
Il libro parla del “patrimonio culturale” e soprattutto dei “programmi politici” per il patrimonio culturale immateriale. In cosa consistono questi programmi?
Per patrimonio culturale non si intendono solo i quadri, i monumenti, gli oggetti preziosi, ma anche le tradizioni, il rispetto per l’ambiente, i dialetti, le varie forme della socializzazione locale. Ma, come dice Pietro Clemente nella sua prefazione al nostro libro, si sbaglia chi pensa che il patrimonio sia una torsione verso il passato. Esso è, al contrario, una proiezione verso il futuro. Un “patrimonio” va oltre la mera pratica della tradizione, perché implica una riflessione, un ragionamento sulla sostenibilità, una responsabilizzazione per il futuro, una tensione verso le generazioni future. Sicchè, gli elementi che configurano un “patrimonio culturale immateriale” possono essere salvaguardati solo in accordo tra i gruppi, perché i beni culturali immateriali sono dinamici, si spostano con le persone, spesso sono anche sono trans-nazionali. Perciò le organizzazioni internazionali, e in particolare l’UNESCO, hanno sollecitato da parte degli Stati forme di legislazione universalistica che cercano di far dialogare i popoli, evitare le guerre e, in caso di guerra, cercano di evitare la distruzione dei patrimoni naturali e culturali. Tra i vari programmi internazionali per la salvaguardia del patrimonio culturale, c’è uno strumento che per noi autrici è particolarmente innovativo: la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, ratificata ad oggi da moltissimi Stati, ben 178, tra cui l’Italia. Questo grande patto internazionale, voluto da antropologi culturali di tutto il mondo per stimolare le comunità a salvaguardare democraticamente i loro beni immateriali, ha dotazioni economiche limitate e si avvale soprattutto di uno strumento simile ad un “inventario”. Parlo delle “Liste internazionali del patrimonio immateriale”, che raccolgono ad esempio elementi come la Dieta Mediterranea, iscritta nel 2013; la Coltura della vite ad alberello di Pantelleria, iscritta nel 2014; o l’arte dei muretti a secco, iscritta nel 2018. Giusto per dare un’idea, ogni comunità (anche molto ampia) riferita a ognuno di questi elementi ha dovuto realizzare un progetto riflessivo e sostenibile, un programma di riconoscimento della dimensione culturale e ambientale del proprio sviluppo, e ha dovuto fare ciò aprendosi al confronto e ad una dimensione di rete. La Convenzione del 2003 stimola nelle comunità questo nuovo approccio che rende i gruppi stessi protagonisti della trasmissione culturale e responsabile dei loro processi di sviluppo sostenibile e pacifico. Spiegare come le comunità riescano a confrontarsi con le Liste e con i vari livelli della patrimonializzazione (provinciale, regionale, nazionale, internazionale) è stato possibile grazie all’esperienza di Valentina Lapiccirella Zingari, che è facilitatore nella strategia globale di “rafforzamento delle capacità” della Convenzione del 2003 e da trent’anni lavora nello sviluppo sostenibile su base culturale.
Quale futuro per il patrimonio culturale immateriale? Cosa prevede?
Il patrimonio culturale, materiale e immateriale, finora ha rischiato la mummificazione: immaginiamo quante persone pensano che le tradizioni debbano restare fedeli ad epoche passate, a costo di essere insostenibili nel presente, di ledere i diritti altrui o danneggiare l’ambiente. Rischia anche la spettacolarizzazione e lo sfruttamento commerciale, che spesso privano le comunità del loro ruolo culturale “collettivo” e consentono a pochi privilegiati di accaparrarsi i proventi di questo sfruttamento. E rischia, oggi più che mai, anche la distruzione a causa di guerre, pandemie, terremoti e altre calamità, in un mondo dominato dalla crisi delle relazioni internazionali e animato da una nuova, pericolosa chiusura delle nazioni, cioè il “sovranismo”. La Convenzione del 2003 è una legislazione strategica che cerca di contro-bilanciare tutto questo, è un processo che cerca di cambiare le politiche degli Stati-parte attraverso una scienza come l’antropologia culturale, che guarda alla “condizione umana” nella sua globalità, che riesce a dialogare con le altre scienze, e che le relazioni umane le studia nelle loro diversità storiche, tra singolarità e comunità, tra agire pratico e memoria, tra creatività e identità. Oggi, le misure di distanziamento fisico necessarie per arginare la pandemia da COVID-19 hanno sospeso la socializzazione, cancellato pratiche rituali, collettive, espressive, e questo rischia di spezzare equilibri vitali nei gruppi e nelle collettività. Penso che questo renda l’idea dell’importanza, per i singoli e la collettività, del patrimonio culturale immateriale.
Lia Giancristofaro insegna Antropologia culturale presso l’Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara