
Innanzitutto è necessario sgomberare il campo da un equivoco sulla retorica, invalso nel pensiero di molti, ovvero che tale disciplina si occupi semplicemente dell’aspetto formale di un discorso, degli orpelli, degli abbellimenti, invece così non è. L’arte retorica analizza la costruzione innanzitutto logica di un discorso per insegnare ad argomentare la propria tesi, cioè dimostrarla sulla base di argomenti logici. Al contrario, oggi quasi sempre la comunicazione avviene per slogan tramite semplici enunciazioni, frasi ad effetto (o ritenute tali) alle quali non segue un ragionamento teso a provare la verità della propria asserzione. Quanti personaggi pubblici, a vario titolo, parlano per slogan senza una spiegazione o prove che corroborino ciò che affermano?
Purtroppo la consuetudine a sentir comunicare in modo superficiale e propagandistico crea una pericolosa assuefazione in chi ascolta: non pretendere, non esigere argomentazioni valide e non cercare ulteriori informazioni su una qualsivoglia questione oggetto di dibattito. Dunque da un lato la comunicazione veloce e di massa spinge tutti noi ad asserire, non a dimostrare e a esercitare il ragionamento logico, dall’altro a non pretendere neanche che lo facciano gli altri: saper argomentare non significa diventare solo più convincenti e performativi ma anche difendersi da quel tipo di comunicazione superficiale di cui parlavo, a esercitare quel pensiero critico che fa la differenza tra cittadini attivi e cittadini passivi che non discernono, o non sono in grado di farlo, quanto viene loro detto e come viene loro detto. Il potere della parola e ancor di più quello della parola persuasiva, che si basa su argomentazioni tanto emotive quanto logiche, è un’arma utile anche per difendersi dalla pioggia indistinta di notizie e di conseguenza per tutelare la propria libertà di informazione e di scelta, è uno schermo contro qualsiasi tentativo di manipolazione.
Lo studio della retorica antica, quindi, può contribuire a riscoprire strutture del pensiero e del linguaggio e a riappropriarsene in modo consapevole e critico, soprattutto alla luce di una retorica che nella vita quotidiana veste spesso la maschera della peggiore demagogia o più semplicemente del convincere senza argomentare, privando l’assenso o il dissenso di significato critico e logico. Anche nella didattica moderna lo studio della retorica, presente limitatamente come forma di interpretazione di un testo poetico, dovrebbe trovare posto come disciplina trasversale perché insegna a organizzare un discorso, a parlare in pubblico e a sostenere un dibattito in modo pacifico, peccato che i progetti scolastici in questo senso siano davvero pochi.
Quale definizione di παράδειγμα offre la trattatistica antica di IV secolo?
Proprio perché la disciplina retorica attiene anche alla logica e alla gnoseologia, non deve meravigliare il fatto che il primo a dare una definizione teorica di paradeigma e a trattarlo compiutamente sia stato un filosofo, Aristotele. Autore tra le tante opere anche di un trattato sull’arte retorica, Aristotele definisce il paradeigma, l’esempio, un’induzione retorica cioè un ragionamento induttivo che procede dal particolare al particolare e che, insieme all’entimema (sillogismo retorico), rappresenta il metodo, il procedimento con cui costruire e applicare tutte le argomentazioni tecniche, siano esse relative al discorso (logos), al carattere di chi parla (ethos) o allo stato d’animo di chi ascolta (pathos). Tale induzione retorica si basa su una comparazione tra due casi (fatti, persone, comportamenti etc.) di cui uno sia più noto dell’altro, al fine di dimostrare o chiarire una tesi. Bisogna precisare che Aristotele con lo stesso termine paradeigma denota tanto l’argomento per analogia o i singoli casi di tale argomento (gli illustrantia), quanto il connesso procedimento induttivo che lo realizza, perché sta trattando lo stesso oggetto spiegandolo ora in termini logici come processo induttivo, ora come risultato e prodotto finito di tale processo.
In altre parole l’esempio è un fatto particolare che serve a illustrare, dare evidenza a un principio teorico, in termini logici, una generalizzazione induttiva che muove dal particolare al particolare omettendo la premessa universale e anche un argomento per analogia, nel quale l’essenza dell’esempio consiste in un richiamo a un caso illustrativo simile o contrario all’oggetto del nostro discorso. Si tratta di un mezzo assolutamente familiare, di cui facciamo uso quotidianamente: usiamo frequentemente la locuzione «per esempio», formula con la quale introduciamo appunto un esempio a conforto di una regola o per chiarire un’affermazione generica e in modo interrogativo per invitare altri a rendere più esplicito il discorso; altrettanto frequentemente usiamo la stessa locuzione per indicare qualunque cosa venga proposta come modello da imitare o da evitare; inoltre usiamo l’esempio in ogni processo di apprendimento come presentazione di un caso concreto da cui si risale poi alla legge e alla sua formulazione. Ebbene, a tutti questi usi del termine ad ogni modo soggiace l’accezione retorica, quando a questa non si faccia riferimento esplicitamente; talvolta dunque, anche senza intento retorico, usufruiamo di un mezzo che contribuisce a rendere il nostro atto linguistico persuasivo.
Quale funzione assumeva il paradeigma nell’oratoria attica?
Senza dubbio la trattazione teorica si rifà alla pratica dell’argomentazione paradigmatica degli oratori del tempo, i quali usavano il paradeigma con funzione dimostrativa per provare una tesi o come testimonianza illustrativa per meglio chiarirla. Naturalmente la vastità di testi e autori dell’oratoria attica ha reso necessaria una ristretta selezione del materiale che consentisse un repertorio di paradeigmata quanto più dettagliato possibile nelle orazioni prescelte. In particolare ho analizzato il Panegirico di Isocrate da un lato, le orazioni Contro Timarco, Sull’ambasceria infedele e Contro Ctesifonte di Eschine e le corrispettive orazioni Sull’ambasceria infedele e Sulla Corona di Demostene dall’altro. La scelta è stata motivata nel primo caso da un testo non destinato alla declamazione pubblica che quindi potrebbe giustificare un differente uso di espedienti retorici, il secondo gruppo di orazioni, invece, dal confronto proficuo tra due oratori che offrono una vasta gamma di anticipazioni, riprese e repliche, dunque di argomenti e contro-argomenti paradigmatici correlati tra loro e quindi tanto più efficaci quanto visti e analizzati nel loro insieme.
Cosa rivela l’analisi della pratica dell’argomentazione paradigmatica nell’oratoria attica?
L’analisi rivela il valore probativo e non esornativo del paradeigma, quanto alle tipologie di esempi è possibile constatare la presenza di esempi storici e di quelli inventati dall’oratore con illustrantia tratti da situazioni della vita quotidiana, ma l’assenza delle favole, che pure rientrano nella classificazione aristotelica.
Dovremmo recuperare tanto dell’esempio quanto degli altri mezzi persuasivi la funzione argomentativa, facendone un uso che sia il più possibile consapevole e appropriato. Serve esercizio. Cominciare dalla lettura degli antichi maestri può essere un buon inizio.
Claudia Uccello, dottoressa di ricerca in Filologia Classica presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, collabora presso la stessa Università nel Dipartimento di Studi Umanistici come cultrice della materia di Lingua e letteratura greca. Vincitrice nel 2016 del concorso a cattedra, è docente di ruolo di Materie letterarie, latino e greco nel liceo classico. Ha pubblicato Performance and Argumentation: the Use of παραδείγματα in Isocrates, Aeschines and Demosthenes in Papers on Rhetoric XII, 2014, pp. 221-232; La tradizione manoscritta del Panegirico di Isocrate: status quaestionis, in Vichiana XV 1/2013, pp. 3-11; Il παράδειγμα in Eschine e Demostene, in Vichiana XIII 1/2011, pp. 3-11.