
Ancor prima di Yellowstone, che è del 1872, a fare da apripista è nel 1864 la riserva californiana di Yosemite. La novità più importante di Yellowstone è la scelta di definire quest’area protetta con l’espressione “parco nazionale”, che avrà enorme successo nei centocinquant’anni a seguire. Attualmente esistono nel mondo decine di migliaia di aree protette e l’organismo mondiale demandato a dare loro degli indirizzi generali, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, si sforza da oltre settant’anni di incasellarle in una tassonomia che è diventata col tempo sempre più raffinata, ma la categoria di “parco nazionale” rimane ancora e sempre la più celebre e in qualche misura archetipica. In questo senso il 1872 e Yellowstone rimangono una pietra miliare nella storia della protezione della natura e in quella più specifica delle aree protette. Ma l’idea dei parchi naturali sorge più in generale negli anni Sessanta dell’Ottocento perché è questo il periodo in cui compaiono le prime moderne preoccupazioni di tipo ambientale: nello stesso anno dell’istituzione della riserva di Yosemite George Perkins Marsh pubblica il libro Man and Nature, che per la prima volta denuncia in modo documentato come l’uomo sia un agente disturbatore degli equilibri naturali, e in Inghilterra inizia una fioritura di associazioni di protezione della natura che ne farà per lunghi anni il paese più dinamico in Europa.
L’Italia è all’avanguardia in Europa in relazione alla protezione della natura: quando e come nascono le prime aree protette italiane?
Anche per l’Italia l’ispirazione originaria è statunitense: la pubblicazione su una rivista diffusa e autorevole come “La nuova antologia” del resoconto di un viaggio a Yellowstone dell’industriale e politico Giambattista Miliani e gli stimoli offerti al giovane zoologo e protezionista Alessandro Ghigi da una visita al Biological Survey di Washington fanno nel 1907 da innesco a un movimento che segue di poco quelli iniziato da poco in Svizzera e in Svezia. Il fermento di idee e di proposte degli anni seguenti porta all’individuazione di numerose aree passibili di essere tutelate mediante dei parchi nazionali, ma – complice la pausa e i disastri della Grande guerra – soltanto due di esse troveranno alla fine la via della realizzazione concreta: l’Alta Val di Sangro, ove sorgerà il Parco nazionale d’Abruzzo, e il Gran Paradiso, ove sorgerà il parco omonimo. I due parchi vengono istituiti a poche settimane di distanza, a cavallo tra il 1922 e il 1923 – ed è per questo che stiamo celebrando i cento anni delle aree protette italiane – e sono tra i primi parchi europei. Soltanto la Svezia, la Svizzera e la Spagna hanno infatti già istituito dei parchi nazionali, e le due riserve italiane si dimostrano sin dall’inizio all’altezza dei migliori esempi statunitensi, al punto da meritare l’elogio dei responsabili del National Park Service in visita in Italia. I due parchi italiani hanno inoltre due caratteristiche profondamente innovative: sono i primi al mondo ad essere densamente insediati e abitati e – anche in conseguenza di ciò – sono amministrati democraticamente, da enti in cui sono rappresentati su un piano paritario il governo, il mondo scientifico, l’associazionismo nazionale e le amministrazioni locali.
Come argomenta nel libro, a questa prima fase di protezionismo segue una quasi glaciazione durata trent’anni: come si giunge alla nuova cultura dei parchi degli anni Sessanta?
Il modo in cui vengono concepiti i primi due parchi nazionali e il lungo e meditato percorso che porta alla loro istituzione farebbe ben sperare, all’inizio degli anni Venti, nella possibilità che l’esempio possa essere esteso anche ad altre aree meritevoli di tutela e che i parchi possano diventare l’apripista di politiche più ampie e ambiziose di protezione della natura. Invece non succede nulla: i due parchi nazionali vengono abbandonati a sé stessi e riescono a vivere per un decennio una vita più che dignitosa grazie alla competenza, alla passione e alla dedizione di presidenti e di consigli di amministrazione che li avevano promossi sin dagli anni Dieci, ma – ciò ch’è peggio – nel 1933 la loro gestione democratica viene sostituita da una direzione centralizzata e burocratica nelle mani della Milizia nazionale forestale, la branca forestale dell’esercito privato di regime che ha rimpiazzato nel 1928 il Corpo reale delle foreste. I due parchi nazionali creati nel biennio 1934-35, Stelvio e Circeo, sorgono con motivazioni che poco o nulla hanno a che fare con la protezione della natura e di lì in poi, fino al 1959, in Italia non verranno più istituite aree protette. Al disinteresse del regime fascista per la protezione della natura fa seguito infatti una rinascita democratica in cui il ricco tessuto ambientalista dei primi vent’anni del secolo è praticamente scomparso e l’entusiasmo unanime per il miracolo economico non consente di ascoltare le poche voci che chiedono rispetto per i paesaggi e per gli ecosistemi di maggior pregio o integrità.
Si passa a una nuova fase – del resto in sintonia con quanto avviene in gran parte dei paesi industrializzati – con l’inizio degli anni Sessanta, quando compare lentamente e poi si afferma una nuova ondata ambientalista, incarnata nel nostro caso da una piccola commissione “verde” della giovane associazione Italia nostra che inizia a battersi sia per difendere i parchi nazionali esistenti dal degrado ma anche per istituire nuovi parchi. Da questo piccolo nucleo nascerà nel 1966 il Wwf Italia, preannuncio di una straordinaria stagione di interesse e di entusiasmo collettivo per la protezione della natura e per le aree protette.
Quali effetti ha prodotto la regionalizzazione delle competenze in materia di parchi naturali?
Direi soprattutto tre effetti.
La nascita delle regioni a statuto ordinario nel 1970, con il loro forte slancio iniziale oltretutto in una fase di straordinario fermento politico e culturale, ha dato anzitutto una grande spinta al processo già in corso di popolarizzazione e di istituzione di nuove aree protette. A partire dalla metà degli anni Settanta le regioni hanno istituito parchi spesso di grandi dimensioni, in qualche caso organizzati in organici sistemi regionali, decisi spesso in accordo con le associazioni e il mondo scientifico. Se la fase più dinamica della storia delle aree protette italiane è quella che va dalla prima metà degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta, le regioni hanno avuto un fondamentale ruolo nell’anticiparla.
In secondo luogo, pur se in modo estremamente diseguale e con un dinamismo che si è andato affievolendo negli ultimi decenni, dal 1975 a oggi le regioni hanno istituito oltre 130 parchi a fronte dei 20 parchi nazionali creati dallo Stato centrale in modo tale che oggi la superficie complessiva dei parchi regionali è superiore a quella dei parchi nazionali, che sono mediamente molto più estesi. Anche solo in questo senso il contributo dato dall’iniziativa delle Regioni alla protezione della natura in Italia è stato di straordinaria importanza.
L’avvento delle regioni ordinarie ha anche coinciso con l’inizio di una lunga querelle tra fautori di un totale controllo regionale delle aree protette e fautori di un controllo ripartito tra enti locali e Stato centrale. La discussione è stata particolarmente accesa dalla metà degli anni Settanta fino alla metà degli anni Novanta e se ne avverte ancor oggi qualche strascico, ma essendo mossa su entrambi i fronti da intenti protezionistici sinceri non ha impedito il dispiegarsi di una grande stagione di elaborazione teorica e soprattutto di realizzazioni, ma l’ha al contrario stimolata e alimentata. La legge quadro sulle aree protette del 1991 è in larga parte un monumento a questo sforzo conflittuale ma alla fine convergente tra “regionalisti” e “centralisti”.
Quali prospettive per le aree protette in Italia?
Sia per le istituzioni centrali sia per gli enti locali, ma in parte anche per l’associazionismo, l’ultimo quarto di secolo ha costituito un’epoca di appannamento se non di disimpegno sul fronte delle aree protette. Il ritmo di istituzione di nuovi parchi – formidabile fino alla seconda metà degli anni Novanta – si è progressivamente arenato, la legge quadro è rimasta inapplicata per molte sue parti fondamentali, le culture di governo affermatesi in questi anni sono state prevalentemente ostili – al di là di tante dichiarazioni di circostanza – alla protezione della natura e indifferenti alle sorti dei parchi, molte delle speranze legate alle sperimentazioni culturali ed economiche degli anni Settanta e Ottanta si sono spente.
Restano ampi territori sottoposti a una tutela nominalmente ben garantita da una legge quadro che resta – per quanto anch’essa minacciata – molto avanzata e il lavoro spesso ammirevole di centinaia di tecnici, di guardie e spesso – non sempre – anche di amministratori e amministratrici capaci e volonterose. E una popolarità immutata. Dall’alto non sembrano venire segnali di rilancio, che ridiano un senso alle aree protette italiane e consentano di renderle protagoniste delle grandi e drammatiche sfide ambientali di questi anni. Come è sempre stato in cento anni, sarà forse un nuovo interesse e una nuova iniziativa dal basso che permetteranno un loro ritorno al centro del dibattito culturale e politico del Paese. E a una vita meno stentata e confusa.
Luigi Piccioni (Avezzano 1959) insegna all’Università della Calabria, dirige la rivista digitale “altronovecento. ambiente tecnica società” ed è vicepresidente della Società italiana di storia della fauna. Tra le sue pubblicazioni Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934 (prima edizione 1999, edizione inglese 2020), Primo di cordata. Renzo Videsott dal sesto grado alla protezione della natura (2010) e Cento anni di parchi. Scritti di storia delle aree protette italiane (2022).