“Passione e finzione. L’immagine dell’attrice nella narrativa dell’Ottocento” di Sandra Pietrini

Prof.ssa Sandra Pietrini, Lei è autrice del libro Passione e finzione. L’immagine dell’attrice nella narrativa dell’Ottocento, pubblicato dalle Edizioni dell’Orso: quale immagine della donna di teatro propugna la narrativa francese dell’Ottocento?
Passione e finzione. L'immagine dell'attrice nella narrativa dell'Ottocento, Sandra PietriniNei romanzi francesi dell’Ottocento l’immagine della donna di teatro è spesso associata a quella delle cortigiane e delle cocottes, mantenute di lusso che si esibiscono sulla scena soprattutto per mettersi in mostra e attrarre amanti facoltosi. L’esempio più noto, e per molti aspetti estremo, è la protagonista del celebre romanzo di Zola, Nana. Alle affascinanti e spregiudicate donne di teatro si contrappongono, fin dalle prime opere narrative di argomento teatrale, le attrici virtuose, continuamente insidiate dalle brame maschili, ma si tratta di figure eccentriche, minoritarie rispetto alla linea dominante. In ambito francese, l’assimilazione delle attrici a donne di facili costumi raggiunge il culmine proprio nel corso dell’Ottocento. Alcune donne di teatro sono protagoniste di una parabola di ascesa e caduta, che le vede infine andare alla deriva, ma molto più spesso sono la rovina dei giovani di buona famiglia. Seducenti sirene che attirano giovani aspiranti artisti con il loro fascino, accresciuto dal desiderio che suscitano nel pubblico, li portano al dissesto economico, alla perdita dell’ispirazione e delle illusioni. I giovani ingenui giunti dalla provincia alla moderna vita frenetica delle città sono le vittime predilette di queste maliarde. Anche quando non si tratta di avide simulatrici ma di povere ragazze un po’ frivole che si sono date al teatro indotte dalle circostanze, e che decidono poi di abbandonare il teatro per amore, come accade a Eva nel lungo racconto di Verga, il rientro in una dimensione borghese è quasi sempre impossibile.

D’altra parte, vi sono anche molti esempi di attrici-cocottes che si riscattano dal teatro attraverso la passione amorosa, come Coralie nelle Illusions perdues di Balzac: anima bella e pura, indotta dalla necessità a una vita dissipata, lascia il vecchio amante che la manteneva appena si innamora di Lucien de Rubempré, che amerà con una dedizione assoluta, per poi morire prematuramente. Dietro le attrici e le cortigiane si cela talvolta un “angelo d’amore”, una tensione verso l’assoluto e la spiritualità, un desiderio cocente di purezza sconosciuti alle altre donne. Si tratta di una riabilitazione morale che passa attraverso l’abnegazione e il cedimento alla passione amorosa, che come un fuoco brucia e purifica. Modello esemplare questa combustione, in cui eros e thanatos si ricongiungono, è la protagonista del celebre romanzo di Dumas fils, La Dame aux camélias. Marguerite Gautier incarna il destino tragico della donna perduta, che non può essere riabilitata dalla società e sarà condannata a morire romanticamente di tisi, sebbene moralmente riscattata dall’amore.

Ma non tutte le donne di teatro si lasciano trasportare dalla passione. Nell’immaginario pregiudiziale dell’Ottocento, la donna possiede una naturale inclinazione alla finzione, che nelle attrici si trasforma in una tendenza alla simulazione continua e all’inganno anche nella vita. L’immagine delle scaltre e avide maliarde raggiunge un culmine parossistico nella letteratura decadente degli ultimi due decenni del secolo, con le parodie della celebre Sarah Bernardt. Nelle Mémoires de Sarah Barnum (1883), biografia immaginaria scritta dall’attrice rivale Marie Colombier, la protagonista è descritta quasi come un fenomeno da baraccone, avida di réclame e di scandali, immorale e priva di scrupoli, mentre in Dinah Samuel (1889) di Félicien Champsaur è definita addirittura la grande prostituta di Parigi. La dissacrazione dell’immagine della donna di teatro non potrebbe essere più caustica ed estrema.

In che modo Nana di Zola rappresenta un modello esemplare di tale attrice-cortigiana?
Nana è la perfetta attrice-cortigiana, che usa il teatro per salire alla ribalta dell’attenzione mondana e possiede una capacità di attrazione devastante nei confronti di tutte le classi sociali. Giunta all’apice del successo, viene definita da un giornalista la “mosca d’oro”, che sale fino ai palazzi aristocratici per portarvi l’infezione morale che determinerà la corruzione e la rovina di un’intera società. Nana è nata dai bassifondi parigini, cresciuta nel fango e nel letame dell’abiezione come una pianta rigogliosa che sprigiona tutto il suo profumo inebriante. La metafora floreale, che nel caso di Nana prefigura anche la marcescenza e la putrefazione della sua fine, attraversa peraltro tutta la produzione narrativa di Zola, come cerco di dimostrare ricorrendo ad alcuni esempi. Un ruolo fondamentale è svolto dal camerini-boudoirs, regni in cui trionfano le dive della scena, paragonati a serre in cui si addensano gli umori malsani della sensualità femminile. Insieme alle metafore ferine, che vedono Nana assimilata a una gatta e a una cavalla da corsa, l’immaginario floreale rappresenta la natura inconsapevole e primitiva del personaggio. Nana può anche essere interpretata come uno strumento di rivalsa inconsapevole nei confronti di un’aristocrazia in decadenza, di cui accelera il processo degenerativo, ma è soprattutto una forza oscura e distruttiva, che deriva dalla degradazione e corruzione del corpo sociale. Le sue vittime sono infatti soprattutto i membri debosciati e infiacchiti della nobiltà parigina, che si lasciano rovinare economicamente con una sorta di voluttà.

Nana costituisce un modello imprescindibile di attrice-prostituta, che trascorre con disinvolta facilità dai marciapiedi ai salotti del bel mondo passando per il palcoscenico di un teatrino dei boulevard, dove si esibisce senza alcun talento, poiché non sa né cantare né ballare, né tantomeno recitare. Le sue alterne fortune la riportano dal lusso della condizione di mantenuta al degrado della prostituzione e della miseria durante la parentesi della relazione con un attore che la maltratta, per poi vederla risalire fino all’apoteosi del successo e della ricchezza ostentata e, infine, al disfacimento fisico che la vedrà ridotta a un ammasso informe divorato dal vaiolo.

Un motivo ricorrente del romanzo è il voyeurismo associato al desiderio maschile, che in Nana assume le forme di una ventata di curiosità sensuale che induce tutta Parigi ad accorrere ad assistere al suo debutto. Nei romanzi di fine secolo, questo voyeurismo acquisirà una connotazione morbosa e persino grottesca, con i dettagli piccanti della vita privata delle dive dati in pasto alla curiosità del pubblico dai giornalisti. L’insistenza sulla natura sensuale e quasi ferina dell’attrazione esercitata da Nana, che si ritrova in romanzi precedenti meno noti di ambito francese, sarà rilanciata ed esasperata nella narrativa sulle attrici di fine secolo.

Quale diverso paradigma si riscontra, invece, nella letteratura popolare britannica?
In ambito anglosassone, la figura dell’attrice assume connotazioni molto diverse da quelle che ha nella narrativa francese e italiana. In molti romanzi, il teatro viene associato con il disordine della trasgressione, con la perdita del pudore e dell’individualità. Il pregiudizio antiteatrale di fine Settecento e dell’inizio dell’Ottocento, su cui si sono soffermati alcuni studi critici, lascia gradualmente spazio a una legittimazione morale della professione proprio nella narrativa popolare di largo consumo, un ambito ancora poco esplorato. Paradossalmente, questa rivalutazione che investe la figura dell’attrice passa tuttavia dal recupero del suo ruolo di moglie e madre, negando la sua irriducibile alterità (persistente nella letteratura francese), deprivandola anche di ogni potenziale seduzione erotica. Il sessuofobico immaginario vittoriano tende del resto a evitare ogni riferimento all’attrazione sensuale esercitata dalle donne di teatro, privilegiando un’estetica idealizzata, fatta di bellezze esangui ed eteree, come rivelano molto chiaramente anche le arti figurative.

A partire dalla metà dell’Ottocento, sono sempre più numerosi i romanzi che hanno per protagonista un’attrice, al punto da divenire, nel corso del secolo, quasi un filone narrativo specifico, che raggiunge un culmine negli anni ’80. Si tratta di romanzi popolari, che hanno tutte le caratteristiche della narrativa d’appendice, con l’eroina femminile indotta a intraprendere la professione scenica dalle circostanze, come la condizione di orfana e le necessità economiche. Nella narrativa inglese e americana di fine Ottocento, la teatralità conserva una connotazione negativa, ma viene spesso associata con i convenzionalismi ipocriti dell’alta società piuttosto che con le giovani attrici che ne sono vittime. Sfidando i pregiudizi sull’ambiente – che comunque non è quasi mai descritto con i toni crudi e disincantati dei romanzi continentali – le protagoniste di questi romanzi rivelano grande determinazione, tenacia e forza morale. Le loro virtù sono quasi sempre premiate con un matrimonio che le induce ad abbandonare definitivamente il teatro e le eleva di status, come si addice a una favola romantica con tanto di happy ending. Questi romanzi, in alcuni casi affini alla sensation novel, sono spesso scritti da attrici, che intendono mostrare come la carriera teatrale possa essere un modo per raggiungere l’indipendenza conservando la propria virtù e persino il pudore tanto apprezzato dalla morale vittoriana. Del resto, diversamente dalle artiste di teatro francesi, le attrici della narrativa britannica non mostrano particolari predisposizioni alla coquetterie e alla vanità, e devono semmai combattere contro il proprio pudore e ritrosia nell’esibirsi sulla scena. Se da un lato il romanzo popolare d’attrice contribuì alla battaglia per l’emancipazione femminile attraverso l’etica del lavoro, dall’altro conferma la concezione vittoriana dominante, che vede il posto naturale di una donna a fianco del marito, come regina della casa.

Una sana riluttanza all’esibizione di sé caratterizza anche la protagonista dell’unico romanzo dell’epoca esplicitamente ispirato al naturalismo francese, A Mummer’s Wife (1883) dell’irlandese George Moore, una donna borghese che si dà al teatro, abbandonando il marito per seguire un attore di cui si è infatuata, e finisce per precipitare nel gorgo dell’alcolismo. Ma si tratta di un esempio eccentrico, difforme dal modello dominante che vede le giovani attrici ergersi come modelli positivi di virtù e resistenza alle tentazioni dell’ambiente e del mestiere. Una prospettiva più moderna ed emancipata, anticipata da alcuni romanzi meno noti, emerge invece in The Tragic Muse (1890) di Henry James, la cui protagonista rinuncia a un matrimonio prestigioso per continuare la carriera teatrale, che ha perseguito con tenacia e dedizione, mostrando di saper affinare la propria recitazione combinando sapientemente tecnica e ispirazione.

In entrambi i contesti da Lei analizzati, le riflessioni sull’arte della recitazione si affrancano a fatica dai pregiudizi associati al mestiere: quale immaginario ruota, attorno alla vita di un’attrice, nell’atmosfera culturale dell’Ottocento?
Alle accuse di immoralità che gravano sulle attrici – poste in evidenza nella narrativa francese ma spesso rimosse o rigettate sullo sfondo in quella britannica – si affiancano altri pregiudizi altrettanto radicati. Innanzitutto l’idea che il teatro sia alternativo a una vita familiare, ossia al ruolo di moglie e madre, che come dicevo tende a essere superato nei romanzi popolari inglesi, in cui la protagonista finisce quasi sempre per sposare un ricco altolocato. In ambito francese, continua invece a serpeggiare sottotraccia l’idea che le attrici siano donne diverse dalle altre, inclini alla simulazione o dotate di un istinto teatrale insopprimibile, che le riporterà inevitabilmente al loro mestiere. Meno permeata dal moralismo perbenista, la letteratura francese risente comunque di alcuni pregiudizi sul mestiere. Se ne può vedere un esempio nel romanzo di Edmond de Goncourt La Faustin (1882), la cui protagonista, dopo aver abbandonato le scene per seguire il proprio amante, vede riaffiorare in sé un’insopprimibile vocazione teatrale. Goncourt ha un approccio molto originale al tema della recitazione: si ispira infatti alle più audaci teorie di psicologia sperimentale dell’epoca, offrendoci addirittura un esempio di applicazione intuitiva ante-litteram del meccanismo dei neuroni specchio. Nel romanzo dà ampio spazio alla genesi del personaggio da parte dell’attrice protagonista, esplorando i complessi meccanismi dell’interpretazione e le conseguenze emotive dell’immedesimazione, un tema che negli ultimi due decenni del secolo viene affrontato sempre più spesso anche nelle riflessioni teoriche sull’arte della recitazione. D’altra parte, Edmond de Goncourt porta alle estreme conseguenze il perdurante pregiudizio sull’irriducibile diversità dell’attrice, un essere ‘dionisiaco’ dalla personalità multipla, sensibile e permeabile alla fisiologia delle emozioni, esposto al rischio di disintegrazione dell’io, ma anche uno sciacallo dell’espressione dei sentimenti, capace di continui sdoppiamenti e pronto a trasformarsi in una macchina scenica priva di umanità. Anche un eccesso di identificazione nel personaggio può esporre a gravi rischi le giovani virtuose e sensibili, vittime di un processo fatale di autocombustione come Stella (1856) nel racconto dell’attrice e oratrice americana Anna Cora Mowatt.

La professionalità delle artiste di teatro si fa dunque strada a fatica fra pregiudizi e luoghi comuni, che gravano pesantemente sull’immagine della donna di teatro. Sarà soltanto con The Tragic Muse di Henry James che il carattere caleidoscopico della personalità istrionica diverrà una risorsa estetica, che l’attrice riesce a ricomporre nella levigata coerenza apollinea dell’interpretazione. Anche in altri romanzi meno noti, come Macleod of Dare di William Black, affiorano aspetti legati alla professionalità delle attrici e all’arte della recitazione, un tema che ha molte implicazioni e ramificazioni, connesse con le esplorazioni della psiche delle nuove scienze sperimentali, che condurranno alla nascita della psicanalisi. È in queste intersezioni e convergenze tematiche che la storia dello spettacolo, e più in particolare l’immaginario teatrale, rivelano una profonda connessione con lo studio comparativo dei contesti culturali, dei meccanismi sociali e dei mutamenti nella mentalità.

Sandra Pietrini è professore ordinario di Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università degli Studi di Trento. Tra le sue pubblicazioni: L’arte dell’attore dal Romanticismo a Brecht (Laterza 2009) e, per Bulzoni, Spettacoli e immaginario teatrale nel Medioevo (2001), Fuori scena. Il teatro dietro le quinte nell’Ottocento (2004), Il mondo del teatro nel cinema (2007) e I giullari nell’immaginario medievale (2011). Ha curato l’edizione critica di un copione inedito dell’Amleto conservato presso la Biblioteca Federiciana di Fano (L’Amleto di Cesare Rossi, 2014) e pubblicato numerosi articoli in riviste italiane e straniere. Dirige il Laboratorio Teatrale e il Progetto Arianna, il più esteso meta-archivio iconografico shakespeariano esistente.

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