“Pascal. Una politica cristiana” di Maria Vita Romeo

Prof.ssa Maria Vita Romeo, Lei è autrice del libro Pascal. Una politica cristiana pubblicato dalle Edizioni Studium: quale rilevanza assume la politica nel pensiero del filosofo francese?
Pascal. Una politica cristiana, Maria Vita RomeoUna rilevanza non trascurabile, a mio avviso. Anche se sono consapevole che desta una certa “meraviglia” il solo accenno all’esistenza di un Pascal politico. D’altronde, mi si perdoni il gioco di parole, io non mi meraviglio di tale “meraviglia”, giacché resiste sino ai nostri giorni il cliché di un Pascal apolitico o antipolitico, che si beffa della politica, considerandola un gioco inutile e pericoloso. Insomma, accostandoci a questo problema, riscontriamo più pregiudizi che giudizi in una stratificazione storica della critica, che talora ha eluso o trascurato la questione politica nel pensiero pascaliano. In questo mio libro, invece, viene presentato un Pascal “politico”, attento ai problemi del sociale, che crede nel ruolo della politica, quale necessario strumento contro il caos e la degenerazione della società. Nell’attività politica, infatti, Pascal individua il mezzo per conseguire la pace, considerata il bene supremo dell’ordine dei corpi. Ed è in nome della pace che egli giustifica la menzogna e invita a mantenere il popolo all’oscuro dell’ingiustizia e della non-verità delle leggi, inducendolo al tempo stesso a considerare un dovere la loro osservanza. Pascal è forse discepolo del nostro Machiavelli? Ovverosia, il pur nobile fine della pace giustifica il ricorso al mezzo della menzogna nei confronti del popolo? Intendiamoci: il pensatore francese non è discepolo di Machiavelli, ma certamente è sostenuto da una buona dose di realismo politico. Si aggiunga, inoltre, che tale realismo è funzionale all’analisi pascaliana sulla natura della prassi politica. In breve, parafrasando Machiavelli, il nostro Pascal reputa «più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa». In un primo momento, insomma, bisogna guardare all’essere e non già al dover essere. E magari, come direbbe Vico, considerare attentamente la «feccia di Romolo» prima di addentrarsi nella Repubblica di Platone. E, nella prospettiva realistica di Pascal, bisogna riconoscere che le leggi non sono giuste in sé e per sé, perché ab origine la legge è la legge del più forte. Però, dire al popolo che le leggi non sono giuste, significherebbe scatenare la guerra civile, che è il peggiore dei mali. Insomma, svelare la “verità” al popolo significherebbe indurlo a sovvertire una consuetudine ingiusta, per crearne un’altra altrettanto ingiusta. Ora, l’invito pascaliano a rispettare le leggi del proprio paese non dev’essere inteso come una giustificazione passiva dell’ordine politico esistente. In verità, se da un lato Pascal sa che è pericoloso sovvertire le istituzioni dello Stato in nome di una giustizia ideale; dall’altro, egli crede possibile un cambiamento profondo delle istituzioni, che però può avvenire solo dopo aver educato il popolo, solo dopo aver fatto di quest’ultimo un corpo di “cristiani perfetti”. Così la legittimazione dell’inganno trova una sua giustificazione solo in ambito politico, e vale solo per coloro che «ignorano la verità che libera». I perfetti cristiani, i quali conoscono la verità che libera, sanno che la giustizia terrena è ingiusta, e quindi non hanno bisogno d’essere ingannati. Essi rispettano le leggi istituite non perché giuste, ma perché leggi. Il popolo, invece, ignorando la verità che libera, rispetta le leggi solo quando e perché le crede giuste. L’inganno, dunque, viene legittimato sol perché serve all’uomo, desideroso di giustizia, a non precipitare nella summa iniuria di una guerra civile. Tale inganno, infatti, presentando all’uomo come giusta un’istituzione che in realtà non lo è, garantisce il mantenimento della pace, della società e delle sue istituzioni. Beninteso, se l’inganno viene giustificato in ambito politico, esso non è invece ammissibile né in ambito scientifico, né in quello etico-religioso. In ultima istanza, si può capire come il modello definitivo pascaliano non sia quello del saggio che ricorre alla menzogna pur di mantenere la pace; ma quello del perfetto cristiano che, pur sapendo quanto sia pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, non gli nasconde la verità e lo sollecita ad obbedire alle leggi non perché giuste, ma perché leggi, così come si obbedisce ai superiori non perché giusti, ma perché superiori. Quindi, anche se l’obbedienza alle leggi può assumere per il cristiano il sapore di un compromesso, ciò non significa però che tale obbedienza sia un totale e rassegnato asservimento ai potenti. Infatti, se una legge contraddicesse la vera giustizia, allora il cristiano avrebbe il dovere di non rispettarla. Così, di contro al pregiudizio di un Pascal che sembra disinteressarsi della politica, si staglia un Pascal attento ai problemi del sociale, un acuto studioso del comportamento umano, che giustifica bensì la forza, ma solo al fine di far regnare la giustizia; e che certamente difende il potere e le sue istituzioni, ma allo scopo di garantire la pace; e, infine, un ardente cristiano che esorta a mettere in atto la legge dell’amore e a rispettare la legge con amore.

Dove affonda le proprie radici la teoria pascaliana di una politica utile e buona?
Per rispondere a questa sua domanda, bisogna calare la riflessione politica pascaliana in una ben precisa e determinata realtà storica, in un clima etico e politico che potremmo definire “tenebroso” per la Francia e per l’Europa in generale. In effetti, la guerra dei Trent’anni, la crisi della nozione di cristianità come universalità e l’ottimismo paganeggiante sulla natura umana, disorientano e illudono l’uomo moderno circa le sue reali potenzialità, alimentando una dissociazione tra la società e lo Stato. Dalla fine del Cinquecento all’inizio del Seicento, la rottura del nesso individuo-collettività, che sin da Aristotele aveva costituito il perno di ogni riflessione politica, provoca in alcuni intellettuali dell’epoca moderna una sorta di disimpegno etico-politico dettato dalla sfiducia verso una società priva ormai di cardini istituzionali, di ideali e di valori politici e civili. Ciò indurrà autori come Charron e Montaigne a puntare, per la risoluzione del problema morale, sulla coscienza del singolo piuttosto che su quella comunitaria. Ed è appunto all’educazione di questa coscienza, la quale conserva la presenza di sé e dell’altro, che Pascal mira quando svela l’importanza pedagogica e sociale di quella double pensée, di quel doppio pensiero che sta a fondamento della sua filosofia politica o pubblica. Il doppio pensiero, ad esempio, è quello che Pascal raccomanda al giovane duca di Chevreuse il quale, se vuol diventare un “buon politico”, non deve dimenticare che la sua condizione non è fondata sulla superiorità naturale di alcuni uomini su altri, ma su un’istituzione umana, sull’établissement humaine. Tuttavia il giovane duca deve comportarsi come gli uomini del suo rango, rispettando le convenzioni e le credenze del popolo. Ed è proprio sulla base di questa necessità socio-politica, di mostrare cioè al nobile la vera natura della sua grandezza, che si apre il Primo Discorso sulla condizione dei Grandi, ove Pascal immagina l’esperienza di un naufrago, approdato per caso su un’isola sconosciuta e scambiato dagli abitanti dell’isola per il loro re. Ora, il naufrago, riconosciuto erroneamente come re, sa bene dentro di sé che il potere regale affidatogli non gli appartiene, che in verità esso è il frutto di un’erronea immaginazione del popolo; ma non svela l’equivoco al popolo, per non intaccare quell’ordine sociale che anzi viene mantenuto grazie alla sua persona. Così il “re per caso” si fa scudo di quello che Pascal definisce appunto un “doppio pensiero”, costituito da un pensiero nascosto ma vero, con cui il re tratta con se stesso; e da un pensiero manifesto, per mezzo del quale il re tratta col suo popolo. La double pensée assunta dal naufrago diventa un modello da seguire per chi, come il giovane duca de Chevreuse, voglia attuare una politica quanto più possibile destinata a durare e a realizzare il suo proprio fine, che consiste nel proteggere la società e i suoi membri. Il doppio pensiero si presenta, dunque, sia come raccomandazione di dovere, sia come espressione di libertà. Infatti, come pensiero manifesto, ci raccomanda di rispettare le leggi e le istituzioni per il mantenimento e l’ordine della società; ma, come pensiero nascosto e vero, ci permette di esprimere liberamente la nostra opinione sulla persona che ci sta di fronte, indipendentemente dalla posizione sociale che essa occupa. Il dovere del suddito di rispettare i grandi di istituzione, di dar loro un certo riconoscimento sociale, non va dunque ad intaccare la libertà e la dignità dell’essere umano che, in quanto tale, ha il diritto “naturale” di giudicare chi gli sta di fronte prima di concedergli quel rispetto effettivo e reale che consiste nella stima, la quale, per giustizia, è doveroso riservare solo a coloro che possiedono qualità e meriti naturali. Per Pascal, il pensiero segreto è il mezzo attraverso cui l’individuo, avendo preso coscienza dell’apparenza della coutume, della consuetudine, è libero di esprimere il suo giudizio nei confronti dell’altro e di sé stesso. Il pensiero segreto di cui parla Pascal, dunque, non è un mezzo per prendere le distanze dall’altro, ma il mezzo per avvicinarsi all’altro, e stimarlo non per quello che appare, ma per quello che è, non per il paraître, ma per l’être. Questo pensiero è il rimedio per liberarsi dalle catene dell’apparenza, della menzogna, dell’ambiguità e della contraddizione, di cui ci serviamo per nasconderci agli occhi di noi stessi e degli altri. Contro la maschera, la menzogna e l’ipocrisia, Pascal ci invita ad ascoltare la voce della nostra coscienza, l’unica voce capace di smascherare il nostro amor proprio e di svelarci la verità sul nostro conto. Da qui la scelta pascaliana di riformare l’uomo muovendo dalla sfera interiore, per prepararlo ad agire al meglio nella sfera sociale, in seno cioè ad una società organizzata secondo leggi civili, le quali devono essere rispettate per evitare le ribellioni e per mantenere la pace, vero bene per una collettività che deve diventare il più possibile giusta. Per il pensatore francese, infatti, la società è lo specchio della doppia natura dell’uomo, il quale si presenta teso tra una prima natura integra, che lo orienta verso l’amore per mezzo della grazia; e una seconda natura, la natura lapsa, la natura degenerata, che invece lo rende succube della concupiscenza. Ora è proprio questa seconda natura che dev’essere ripensata e rimodellata non solo attraverso un’indagine interiore, che conduca l’uomo verso un’esplorazione introspettiva di sé, ma anche dall’esterno attraverso le istituzioni e le leggi. Nasce da ciò l’esigenza di uno Stato “forte”, che adempia al compito di garantire la pace e proteggere la vita e i beni dei sudditi che, a loro volta, hanno il dovere di rispettare le leggi dello Stato. D’altra parte, per Pascal l’ordine costituito è espressione della volontà di Dio, il quale ha istituito i governanti con l’obbligo, tuttavia, di esercitare il potere con giustizia, secondo quanto affermato da san Paolo. Pertanto, le istituzioni politiche emanano le loro leggi sulla base del mandato ricevuto da Dio, con l’obiettivo primario di mantenere la pace e di preservarla sia dagli attacchi interni sia dagli attacchi esterni. Da ciò il ricorso legittimo, se necessario, alla guerra come atto di difesa da tutto ciò che possa mettere in pericolo la sicurezza e i beni del popolo. In questo modo, Pascal individua le prospettive di una politica utile e buona proprio nell’atteggiamento del cristiano che, anche quando agisce all’interno dell’«ordine dei corpi», non perde di vista l’«ordine della carità», da cui trarre ispirazione per agire non secondo la propria volontà, ma secondo la volontà di Dio. Richiedere una sottomissione totale nei confronti della volontà di Dio significa rinunciare all’amor di sé e rendersi liberi, mediante «la legge dell’amore o l’amore per la legge». E, grazie all’amore cristiano, l’ordo concupiscentiæ si eleva alla forma dell’ordo caritatis. Ciò non significa ovviamente che nel Vangelo si possano trovare tutte le risposte alle questioni etico-politiche nella loro particolare determinazione storica. Invero, il messaggio evangelico si limita a fornire dei princìpi fondamentali a cui ispirarsi, per costruire una repubblica cristiana dove ogni uomo, dopo aver ridimensionato l’amor proprio, si ami senza essere odioso all’altro, in quanto membro di una comunità più giusta e più autentica. D’altronde, il pensiero pascaliano nella sua interezza è, di fatto, un pensiero che si cimenta nella difficile e tormentata impresa di coniugare il duro realismo con l’ispirazione evangelica. Così alla civitas hominum, dominata dall’orgoglio dell’uomo peccatore, Pascal mostra Cristo e la sua Legge, quali modelli a cui mirare per spezzare le catene della concupiscenza e aprirsi a quel regno di carità «dove tutti i sudditi non respirano che la carità e non desiderano che i beni della carità».

Quale riformulazione dei termini di forza, giustizia, diritto naturale e Stato attua Pascal?
Secondo Pascal la società nasce dalla concupiscenza o libido dominandi, che muove tutte le nostre azioni volontarie, e dalla forza, la quale muove, anzi impone, le nostre azioni involontarie. Entrambe, la concupiscenza e la forza, contribuiscono alla formazione della società: la prima genera il conflitto tra gli uomini; la seconda, invece, imponendo la vittoria di alcuni su altri, pone fine alla guerra e apre la strada per la costituzione dello Stato e delle sue leggi, le quali tuttavia non possono essere imposte solo con la forza. Da qui il connubio forza-giustizia, che guarda alla forza quale garanzia di ordine e di pace, nella gelosa osservanza della giustizia. La forza, infatti, dev’essere indissolubilmente legata alla giustizia, perché, se viene a mancare la giustizia, la forza diventa violenza, sopraffazione cieca e belluina. Ora, a differenza di Hobbes, secondo cui il bellum omnium contra omnes va man mano cessando col tramonto del diritto naturale, e poi con l’avvento delle leggi naturali, e poi ancora con la realizzazione del patto sociale, Pascal sostiene che la guerra finisce quando si ha la vittoria del più forte sul più debole, quando con la forza il vincitore pone il suo tallone sulla testa del vinto. In altri termini, mentre in Hobbes lo stato di guerra naturale e permanente finisce con il sopravvento delle passioni come la paura della morte o il desiderio di una vita piacevole e sicura, in Pascal lo stato di guerra finisce con la vittoria della libido dominandi del più forte sulla libido dominandi dei più deboli. Per conseguenza, secondo il pensatore francese, lo Stato è un apparato artificiale, che nasce per consolidare il giudizio della spada con la bilancia della giustizia, per domare l’impeto della forza con i vincoli del diritto. D’altronde, ciò che spinge gli uomini a mettersi insieme non è l’istinto naturale alla socialità, ma l’istinto a conservarsi e a soddisfare i bisogni personali. Senza dubbio l’idea di un istinto umano alla socialità era già stata respinta da Hobbes, per il quale il modello aristotelico dell’uomo animale atto per nascita alla società è falso, ed il suo errore è dovuto ad una considerazione troppo superficiale della natura umana. Secondo il pensatore inglese, la società non nasce per una qualche disposizione naturale degli uomini, ma per “accidente”. Se l’uomo, infatti, possedesse realmente un’inclinazione naturale alla socialità, questa lo condurrebbe ad amare almeno quegli uomini da cui potrebbe sperare onore e utile. Su una posizione simile si muove anche Pascal, per il quale lo Stato nasce dalla necessità di porre rimedio al disordine dell’amor proprio, cioè dalla necessità di indirizzare al bene comune il desiderio di gloria e la ricerca del proprio utile. Sicché Pascal da un lato riconosce l’autorità dello Stato come unica istituzione capace di proteggere e garantire i suoi sudditi; dall’altro, però, respinge ogni legittimazione del potere assoluto dello Stato, che dev’essere invece limitato e controllato. Lo Stato ha dunque il compito di proteggere i suoi sudditi e di garantire la pace; ed i sudditi, da parte loro, hanno il dovere di rispettare le leggi dello Stato. Da questo punto di vista, ben si comprende come il rispetto di cui parla Pascal non sia rivolto ad una particolare forma politica, ma allo Stato, quale istituzione capace di porre ordine in quel disordine inesorabilmente provocato dalla natura umana corrotta. In fondo, le varie forme dello Stato – come pure le leggi positive – non sono legittimate dal diritto naturale: la natura, infatti, non impone una forma di governo come la sola legittima. Non è giusto sovvertire l’ordine dello Stato, se questo non degenera nella tirannia, infrangendo per conseguenza il diritto di natura. Il fine dello Stato è assicurare la felicità terrena e, a questo scopo, sono sufficienti i mezzi naturali e terreni, quali la concupiscenza, la forza e il diritto. La Chiesa non può e non deve sostituirsi allo Stato in questo compito. Se, infatti, come afferma lo stesso Pascal, la società civile si fonda sulla concupiscenza, governare il mondo significa governare un mondo di concupiscenza: un ruolo che certamente non s’addice ai pastori della Chiesa, ma ai capi politici, preoccupati di governare il loro regno temporale con mezzi temporali. Contrariamente ai seguaci dell’agostinismo politico, che consideravano nullo il diritto naturale rispetto alla giustizia soprannaturale, e nullo il diritto dello Stato rispetto a quello della Chiesa, per Pascal l’ordine politico deve conservare il suo valore e la sua autonomia rispetto all’ordine spirituale. Così uno Stato cattolico è libero di allearsi con potenze eretiche; e un cattolico può obbedire ad un sovrano non cattolico, per il semplice fatto che il re è sacro non perché cattolico, ma perché re.

Come nasce, per Pascal, l’ordine politico?
Come già le dicevo, per Pascal l’ordine politico nasce dall’inevitabile connubio tra la forza e la giustizia e viene giustificato in quanto è garanzia di pace. Esso trova una sua spiegazione all’interno della teoria pascaliana dei tre ordini, dove l’ordine politico viene collocato sul piano naturale dell’ordine del corpo. Per chiarezza debbo sottolineare che Pascal contempla tre ordini: l’ordine del corpo, l’ordine della mente e l’ordine della carità. Ora, l’infinita distanza che separa questi tre ordini spiega perché i beni economico-politici, che appartengono all’ordine del corpo, non attirano gli uomini dell’ordine della mente, ossia gli intellettuali, i filosofi, gli scienziati. D’altronde gli uomini dell’ordine del corpo, come i re, i ricchi e i condottieri, non possono cogliere la grandezza degli uomini della mente. Lo stesso vale per la grandezza della saggezza che appartiene solo a Dio e che, quindi, non può essere valutata né dai grandi della carne né da quelli della mente. Questa incommensurabilità fra i tre ordini non nega l’importanza di ciascun ordine. Così, all’interno dell’ordine del corpo, eccellono i grandi uomini in grado di creare uno Stato conforme a giustizia. Indubbiamente non sarà un compito facile, né alla portata di tutti. L’esempio ci viene offerto dalla regina Cristina, potente, sapiente e cristiana, per la quale il pensatore francese nutriva una profonda ammirazione. Nella persona della regina di Svezia, Pascal, a torto o a ragione, individua le tre caratteristiche essenziali di cui si compongono i tre ordini: la potenza dell’ordine dei corpi; la sapienza dell’ordine delle menti e la saggezza o giustizia del cristiano, di chi si gloria solo in Dio, poiché in Lui sta il fondamento della Giustizia. Da qui la superiorità dell’ordine della carità, modello universale ed immutabile di cui l’uomo si dovrà “servire” per sconfiggere l’orgoglio, radice d’ogni male individuale e sociale. In fondo, per Pascal, la grandezza dell’uomo consiste proprio nella sua capacità di aver tratto dalla concupiscenza un ordine ammirevole e averne fatto un’immagine della carità.

Che contrapposizione esiste tra ordo concupiscentiæordo caritatis?
Questa domanda mi riporta a quanto affermato precedentemente intorno al rapporto forza-giustizia, un connubio che permette di passare da una prima fase in cui regna il nullus ordo concupiscentiæ, ad una seconda fase costituita invece da un ordo concupiscentiæ. A queste due fasi segue una terza: quella dell’ordo caritatis, all’interno della quale l’uomo si realizza sia come individuo sia come società. In questa fase, occupa un posto privilegiato il cristiano perfetto, colui che sottomettendosi totalmente alla volontà di Dio rinuncia e, al contempo, afferma la propria libertà. Infatti, rinunciando all’amor di sé, egli si rende libero mediante «la legge dell’amore e l’amore per la legge». Sta qui la «repubblica cristiana» indicata da Pascal, una comunità che ha solo Dio per Signore e due soli comandamenti: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo, grazie ai quali è possibile costituire un ordine autentico e giusto. E, sulla base dell’amore, l’ordo concupiscentiæ si può elevare all’ordo caritatis. Tuttavia, a questo risultato non si arriva soltanto per un’improvvisa folgorazione della grazia, ma anche con la capacità di trovare in se stessi la forza di ricominciare – dopo le cadute e le soste – il cammino di maturazione e di ascesi. Il cuore dell’uomo, infatti, è carnale, mal disposto ad abbandonarsi e a lasciarsi guidare dalla luce divina, poiché continuamente distratto da quell’io esteriore che agisce sulla spinta dei desideri immediati. L’amore – per Pascal come già per Agostino – sta alla radice e del male e del bene; l’amore è l’unica legge capace di salvarci o di dannarci per sempre. È l’amore-concupiscenza che fonda la città terrena; ed è l’amore-carità che pone le basi per la realizzazione della città celeste. La vita mondana e quella cristiana sono dunque accomunate dall’amore: Nulla – scrive Pascal – è tanto simile alla carità quanto la cupidigia», ma «nulla – precisa subito dopo – le è tanto contrario. Così, per costruire una communio cristiana, non dobbiamo scegliere tra l’amore e la sua assenza, né tra l’amore e l’odio, ma tra due opposti orientamenti dell’amore: o l’amore per il mondo e per se stessi; oppure l’amore per Dio e per il prossimo. Spetta all’uomo, dunque, prendere posizione o per il proprio io narcisistico o per l’essere universale. Nel primo caso, l’uomo, erigendosi a centro di tutto, si chiude e si fa sordo alla carità divina, oscurando il suo cuore che è «vuoto e pieno di fango» ci dice Pascal. Nel secondo caso, invece, aprendosi all’accoglimento della carità, l’uomo permette al suo cuore di ricevere la luce divina e di trasformarsi in sorgente di luce. Il cuore, potenziato e rinnovato dalla caritas di Cristo, diventa così il centro intimo della coscienza, a cui ispirarsi per decidere ciò che si deve o non si deve fare. È il cuore, infatti, che discerne i valori. Indubbiamente, ricorrendo all’interiorità della coscienza, Pascal non nega affatto la necessità di appellarsi ad una norma trascendente ed eteronoma, qual è appunto la legge divina. Ma tale norma, grazie al concetto di inspiration, s’interiorizza così profondamente nella coscienza che il principio della moralità appare trasferito, di fatto, dall’oggettività della legge alla soggettività del cœur, il quale sente viva ed operosa in sé la carità divina. Secondo l’antropologia pascaliana, solo attraverso l’esperienza della carità l’uomo può realizzarsi veramente sia come individuo sia come società. In effetti, all’amore e alla legge divina devono ispirarsi i cuori, potenziati e rinnovati dalla carità cristiana, per realizzare un sistema politico giusto e giungere così ad una communio cristiana fondata non più sulla legge della forza, ma sulla legge dell’amore. Una comunità edificata sulla caritas cristiana è una comunità composta da uomini che, liberandosi dalle catene dell’amor proprio e dalla diabolica tentazione di farsi centro di tutto, ora si scoprono membri di un unico corpo, retto da una sola volontà. Di conseguenza, l’uomo che fa esperienza della carità esce dal suo egoistico isolamento e si riconosce membro di un corpo. Da questo punto di vista, è certamente vero che l’ordine politico di una società sans Dieu è un ordine ingiusto; ma è altrettanto vero che, in una societas cristiana fondata sulla carità, l’ordine politico può diventare un ordine giusto.

Maria Vita Romeo insegna Filosofia Morale nell’Università di Catania. È direttore del CESPES – Centro Studi su Pascal e il Seicento ed è membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SIFM (Società Italiana di Filosofia Morale). Tra i suoi recenti lavori, Un foyer de recherches sur Pascal et Port-Royal (2018); Le retentissement des Provinciales en Italie (2020); La metafisica antropocentrica in Descartes (2019) Ha tradotto e curato il volume B. Pascal, Opere complete. Testi francesi e latini a fronte (Milano, Bompiani, 2020).

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