
I media – anche prima della svolta digitale – sono sempre stati importanti nelle dinamiche partecipative, ovviamente in molti modi diversi e talvolta anche antitetici, come strumenti ideologici di manipolazione e costruzione del consenso o come spazi di potenziale libertà espressiva e quindi anche di mobilitazione sociale. Lo sviluppo dei media digitali ha accentuato la percezione che tutti avessero finalmente uno spazio d’espressione; sono così nate retoriche che – nella migliore delle ipotesi – dovremmo definire ingenue: penso all’iper-ottimismo acritico del concetto di “culture partecipative”, che in realtà faceva riferimento alle comunità di fandom ma che è stato usato per sostenere l’idea della “democraticità” della rete. In realtà non era e non è così. La rete non è uno spazio più o meno democratico di altri e si trova al centro di scontri di potere politico ed economico. Lo sviluppo del capitalismo digitale ha evidenziato in maniera drammatica quanto l’iper-ottimismo acritico della cosiddetta “cultura partecipativa” non ha nulla a che fare con la democrazia partecipativa (a cui pure è stata erroneamente sovrapposta) e nemmeno con la spinta verso una partecipazione democratica realmente significativa. In molti casi, poi, gli ecosistemi comunicativi digitali hanno promosso al massimo nuove forme di accesso – certo importanti – ma non forme di partecipazione politica capace di mutare gli equilibri di potere.
Ciò detto, alcuni spazi di partecipazione si sono comunque creati, grazie a soggetti collettivi, a movimenti e associazioni del terzo settore e della cittadinanza attiva che hanno saputo usare quegli spazi consentiti dall’irruzione del digitale nelle nostre vite. Sono così nate forme di dibattito deliberativo, nuove modalità di mobilitazione e persino nuove aggregazioni politiche che hanno colto l’opportunità offerta da Internet e, in generale, dagli ecosistemi comunicativi digitali.
Si sono così affermate forme più orizzontali di partecipazione che, tuttavia, riguardano alcuni soggetti individuali e collettivi; non vorrei che l’altra grande retorica che ha accompagnato il digitale – il concetto di disintermediazione – ci facesse pensare all’affermazione di una democratizzazione della politica. In realtà, la disintermediazione si risolve, per lo più, in forme avanzate di re-intermediazione, spesso gestite da soggetti che continuano ad avere un potere economico e politico molto forte.
In altri termini, la situazione è molto più complessa di quello che potrebbero far pensare visioni iper-ottimistiche ma anche posizioni tecno-apocalittiche. Il digitale ha consentito – consente – l’attivazione di nuove forme di partecipazione, facilita la mobilitazione dal basso, determina la possibilità di aggregazioni su temi anche trasversali; al tempo stesso, però, esso perpetua forme di disallineamento sociale e talvolta illude che campagne basate sul clicktivism possano realmente andare oltre la testimonianza.
Il caso dell’attivismo è un po’ diverso perché da sempre gli attivisti politici usano in maniera “tattica” gli spazi di visibilità pubblica e questo è anche più vero per gli ecosistemi digitali che hanno comunque consentito lo sviluppo di luoghi di mobilitazione. Non è un caso che proprio in alcune aree dell’attivismo politico si siano sviluppate nuove sensibilità per piattaforme digitali “cooperative” o per l’affermazione di spazi digitali di resistenza.
In che modo il neoliberismo favorisce l’emersione di forme di partecipazione “disconnesse”?
Anche in questo caso mi permetterà una breve premessa. Sul concetto di neoliberismo ci sono molte ambiguità. Il neoliberismo non è solo modello economico. Non prendo neanche in considerazione, ovviamente, le affermazioni di chi ritiene che il neoliberismo sia un’invenzione, prodotta da quelli che non capiscono l’evoluzione del liberalismo: la sovrapposizione concettuale fra il liberalismo classico e il neoliberismo contemporaneo è un artificio retorico, spesso fatto in malafede. Però, come dicevo, il neoliberismo non può essere ridotto solo a un insieme di politiche economiche monetarie, basate su logiche di austerità e di mercatizzazione della vita pubblica. Questi aspetti, ovviamente, esistono; ma credo che Pierre Dardot e Christan Laval abbiano ragione a definire il neoliberismo come una razionalità politica globale che invera la logica del capitale, facendola diventare la nuova normalità dell’organizzazione sociale. Loro dicono che, in questo modo, il neoliberismo diventa “la forma della soggettività e la norma dell’esistenza”. Se il neoliberismo è questa “razionalità globale”, allora è evidente che esso è intrinsecamente antidemocratico. E, d’altra parte, già nel primo decennio del XXI secolo (molto prima della crisi pandemica, quindi) si sono sviluppati molti studi sulla de-democratizzazione, cioè su quel processo di sostanziale cancellazione dei principi fondativi delle democrazie liberali senza tuttavia che la democrazia venga formalmente soppressa. La gran parte di quegli studi metteva in risalto la connessione molto forte fra de-democratizzazione e affermazione del neoliberismo.
In questo scenario, il neoliberismo agisce sulla sfera pubblica, favorendone l’iper-frammentazione e promuovendo al tempo stesso una sorta di pensiero unico che tende a diventare egemonico rendendo inutili (perché delegittimate) le forme di resistenza. In questo quadro, la partecipazione politica sembra diventare sterile e restano solo forme marginali, sebbene socialmente rilevanti, di impegno civico, spesso depoliticizzate e “neutre”. In questa situazione si affermano cioè forme di “partecipazionismo”, cioè di retorica sulla partecipazione, in cui le azioni concrete si limitano a poche e minimali azioni di “governance”. In altre parole, scompare il progetto politico – potremmo dire che scompare persino il senso dell’utopia che dovrebbe comunque animare, almeno come motore iniziale, la politica – a favore della gestione più o meno efficiente della quotidianità. E così abbiamo forme di partecipazione che si limitano a rituali, in cui i facilitatori sono le nuove tecnocrazie che accompagnano il “popolo” a decidere su decisioni in realtà già assunte e quindi solo legittimate dalla procedura partecipativa. Ecco, queste sono forme di partecipazione “disconnessa”, di rottura del legame fra pubblici e comunità. E sono funzionali all’anestetizzazione del conflitto. Le forme di neoliberismo “bonario” o di “senso comune” (come già Stuart Hall lo definiva quasi quarant’anni fa) favoriscono le forme di “partecipazionismo”, che illudono le cittadine e i cittadini ma che in realtà mantengono inalterato il disallineamento fra le oligarchie e gli altri, i pochi e i molti.
Nella logica “neoliberal”, le forme di partecipazione disconnessa – e i partecipazionismi – vanno benissimo perché non mettono in crisi l’architettura sociale e non progettano mai il futuro.
Quali sono spazi e attori della partecipazione contemporanea?
Gli spazi, rispetto al passato, sono numericamente cresciuti: accanto a quelli tradizionali dei corpi intermedi (che ancora esistono, almeno in teoria) ce ne sono molti altri: dalla cittadinanza attiva ai movimenti sociali, dall’impegno civico non organizzato all’attivismo digitale (con le luci e le ombre che dicevamo prima). Il problema è capire se tali spazi consentono una reale praticabilità politica, cioè, detto in altri termini, se non sono solo scatole vuote. I partiti, per esempio, sono sempre più spesso meri cartelli elettorali, dove il dibattito politico è del tutto assente. E, badi bene, io sono convinto della necessità e del ruolo dei partiti politici, non sono uno di quelli che ne teorizza il superamento; però, non posso non notare, che non riescono più – salvo rarissime eccezioni – a rappresentare spazi di partecipazione, a porsi come strumenti di connessione sociale. Non è un caso che la partecipazione attraverso i partiti tenda a escludere anziché includere e non generi nuove forme di impegno e nemmeno di formazione alla partecipazione politica. In compenso, sono molti di più i soggetti che partecipano attraverso altre modalità organizzative: il volontariato, la cittadinanza attiva, i movimenti sul territorio. Questi ultimi sono in numero quadruplo rispetto a chi partecipa, a diverso titolo, attraverso i partiti. I nuovi soggetti attivi sono per lo più giovani – ma quella del terzo settore, per esempio, è una realtà molto trasversale dal punto di vista generazionale – con una forte sensibilità ambientale, che spesso rifiutano i partiti esistenti ma non ne delegittimano l’esistenza, che hanno maturato una forte sfiducia nei meccanismi della politica ma che continuano a credere nel valore delle istituzioni. C’è, insomma, un tessuto democratico che resiste ed è presente, anche se in spazi diversi da quelli del secolo scorso e con modalità aggregative che mettono insieme la logica del digitale con le dimensioni della “cura” nel territorio. Ecco, questo è un ultimo punto che vorrei sottolineare: si sono sviluppate, in luoghi geografici diversi, forti sensibilità comuni sulla necessità di cambiare il paradigma sociale, di passare dalla logica del profitto a quello della cura. L’esperienza italiana della rete “Società della cura” o del manifesto promosso dal “Care Collective” in Gran Bretagna o ancora le nuove sensibilità del femminismo e dell’ambientalismo: sono tutte spie di nuove forme di partecipazione politica. Forme, peraltro, in cui convergono soggetti diversi e con differenti provenienze.
Che cos’è l’innovazione democratica?
Il concetto di innovazione democratica è relativamente recente ed è entrato nel dibattito accademico e poi anche politico con il XXI secolo, anche se già negli anni Settanta del secolo scorso si parlava di “sperimentalismo democratico” per indicare le esperienze più partecipative di impegno democratico. Lo sperimentalismo democratico era un’altra cosa ed era strettamente connesso alle rielaborazioni che in quegli anni si concentravano attorno alla rivisitazione proprio del concetto di partecipazione. Tuttavia, quelle forme “sperimentali” costituiscono il background dell’innovazione democratica.
Tuttavia, anche il concetto “moderno” di innovazione democratica presenta qualche ambiguità, sebbene sia chiaro che la sua importanza proviene anche dalla crisi di centralità dei corpi intermedi. Poiché con tale crisi è venuta meno la centralità del voto, percepito sempre più come un esercizio rituale privo di significato ed efficacia, si sono sviluppate nuove richieste sociali. Da una parte, una spinta che potremmo, semplificando, definire “dal basso”, guidata da associazioni, movimenti e singoli cittadini con la volontà di “riappropriarsi” della politica attraverso attività di impegno civico e forme innovative di partecipazione politica; dall’altra parte, la promozione di esperienze di coinvolgimento dei cittadini – che anche qui, con qualche approssimazione, potremmo definire “dall’alto” – da parte di governi e amministrazioni pubbliche. Queste due tensioni sono sempre state co-esistenti. D’altra parte, sono ugualmente co-esistenti esperienze di coinvolgimento dall’alto nate da sincero spirito di promozione della democrazia partecipativa e altre prodotte per calcolo politico dell’amministratore di turno che cercava nuove forme di legittimazione.
Nel primo decennio del XXI secolo, tuttavia, l’accento è stato posto principalmente sulla direzione “top-down”, collocando nel novero delle innovazioni democratiche tutte le esperienze di promozione della partecipazione e/o di governance condivisa promosse dalle istituzioni. Nell’esperienza concreta, però, erano (e sono) molte (sia in Italia sia in molti altri paesi europei e negli Stati Uniti) le esperienze nate “dal basso”, spesso attivate da forme di conflitto che si sono poi evolute fino a diventare esperienze virtuose di cooperazione fra segmenti della società civile e amministrazioni. Bisogna quindi considerare anche il ruolo di associazioni, movimenti e singoli soggetti, anche per evitare che l’innovazione democratica sia limitata a una sorta di “procedura” più o meno efficiente. Per questo, un paio di anni fa ho proposto una definizione più “inclusiva” di innovazione democratica, questa: L’innovazione democratica comprende tutte le procedure volte a facilitare e aumentare l’accesso e la partecipazione politica dei cittadini, che si realizzano sia attraverso istituzioni specificamente progettate per aumentare la partecipazione pubblica, sia attraverso esperienze dal basso in grado di fornire connessioni con le pratiche istituzionali nei processi di policy-making e di decisione politica. Ecco, direi, quindi, che l’innovazione democratica è un processo sociale, che non si limita a procedure, e che ha come scopo primario quello di facilitare sia l’accesso sia la partecipazione politica delle cittadine e dei cittadini.
Quali forme può assumere, in un mondo ipermediatizzato, la partecipazione creativa?
Partecipazione creativa è un’espressione nuova ma esperienze “creative” di partecipazione erano presenti anche nel recente passato. Basti pensare alle prime forme di mediattivismo, alle telestreet (che trasmettevano nei coni d’ombra delle trasmissioni via etere), alle prime forme di occupazione e riuso di spazi pubblici dismessi fino ad alcune esperienze di mutualismo. Oggi usiamo l’espressione partecipazione anche per definire le nuove forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, basate su accordi di co-gestione che vanno oltre il metodo della contrattazione collettiva ma che da essa comunque partono.
Ma sono molte le forme contemporanee di partecipazione creativa, che spesso si muovono proprio sfruttando in maniera tattica la dimensione ipermediatizzata del mondo. Se pensiamo, per esempio, ai nuovi movimenti ambientalisti – soprattutto quelli che sono espressione di un universo prevalentemente giovanile – possiamo facilmente vedere tali esperienze: nuove aggregazioni che usano la rete ma che poi stanno fisicamente “in piazza”, che creano mobilitazione e che praticano forme di azione sociale diretta.
Fra le forme di partecipazione creativa ci sono proprio quelle dell’azione sociale diretta, che poi sono tutte quelle esperienze in cui gli attivisti si concentrano sulle possibilità di cambiamento sociale. Sono tante le esperienze in quest’area: le azioni di solidarietà, le forme di autogestione, la promozione di consulenza legale gratuita, l’attivazione di servizi per la diffusione della conoscenza e così via. Fra le esperienze di partecipazione creativa collocherei anche alcune esperienze dei movimenti urbani, che in realtà si pongono all’incrocio di diverse esperienze partecipative. Senza dimenticare quelle esperienze che provengono dalle Chiese, dai movimenti femministi e da quelli ambientalisti.
E poi, direi, che le forme più interessanti sono quelle che provengono dal paradigma della cura; ovviamente non quello declinato in senso patriarcale ancora molto presente nelle narrazioni di molti governi, bensì quello che trova il suo fondamento nella “ragione del comune”. Credo che il lavoro del “Collettivo della Cura” o i lavori di Nancy Fraser siano molto significativi a questo riguardo. E le pratiche di partecipazione dei movimenti che a tale paradigma si rifanno costituiscono senza dubbio una forma nuova di partecipazione creativa. O almeno un piccolo ma importante segno di speranza.
Michele Sorice è ordinario di Sociologia della comunicazione e di Partecipazione politica e governance alla Luiss, dove insegna anche Comunicazione Politica e Political Sociology. Dirige il Centre for Conflict and Participation Studies. Fra i suoi lavori più recenti: Partecipazione disconnessa. Innovazione democratica e illusione digitale al tempo del neoliberismo (Carocci), Sociologia dei media. Un’introduzione critica (Carocci), Partecipazione democratica. Teorie e problemi (Mondadori) nonché diversi articoli in riviste scientifiche.