quello maschile. Marianna sceglie il Trattato sulla natura umana, cioè quel libro che per la forma, più che per il contenuto, Hume credeva “nato morto dal torchio”. E non soltanto il libro sulla Morale, o quello sulle Passioni, ma anche il libro sull’Intelletto. Insomma, Marianna sceglie un volume pieno di ragionamenti “astrusi” che, per ammissione di Hume, presentano un inconveniente: possono ridurre al silenzio senza convincere e, perché se ne colga la forza, richiedono lo stesso studio intenso che è stato necessario per inventarli. Ragionamenti che – molti filosofi (non tutti) si sarebbero detti d’accordo – non sono affatto adatti alle donne. Marianna legge quello che il filosofo Alfred Ayer considerava “il più grande di tutti i filosofi britannici”.
Nel romanzo della Maraini, Marianna legge e rilegge il Trattato sulla natura umana: quali convinzioni genera in lei?
Forse, più che quali convinzioni genera, – Marianna su certe cose è riservata – è più facile dire quali convinzioni aiuta a demolire. Convinzioni infondate, pregiudizi: la voce e il ragionamento di Hume chiedono a Marianna di “osare, mandando al diavolo quella montagna di superstizioni ereditarie”. Ma il discorso sulle pagine del Trattato, che Marianna legge e fa leggere, è un discorso tecnico, che è meglio affidare alle pagine di “Pensare il pensiero”. In ogni caso ci sono ancora tante domande che restano senza risposta, come quella sulla lotta tra le passioni e la ragione: “la ragione è, e deve soltanto essere, la schiava delle passioni”, recita il Trattato. “Questo adagio – osservava Bertrand Russell nel 1954 – non viene dall’opera di Rousseau o di Dostoevskij, e nemmeno da quella di Sartre. Viene da David Hume. Esprime un punto di vista che io, come chiunque altro voglia essere ragionevole, sottoscrivo completamente”. La ragione schiava delle passioni. È l’esatto contrario di quello che hanno insegnato a Marianna. Anche Marianna, come Russell, è d’accordo con Hume? Ci sono domande che, soprattutto tra gli studiosi di Hume, hanno dato vita a discussioni infinite. Ci sono molte cose che non sappiamo. Marianna leggeva il Trattato in inglese? C’erano altre pagine importanti per lei che noi non conosciamo? Che cosa ha escluso dal suo resoconto? Perché proprio Hume e non qualcun altro, per esempio Voltaire? Forse, in attesa che qualcuno scopra e ci dica qualcosa di più, come suggeriva Hume nel Trattato, non dobbiamo affannarci a cercare quel che ci sfugge: “ciò che è conosciuto, si accorda con sé, ciò che è sconosciuto, accontentiamoci di lasciarlo com’è”. In ogni caso, nel pensiero di Hume, Dacia Maraini continua a trovare almeno tre cose: la conoscenza come esperienza, la rivolta laica al totalitarismo religioso, una nuova idea di libertà e di uguaglianza.
Si può raccontare Hume leggendo la Lunga vita, e la Lunga vita leggendo Hume? È possibile tracciare un parallelo tra le vite di Marianna e di Hume?
Sì, si può. Almeno si può provare. Io ci ho provato seguendo il principio che per Hume era il cemento dell’universo: l’associazione delle idee (per somiglianza, contiguità e causazione). Coincidenze, direbbe Dacia. Forse, se volessimo trovare un punto di contatto nelle vite di entrambi, questo è l’amore (e, in qualche occasione, un certo gusto per lo scandalo). Marianna si innamora di un servitore, Saro, Hume di una contessa, Madame de Boufflers. Sono due amori che non portano a una vita di coppia, portano ad altro. Marianna non si risposa ma viaggia, e Hume non si sposa ma torna in Scozia. Marianna, che ama i colori, fa la pittrice e ritrae, Hume, che non sa disegnare, è amico di un pittore famoso da cui viene ritratto. Marianna pensa al suicidio, Hume ne scrive. Entrambi leggono molto e si prendono cura di biblioteche. Hume spiega il mondo con la “simpatia”, la capacità di addentrarsi nelle opinioni e nelle passioni degli altri, Marianna, che non sente e non parla, la pratica per tutta la vita, perché ha il dono di “entrare nella testa degli altri”. Le loro vite s’incrociano e per un certo tratto camminano mano nella mano. Che si possa raccontare Hume leggendo la Lunga vita, alla fine credo di averlo mostrato, magari soltanto indicato; che poi si possa tornare alla Lunga Vita, dopo aver letto “Pensare il pensiero”, senza dubbio lo mostra Dacia Maraini nel Dialogo conclusivo tra Marianna e il signor Grass (c’è un dialogo anche alla fine della Ricerca sui principi della morale): “Ho fatto conoscenza col suo amico Hume, caro Grass, attraverso di lei che mi ha fatto leggere gli appunti ricopiati sui suoi preziosi quadernetti che porta sempre nella tasca. Una tasca che pesa, infatti lei cammina piegato da una parte, l’ho notato. La filosofia pesa, ma forse no, sbilancia. Eppure lei cammina con una grazia da uccello di lago e mi piace guardarla quando si muove nel giardino in mezzo alle piante. Sempre pronto a spiccare il volo. Caro Grass, quello che lei mi ha fatto capire del pensiero di Hume è la grande novità dell’origine della conoscenza. Da dove deriva la nostra conoscenza? Dalle grandi idee stabilite una volta per sempre da un Dio al di sopra di tutte le cose? Un dio che ci soffia nell’orecchio, col suo fiato di fuoco, le parole della conoscenza? Oppure dalle piccole banali esperienze che fa il nostro corpo avanzando nel mondo delle spine e delle rose? Forse viene da lì lo scandalo del pensiero che pensa se stesso”.
Emilio Mazza (1962) insegna all’Università IULM di Milano e studia Hume. Su Hume ha pubblicato La peste in fondo al pozzo (2012) e Gazze, whist e verità (2016), e numerosi saggi in raccolte internazionali, come Impressions of Hume (2005) e Reading Hume on the Principles of Morals (2020). Insieme a Emanuele Ronchetti ha curato i New Essays on David Hume (2007). Ha tradotto i Dialoghi sulla religione naturale (1996) e il Discorso sul metodo (2014). Insieme a Michela Nacci, ha pubblicato il saggio sui caratteri nazionali Paese che vai (2021).