
Questi stereotipi – che si autoalimentano a dismisura grazie a narrazioni semplici, immediate e apparentemente convincenti – sono scorciatoie del pensiero, alibi all’ignoranza, esche formidabili per i costruttori di dissenso. Un tassista mi ha dato una bella idea: e se coinvolgessimo i migranti nella ricostruzione post terremoto? Un altro, polacco, mi ha detto: perché tutti quelli che abitano o arrivano in Europa non firmano una Carta di valori? Attenzione: i pregiudizi bruciano la speranza in un futuro migliore.
I social media alimentano la circolazione di falsità e pregiudizi?
Sui social, per le loro caratteristiche intrinseche, è certamente più facile veicolare frasi fatte e slogan che si usano in modo leggero e superficiale talvolta con lo scopo più o meno dichiarato di ottenere un facile consenso. Chiunque può postare considerazioni, foto e video in base ad una presunta libertà di pensiero che non tollera limitazioni di sorta. Anche quando quelle limitazioni sarebbero imposte dal buon senso. Basterebbe chiedersi: direi le stesse cose che scrivo se dovessi guardare negli occhi il mio interlocutore? Sono sicuro di non ferire nessuno? Parlerei allo stesso modo se non conoscessi le persone che ho davanti? Davvero sono sicuro al 100% di quello che sostengo?
I nostri dialoghi con i tassisti di Roma, Milano, Napoli, Como, Palermo, Bruxelles, Cracovia, Londra, New York e Buenos Aires vanno proprio in questo senso: dimostrare che si può dialogare sempre, anche se si ha poco tempo e non ci si conosce. E si può cambiare idee o, quanto meno, aver voglia di approfondire.
Quali sono le responsabilità dei movimenti populistici che allignano sul sentimento xenofobo?
La principale responsabilità dei populisti è quella di far leva sulle paure più profonde della gente – l’immigrazione è una di queste assieme a terrorismo, disoccupazione, situazione economica – rincorrendo gli umori della massa e presentando appunto gli immigrati di volta in volta come invasori, terroristi, ladri di lavoro, parassiti. Nella retorica di populisti e xenofobi gli immigrati vestono sempre un ruolo negativo, sono sempre fonte di preoccupazione, spesso sono sinonimo di emergenza. La loro unica ricetta è quella di non farli partire dai loro Paesi – non importa se devastati da guerre, fame o calamità naturali – per non farli arrivare da noi, all’insegna dell’occhio non vede e cuore non duole.
Essi tendono a ripetere che chi è pro-immigrazione vuole fare entrare «tutta l’Africa» e «consegnare il Paese agli immigrati». Non c’è niente di più falso. A varcare i confini dell’Africa è un’esigua minoranza. L’Unhcr ha più volte sottolineato che la maggior parte delle persone in fuga si dirige verso i paesi limitrofi al proprio (l’86%) e che i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati sono Turchia (2,5 milioni), Pakistan (1,6 milioni) e Libano (1,1 milioni).
Di fatto, l’immigrazione è inarrestabile. Non a caso è diventata nel corso dei decenni una caratteristica permanente dei Paesi industrializzati. Essa è guidata da forze che vanno al di là del controllo dei governi nazionali: la dipendenza strutturale dalla manodopera straniera in alcuni settori economici, le norme di diritto internazionale per il ricongiungimento familiare, le enormi disparità economiche tra il sud e il nord del mondo, i conflitti armati e le instabilità regionali che portano a migrazioni forzate, solo per citarne alcuni. È certamente un fenomeno complesso, ma se viene governato anziché subìto, porta vantaggi per tutti.
Eppure i dati statistici ci dicono che l’Europa ha bisogno di immigrati.
Esatto, è proprio questa la lezione che ci arriva dai numeri che soprattutto Stefano Natoli spiega nel libro con grande competenza. La denatalità e l’invecchiamento progressivo della popolazione ci dicono che senza l’apporto degli immigrati l’Europa non si regge in piedi. Ce lo dice anche uno studio del Centro politiche migratorie dell’Università europea di Firenze: ipotizzando uno scenario senza affluenza di stranieri tra il 2010 e il 2030, i ricercatori hanno calcolato una perdita di 33 milioni di persone in età lavorativa (-11%) fra gli Stati membri dell’Unione europea, con una riduzione del 25% dei giovani tra i 20-30 anni e un incremento del 29% per le persone comprese fra i 60-70 anni. Una condizione che avrebbe pesanti ricadute anche
sul sistema di Welfare della Ue, dove il rapporto di dipendenza degli ultrasessantacinquenni nei confronti delle generazioni più giovani salirebbe da un 28% nel 2010 a un 44% nel 2030.
In questo contesto l’Italia soffrirebbe più degli altri. Il nostro Paese, infatti, ha da tempo una bilancia demografica deficitaria e ha dunque sempre più bisogno degli immigrati. Il demografo Livi Bacci sostiene che «la tendenza da qui al 2050 è un calo di un terzo (12,3 milioni) della popolazione potenzialmente attiva (20-70 anni) e un aumento degli anziani (+6,5 milioni)». Bisogna, dunque, correre ai ripari prima che sia troppo tardi, partendo dal presupposto che l’immigrazione è una risorsa troppo importante per non essere sfruttata nel migliore dei modi. Nel 2014 i contributi Inps versati da lavoratori extracomunitari ammontavano a circa 8 miliardi a fronte di prestazioni pensionistiche pari a circa 642 milioni e non pensionistiche pari a 2,4 miliardi (cassa integrazione, disoccupazione, malattia, maternità, assegni nucleo familiare), con un saldo positivo di oltre 4,5 miliardi. Sempre secondo le stime della Fondazione Moressa, i contributi dei lavoratori immigrati servono a pagare la pensione a oltre 600mila lavoratori autoctoni. A questo beneficio vanno anche aggiunti i 6,8 miliardi di gettito Irpef pagato dai contribuenti stranieri, il 4,5% del totale. Di contro, la spesa pubblica italiana destinata agli immigrati è pari all’1,75% del totale.
Ma l’immigrazione è anche un’occasione per ripopolare piccoli comuni e “paesi fantasmi”. Gli immigrati possono contribuire a far rinascere anche settori come quello agricolo: già oggi i titolari stranieri di aziende agricole in Italia sono 25 mila e versano ogni anno nelle casse statali 11 miliardi fra oneri fiscali (6 miliardi) e previdenziali (5 miliardi).
Quando e come si giungerà ad una completa integrazione?
È difficile prevederlo, anche perché in questo momento Europa e Stati Uniti sembrano andare nella direzione opposta: costruiscono “muri”, anziché “ponti”. L’integrazione è il processo finale di quella politica dell’accoglienza che fa fatica ad imporsi, non solo da noi. È di pochi giorni fa, ad esempio, la decisione di Trump di annullare il DACA introdotto nel 2012 da Obama che consentiva agli immigrati entrati nel paese da bambini senza documenti con i loro genitori – e dunque ormai perfettamente integrati – di evitare il rimpatrio e ricevere il regolare permesso di lavoro biennale e rinnovabile. Una decisione che apre alla possibile espulsione di 800mila persone.
Per arrivare a una completa integrazione c’è bisogno di un CAMBIO DI PARADIGMA, di un’“inversione a U” nelle politiche dell’immigrazione che veda i migranti non come un problema, ma come una risorsa sia sul piano sociale sia su quello economico. Un nuovo approccio che si basi su una NARRAZIONE NUOVA DEL FENOMENO che non faccia leva sulle paure, ma sul contributo che gli immigrati possono assicurare. E su politiche più coraggiose, che portino ad accogliere e a concedere l’asilo nel più breve tempo possibile a chi ne ha diritto – nel rispetto delle convenzioni internazionali che anche il nostro Paese ha firmato – e a mettere nelle condizioni chi quel diritto non ce l’ha di conquistarselo nel rispetto delle nostre leggi e del nostro stile di vita.