Leopardi prende spunto dalla Batracomiomachia omerica dove si racconta di una guerra sanguinosa non fra eroi ma tra animali — in particolare rane, topi e granchi — oggetto di attenzione da parte sua per tutta la vita. […] Non è un caso dunque che negli ultimi anni della sua vita, chiusa l’esperienza lirica e quella in prosa, Leopardi abbia voluto ripescare una passione erudita per farne la base su cui costruire una nuova opera, concepita a partire dal gioco parodico e linguistico che si era già esercitato a lungo con le traduzioni […]. La nuova opera nasceva programmaticamente, fin dal titolo, come un’aggiunta moderna («paralipomeni» significa «continuazione») all’apocrifo antico, a quella Batracomiomachia sulla cui attribuzione gli eruditi avevano discusso riconoscendone quasi sempre la raffinatezza dei risultati pur se applicati ad una materia ridicola. […]
Paradossalmente, proprio per rendere più incisiva la componente storica del poemetto e farne un’opera più impegnata possibile, tutta la critica ha cercato di identificare, fino all’inverosimile, le figure dei topi e quelle dei granchi. Non solo si sono visti i liberali napoletani da una parte e gli austriaci dall’altra, ma anche le identità dei singoli personaggi, Leccafondi-Gino Capponi, Rodipane-Luigi Filippo, Senzacapo-Francesco I, Camminatorto-Metternich, con un accanimento al quale avrebbe risposto Leopardi stesso: «Chi suppone allegorie in un poema, romanzo ec.; come si è tanto fatto anticamente e modernamente nell’Iliade e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il Rossetti nel comento alla Divina Commedia […]; distrugge tutto l’interesse del poema ec.» (Z. 4365).
Una volta che si è riassunta la storia come il tentativo del popolo dei topi di sottrarsi all’ingerenza del granchio nemico prima accettando una monarchia costituzionale, poi organizzando una guerra nel momento in cui ai granchi la monarchia costituzionale non va più bene, si è detto tutto sulla prima parte del racconto, quella che per la materia potrebbe essere avvicinata all’Iliade. La seconda parte invece, quella che guarda all’Odissea, vede come protagonista il topo Leccafondi, già presente in quanto ministro del re Rodipane e organizzatore del breve momento di benessere di Topaia, che viene mandato in esilio e cerca una soluzione per il suo popolo approfittando dell’incontro col filosofo Dedalo che lo conduce fin nell’oltretomba per ottenere dai morti un consiglio sul futuro. Sul ritorno di Leccafondi a Topaia si interrompe il racconto, o meglio si interrompe il manoscritto anonimo dal quale il narratore, seguendo una convenzione romanzesca e ancor prima epico-cavalleresca, dice di aver ricavato la sua storia, che non solo è perduta in qualche antica pergamena ma è anche disseminata in infinite lingue dotte, sia orientali che indoeuropee, e quindi si presume esser diffusa in altrettante varianti. Le ultime ottave del poemetto alludono proprio alla molteplicità della leggenda, a questa impossibile unità che l’autore, prima ancora dei suoi critici, ha rinunciato a conseguire. […]
Per poter comporre una nuova opera, ora Leopardi ha bisogno di rivolgersi a un mondo lontano dall’uomo come quello dei topi e di recuperare un tono da narratore di altri tempi, al quale si sovrappone spesso come autore vero e proprio, e viene fuori a colpire e combattere quando lo ritiene opportuno, esibendo le sue posizioni, rendendole esplicite, più dirette e più semplici.
È comunque l’effetto di lontananza a creare il sottofondo favoloso che permea l’intero poemetto e ne costituisce il collante più intenso («antichissimo» è un attributo poetico che Leopardi usa più volte). La storia si ricollega a Omero, e dai tempi di Omero, da un’antichità primitiva, sembra voler accennare al presente. Lo spazio stesso, sia lo spazio della città di Topaia che quello del viaggio di Leccafondi, è carico della presenza di un elemento meraviglioso che i colpi aspri della satira non riescono mai a sopravanzare. Anzi, dalla frizione di meraviglioso e satira nasce tutta la dimensione più apprezzabile oggi dell’opera. E si va dai primi notturni, in particolare quello iniziale del canto II dove Leopardi riscrive se stesso attraverso Ariosto, cioè ritorna, dopo un giro di trecentosessanta gradi, all’accento vero di una delle sue fonti («Ma già dietro boschetti e collicelli / antica e stanca in ciel salia la luna, / e su gli erbosi dorsi e i ramuscelli / spargea luce manchevole e digiuna, / né manifeste l’ombre a questi e quelli / dava, né ben distinte ad una ad una; / le stelle nondimen tutte copria, / e desiata al peregrin venia»), alla descrizione del castello di Topaia che irraggia sulla città un elemento di leggerezza aerea, soprattutto grazie ai paragoni con luoghi di un paesaggio ben noto all’autore, per arrivare ai punti più intensi del volo sull’Italia primitiva e della descrizione surreale dell’inferno degli animali, con l’immagine straordinaria del volo smaterializzato della folla di anime animali non percepibili alla luce: «Ma come solamente all’aure oscure / del suo foco la lucciola si tinge, / e spariscono al sol quelle figure / che la lanterna magica dipinge, / così le menti assottigliate e pure / di quel vel che vivendo le costringe / sparir naturalmente al troppo lume, / né parer che nell’ombra hanno costume» (VII, 49).
La vera progressione interna del poemetto, la ragione della sua non discutibile unitarietà, sta proprio nel ribaltamento di prospettive che avviene tra la prima e la seconda parte, quando si va da una situazione sociale e storica precisa (le allusioni politiche, la polemica contro il legittimismo e lo spiritualismo cattolico, la puntata contro governi costituzionali e sette segrete) ad un graduale ma rapidissimo evolvere verso una dimensione fantastica. Così, alle vicende concrete di Topaia (la sua precisa collocazione geografica, la sua politica interna, il momento del progresso e poi la definitiva sconfitta) sussegue, attraverso il viaggio di Leccafondi, la panoramica di un mondo primitivo, antichissimo, precedente la storia conosciuta («Non era Troia allor, non eran quelle / che al terren l’adeguaro Argo e Micene»). La visione dall’alto non si lascia alle spalle solo le vicende imbrogliate di un piccolo regno (una «topaia»!) ma riduce al grado zero ogni traccia della storia dell’uomo. Torniamo così ad un mondo primitivo, ad uno spazio dove la natura domina sulle leggi della storia. È in un certo senso l’esasperazione di quanto nella Ginestra viene rappresentato come opera del Vesuvio sterminatore (e infatti, proprio a proposito dell’Italia: «Sparsa era tutta di vulcani ardenti / e incenerita in questo lato e in quello. / Fumavan gli Appennini allor frequenti / come or fuman Vesuvio e Mongibello, / e di liquide pietre ignei torrenti / al mar Tosco ed al’Adria eran flagello: / Fumavan l’Alpi, e la nevosa schiena / solcavan fiamme ed infocata arena»). E non esiste più l’uomo, o meglio non esiste ancora. Il mondo è abitato da giganteschi mammut, da razze di dinosauri «da gran tempo spente»: il punto estremo cui giunge la fantasia leopardiana quando vuole, come avviene più volte nelle operette, rappresentare la terra senza ancora la presenza invadente dell’uomo.
Non è un caso che a questa specie di cancellazione dell’umano nei primordi segua la discesa all’oltretomba, dove regnano le leggi di un materialismo assoluto e vengono sbeffeggiate le credenze dell’uomo intorno alle cose supreme. Il mondo dei morti già Leopardi l’aveva rappresentato attraverso le mummie di Ruysch come luogo dell’oblio della vita, ed ora ribadisce con coerenza che l’uomo non può immaginare cosa sia la cancellazione dell’uomo stesso: «Il non poter nell’orba fantasia / la morte imaginar che cosa sia». In più, l’aldilà diventa il mondo della parificazione assoluta, dove le anime siedono in una stasi eterna, fissate in un inutile torpore una accanto all’altra sui seggi di un «funereo coro» (è la parodia feroce di quanto si vede durante una messa in cattedrale). E solo le richieste di aiuto di Leccafondi possono suscitare una reazione da parte di queste grottesche figure semimbalsamate, nelle quali si smuove «un suon giocondo» che, pur non potendo essere un vero riso, assomiglia a quello che per gli uomini è il riso («la virtù per la quale è dato al vivo / che una sciocchezza insolita discerna, / sfogar con un sonoro e convulsivo / atto un prurito della parte interna»).
Alla fine del racconto «ridicolo», il principio del comico che ha guidato la satira si manifesta in tutta la sua forza. Di fronte alle misere richieste dell’uomo (del topo-uomo) i morti non possono far altro che gettare su di lui un sortilegio che assomiglia a quanto gli uomini usano per negare le verità più tremende del loro esistere: una gigantesca risata, ma una risata mortuaria, la risata di chi non può più ridere. Alla prima risata della letteratura, la risata degli dèi in apertura dell’Iliade, corrisponde questa risata dei morti, in un certo senso anch’essa divina e risolutiva. Leccafondi tornerà a Topaia e cercherà il generale Assaggiatore, come gli consigliano i morti. Ma da Assaggiatore non viene nessuna vera soluzione, la ricerca del topo termina qui, e qui termina la storia della «topesca gente». […]
La risata dei topi morti provoca una forte reazione nel conte Leccafondi: «arrossito saria, se col rossore / mostrasse il topo il vergognar di fuore». A differenza degli eroi che compiono esplorazioni proficue nel mondo infero (Ulisse, Enea, lo stesso Dante), Leccafondi si vergogna di fronte agli spiriti così come, tornato a Topaia, si vergognerà di fronte ai suoi simili della sua avventura tacendola («perché temè da quel guerrier canuto / per visionario e sciocco esser tenuto»). Non è solo un ulteriore segno di divertimento da parte di Leopardi. Se c’è nella sua opera un personaggio «romanzesco» questo è proprio Leccafondi, sul quale riceviamo continue variate notizie, a cominciare dal suo ritratto iniziale che ne fa un intellettuale alla moda, un ammiratore della cultura tedesca e della filosofia moderna, un filantropo («filotopo», eccezionale neoformazione satirica), un cortigiano esperto ma non ipocrita, legato più all’onore che al denaro e amante della patria. Insomma, un fascio di caratteristiche dove Leopardi mescola tratti positivi a note satiriche. Si pensi solo, per capire la reale coerenza del personaggio, a tutti i riferimenti alla luce e al buio che accompagnano la sua vicenda. Ai topi «il lume è poco accetto», nota Leopardi fin dall’inizio del racconto (II, 8, con evidente doppio senso: i topi — come gli uomini — non si fanno guidare dalla ragione) e infatti Leccafondi si muove di notte, sia nella sua prima spedizione al campo dei granchi come ambasciatore, sia durante l’esilio, nel notturno tempestoso che rovescia quello idillico iniziale e lo porta al palazzo di Dedalo. Ma Leccafondi è in realtà un amante dei lumi, cioè di un pensiero moderno che, se non coincide necessariamente con l’Illuminismo storico, si pone però traguardi simili. Infatti, una volta diventato ministro nel regno costituzionale di Rodipane, Leccafondi cerca di realizzare i suoi progetti «filotopi», vuole «rimover l’ombra» (IV, 38) e incrementare la civiltà. Operazione che sortisce scarsi risultati, dal momento che i granchi cancellano subito le riforme, e addirittura il conte viene allontanato dal regno. A questo punto, nel momento massimo di disperazione, Leccafondi perde la strada, cioè la luce che lo guida: «Non valse al conte aver la vista acuta / e nel buio veder le cose appunto» (VI, 26), e viene colpito dalla tempesta. Sarà proprio «un lumicino» (31) a indicargli di nuovo la via da prendere, e «una lucerna accesa» a segnalargli la presenza di Dedalo. Qui, con un richiamo preciso, si spiega la descrizione della casa di Leccafondi, abbellita dalla statua «colossal» di Lucerniere, «antico topolin filosofante» (I, 40): la ricerca della luce guida indubitabilmente tutto l’itinerario di formazione del topo, in bilico tra serio e ridicolo. E allora anche la discesa in un luogo buio come l’Inferno per eccellenza può avvenire senza luce, seguendo l’istinto topesco («all’infernal discesa / posesi di Topaia il cavaliere, / salvo che non avea lucerna accesa, / ch’ai topi per veder non è mestiere», VIII, 6), così come il ritorno ricicla il dantesco «riveder le stelle» (34), mentre il volo verso Topaia è guidato dai lumi delle costellazioni («ver Topaia drizzar subito il volo, / portando l’occhio per seguire intento / i due lumi ch’ha sempre il nostro polo») e la ricerca di Assaggiatore diventa, infine, ricerca di una luce guida: «a quel che alla sua gente / udito avea che lume esser potrebbe / senza punto indugiarsi andò diritto, / dico al guerrier di cui di sopra è scritto» (39). […] Quanto denunciato nella lirica con una forza polemica che non esclude l’ironia (è la luce della lava che distrugge a illuminare la notte di Pompei) è diventato qui motivo conduttore da giocare su più livelli, dalla satira al simbolo, senza che nessuno prevalga sugli altri.
L’azione di Leccafondi è senza dubbio «illuminata». Così come è positivo il darsi da fare del conte all’inizio del regno di Rodipane, anche se la sua azione non serve a infondere nei compatrioti la vera virtù, quella virtù che il narratore invoca sul corpo morto dell’eroe Rubatocchi, anche lui vittima inutile di fronte alla codardia del suo popolo (V, 47-48). Ma mentre per la «bella virtù» è facile scoprire il gioco allusivo e dopotutto, dietro l’ironia, torna fuori l’esigenza di illusione leopardiana (illusione legata indissolubilmente alla letteratura, e quindi finta ma «vera»), sembra che per quanto riguarda Leccatondi Leopardi sia stato ben attento a non farne un personaggio di facile presa sul lettore, lasciando sempre un’intercapedine tra l’adesione e il dubbio, tra l’ammirazione e il distacco. Leccafondi compie le vere avventure del poemetto, conduce la sua ricerca fino all’estremo, viene a contatto con l’uomo saggio — Dedalo — e da lui ottiene il privilegio dell’esperienza suprema, il volo e il contatto con i morti. Leccafondi è poi modellato sul profilo di un personaggio romantico per ciò che gli si muove intorno, la notte (II, 1-10) e la tempesta (VI, 24-29), e ciò che sente dentro, la profondità del pensiero («muto, volgendo entro la testa — profondi filosofici pensieri») e la paura. Attraverso Leccafondi è proprio il nuovo personaggio romantico e romanzesco che viene stilizzato e quindi ridicolizzato, ancora una volta con l’assunzione di elementi dalle mode letterarie che sono nell’aria. […]
Con la rappresentazione del volo di Leccafondi sull’Italia primitiva e con le immagini surreali dell’aldilà dei topi Leopardi raggiunge uno dei punti più alti della sua attività poetica, riesce ancora a trovare il piacere dell’immaginazione in un’operetta che, forse più di tutte le altre, vuole smascherare le finzioni e le ipocrisie a cui hanno creduto e continuano a credere, come in sogno, i suoi contemporanei.»
tratto da Leopardi di Marco Antonio Bazzocchi, il Mulino