
di Irene Vallejo
Bompiani
Arriva anche in Italia Papyrus. L’infinito in un giunco. La grande avventura del libro nel mondo antico, traduzione dallo spagnolo del libro di Irene Vallejo che ha venduto oltre 250.000 copie con traduzioni in 30 lingue, facendo vincere alla giovane autrice numerosi premi. Irene Vallejo, nata a Saragozza nel 1979, filologa classica e scrittrice spagnola che ha conseguito un dottorato europeo con una tesi sul canone letterario greco-latino nell’antichità, ci conduce, in un saggio che sembra un romanzo, attraverso la storia infinita del libro. Certo, la tecnologia lo incalza ma l’eclatante paradosso «che ancora oggi si riesca a leggere un manoscritto ricopiato con pazienza oltre dieci secoli fa, ma non si possano più vedere i contenuti di una videocassetta o di un dischetto vecchi di pochi anni» basta a rendergli giustizia e rincuorare quanti lo amano visceralmente.
L’Autrice si pone «raffiche di domande: quando sono comparsi i libri? Qual è la storia segreta delle fatiche fatte per moltiplicarli o annientarli? Che cosa è andato perduto, strada facendo, e cosa invece si è salvato? Perché alcuni di questi libri si sono trasformati in classici? Quante perdite hanno causato i morsi del tempo, le unghiate del fuoco, il veleno dell’acqua? Quali volumi sono stati bruciati con furia? E quali sono stati ricopiati nella maniera più appassionata?». L’acribia filologica traspare nelle note, poste a fondo libro per non appesantire la lettura, che riportano fedelmente le fonti antiche che ispirano la narrazione.
Il racconto parte da Alessandria d’Egitto, dove il «sogno di riunire tutti i libri del mondo, senza eccezioni, in una biblioteca universale, poté forse divenire realtà nel III secolo a.C., per la prima e unica volta». La Biblioteca, sogno divenuto realtà dei discendenti di quel Tolomeo «compagno di spedizione e amico intimo di Alessandro»: «nato in Macedonia da una famiglia nobile ma di poco lustro, mai immaginò che un giorno sarebbe diventato faraone del ricco paese del Nilo, dove mise piede per la prima volta a quarant’anni, senza parlare la lingua, senza conoscere usi e costumi e nemmeno la complessa burocrazia locale», anche se è lecito «pensare che l’idea di una biblioteca universale si debba alla mente di Alessandro».
Ed è proprio in Egitto che nasce il rotolo di papiro, antesignano del libro moderno, esportato in tutto il mondo antico e così intimamente connesso alla civiltà sorta sulle rive del Nilo che «gli studiosi della lingua egizia sono convinti che le parole “papiro” e “faraone” abbiano la stessa radice.»
«Il rotolo di papiro rappresentava un progresso incredibile. Dopo secoli in cui gli esseri umani avevano cercato supporti diversi per la scrittura – pietra, fango, legno, metallo – ora il linguaggio trovava casa dentro la materia viva. Il primo libro della storia nacque quando le parole – ancora poco più di un soffio vergato – trovarono rifugio nel midollo di una pianta acquatica. E in quel modo, contrapposto ai suoi antenati inerti e rigidi, il libro divenne subito un oggetto flessibile, leggero, pronto a viaggiare e vivere avventure.»
«I rotoli di papiro venivano fabbricati soltanto in Egitto. Erano prodotti d’importazione sostenuti da una fiorente struttura commerciale […]. I faraoni e i re egizi, signori assoluti del monopolio, decidevano il prezzo delle otto varietà di papiro che circolavano sul mercato. […] facevano il bello e il cattivo tempo; anche quando si trattava di imporsi su qualcuno o, direttamente, di sabotarlo. E fu proprio quel che accadde, con sorprendenti conseguenze per la storia del libro, agli inizi del II secolo a.C. Il re Tolomeo V, roso dall’invidia, cercava il modo di danneggiare una biblioteca rivale, fondata nella città di Pergamo […] da un re formatosi nella cultura ellenistica, Eumene II». Tolomeo «sospese le forniture di papiro al regno di Eumene, per mettere in ginocchio la biblioteca del nemico privandola del miglior materiale di scrittura al mondo. Questo embargo avrebbe potuto avere effetti deleteri, invece – con somma frustrazione del vendicativo re – fu il motore di un grande progresso e, come se non bastasse, rese immortale il nome del sovrano nemico. A Pergamo risposero alla sanzione perfezionando l’antica tecnica orientale della scrittura su cuoio, che fino a quel momento era stata praticata solo collateralmente e a livello locale. In omaggio alla città che la rese famosa in tutto il mondo, il prodotto scaturito dalla versione perfezionata di quel metodo fu chiamato “pergamena”. […] La pergamena si fabbricava con la pelle di vitello, pecora, montone o capra. Gli artigiani la immergevano in un bagno di calce viva per varie settimane, prima di farla seccare ben tesa su un telaio di legno. Sottoporla a questo stiramento aiutava ad allineare le fibre della pelle e ne rendeva liscia la superficie, che poi si raschiava fino a ottenere la bianchezza, la bellezza e lo spessore desiderati. Il risultato di un così lungo procedimento erano fogli morbidi, sottili, che permettevano la scrittura su entrambi i lati e, soprattutto – e questo era il nocciolo – duraturi.»
«Non esistono reperti archeologici dei libri più antichi d’Europa. Il papiro è un materiale deperibile e fragile, che non sopravvive più di duecento anni nelle zone a clima umido.» Quando la pergamena si impose come supporto scrittorio, il costo in termini di animali sacrificati fu però enorme: «In base ai calcoli dello storico Peter Watson, se partiamo dal presupposto che ogni pelle avesse una superficie di mezzo metro quadrato, un libro di cento pagine richiedeva il sacrificio di dieci o dodici animali. Altri esperti dicono che un unico esemplare della Bibbia di Gutenberg equivaleva a centinaia di pelli.»
L’Autrice enumera poi i grandi autori del passato; ecco scorrere Omero, misterioso autore dei due poemi epici a lui attribuiti: «In una società che non ha mai avuto libri sacri, l’Iliade e l’Odissea erano i testi più simili a una Bibbia.» Non solo, «i papiri riesumati in Egitto confermano che l’Iliade fu di gran lunga il libro greco più letto nell’antichità»! I poemi omerici segnano anche il passaggio tra l’oralità e la scrittura, sono «un territorio di frontiera» rispetto a «quando l’espressione letteraria era soltanto orale».
La storia della scrittura ebbe inizio seimila anni fa, in Mesopotamia, quando «comparvero i primi segni scritti, ma le origini di questa invenzione sono avvolte nel silenzio e nel mistero. Tempo dopo, e senza alcuna connessione tra i vari luoghi, la scrittura nacque anche in Egitto, in India e in Cina. L’arte di scrivere si originò per motivi pratici, stando alle teorie più recenti: per la necessità di stilare liste dei beni posseduti. Queste ipotesi evidenziano che i nostri antenati impararono prima a far di conto che a scrivere parole. La scrittura fu pensata per risolvere un problema ai ricchi proprietari e agli amministratori dei palazzi, che avevano bisogno di prendere nota, perché era difficile tenere la contabilità in modo orale. Il momento di trascrivere leggende e racconti sarebbe arrivato dopo. Siamo esseri legati all’economia e ai simboli. Abbiamo iniziato scrivendo inventari, e solo in seguito sono arrivate le invenzioni (prima i conti e poi i racconti, insomma).»
E poi Esiodo, «il primo individuo d’Europa», e Socrate: «All’epoca di Socrate i testi scritti non erano ancora uno strumento abituale, e venivano guardati con sospetto. Li si considerava un succedaneo della parola orale […] Per Socrate i libri erano un sostegno alla memoria e alla conoscenza, ma il filosofo pensava anche che i veri saggi avrebbero fatto bene a diffidarne. La questione ispirò un dialogo platonico intitolato Fedro. […] Socrate temeva che per colpa della scrittura gli uomini abbandonassero lo sforzo della riflessione personale. Aveva il sospetto che, grazie al supporto delle lettere, il sapere sarebbe stato affidato del tutto ai testi e che sarebbe bastato tenerli a portata di mano, senza mettere impegno nel comprenderli fino in fondo. […] La questione è spinosa, ancora oggi molto dibattuta. In questo periodo storico siamo immersi in una transizione radicale quanto lo fu l’alfabetizzazione greca. Internet sta cambiando l’uso della memoria e il meccanismo stesso del sapere. Un esperimento svolto nel 2011 da Daniel M. Wegner, […] misurò la capacità di ricordare di alcuni volontari. Solo la metà di loro sapeva che i dati da memorizzare sarebbero stati archiviati in un computer. Chi pensò al fatto che l’informazione finiva in un archivio, allentò lo sforzo di trattenerla nella memoria. Gli scienziati chiamano questo rilassamento mnemonico “effetto Google”. Tendiamo a ricordare meglio dov’è salvato un dato che il dato stesso.»
Ecco descritte la grande stagione della lirica e Archiloco, la nascita della filosofia con Eraclito, permessa proprio dai libri: «Agli antipodi rispetto alla comunicazione orale, basata su racconti tradizionali, noti e facili da ricordare, la scrittura permise di creare un linguaggio complesso, che i lettori potevano assimilare e meditare in tutta tranquillità. Sviluppare uno spirito critico risulta certo più facile a chi ha tra le mani un libro – e quindi può interrompere la lettura, rileggere e fermarsi a pensare – che per chi, abbacinato, ascolta un rapsodo.»
Nel passaggio dal V al IV secolo a.C. si sviluppa il commercio dei libri: la nuova parola bibliopòla (“venditore di libri”) «inizia a far capolino dai testi dei poeti comici ateniesi.» È plausibile che esistesse una struttura organizzativa per rifornire il mercato dei libri e laboratori che producevano copie dei libri, anche senza consultare chi li aveva creati: «nell’antichità non esisteva il diritto d’autore.»
«Strabone dice di Aristotele che fu il primo di cui sappiamo a collezionare libri. […] Non avrebbe potuto scrivere ciò che scrisse senza una lettura costante.» Poi, certo, anche lo stupore: «C’è un’unica presenza femminile nel canone letterario greco: Saffo. E si ha la tentazione di attribuire questo squilibrio così clamoroso al fatto che le donne non scrivessero, nell’antica Grecia. Ma è vero solo in parte. Sebbene per loro fosse più difficile ricevere un’educazione e leggere, molte superarono gli ostacoli. Di alcune, restano frammenti di poesie spezzate; della maggior parte, appena il nome […]: Corinna, Telesilla, Mirtide, Prassilla, Eumetide, detta anche Cleobulina, Beo, Erinna, Nosside, Mero, Anite, Moschine, Edile, Filinna, Melinno, Cecilia Trebulla, Giulia Balilla, Damo, Teosebia.» Con Erodoto nasce infine la Storia.
Il focus si sposta, nella seconda parte del volume, da Alessandria a Roma: «i romani riconobbero la superiorità greca ed ebbero il coraggio di esplorarne le scoperte, di assimilarle, di proteggerle e di prolungarne l’ondata espansiva. Questa seduzione ha avuto enormi conseguenze per tutti noi. È lì che inizia la gugliata di filo che cuce il nostro presente con il passato, che ci mantiene uniti a un brillante mondo estinto. E proprio sopra questa cucitura, come funamboli, camminano da un secolo all’altro le idee, le scoperte scientifiche, i miti, i pensieri, le emozioni ma anche gli errori e le miserie della nostra storia. Quelle sfilate di parole in equilibrio sul vuoto le abbiamo chiamate “classici”. E per il fascino che ancora esercitano su di noi, la Grecia continua a essere la pietra miliare della cultura europea.»
«La letteratura antica non creò mai un mercato o un’industria simili a quelli del giorno d’oggi, e il meccanismo della circolazione dei libri funzionò sempre grazie a una combinazione di amicizie e copisti. Al tempo delle biblioteche private, quando una persona ricca voleva un libro antico, lo chiedeva in prestito a un amico – se qualche amico suo l’aveva – e ordinava a un subordinato di copiarlo. […] A quei tempi, quando gli editori non esistevano, finita la stesura di un libro l’autore ne commissionava un certo numero di copie e iniziava a regalarle a destra e a manca. La fortuna dell’opera dipendeva dal perimetro e dall’importanza del suo circolo di conoscenti, di colleghi e di clienti disposti a leggerla […]. Non esisteva nulla di nemmeno vagamente simile al diritto d’autore o al copyright. In tutta la produzione del libro riceveva un pagamento, un tanto per riga, solo chi realizzava la copia (sempre che non fosse lo schiavo di casa), così come oggi le fotocopie hanno un prezzo per pagina fotocopiata. […] Qual era l’obiettivo inseguito da una persona come Cicerone, quando pubblicava saggi e discorsi? Consolidare e continuare a nutrire le proprie ambizioni sociali e politiche, aumentare la propria fama e il potere di influire sugli altri; costruirsi un’immagine pubblica a misura degli interessi privati; assicurarsi che amici e nemici fossero consapevoli del successo da lui raggiunto. […] I libri servivano soprattutto a procurare o rafforzare il prestigio di alcune persone. La letteratura circolava in modo libero e volontario, sotto forma di regalo o di prestito personale; passava di mano in mano, tra gente che condivideva un certo tipo di interessi, contribuendo a individuare i membri di un ristretto circolo intellettuale, un’élite, un intimo cenacolo di persone ricche tra le quali venivano ammessi, per il loro talento, alcuni pupilli di umili origini e perfino schiavi.»
La Vallejo rivela spesso particolari poco noti. Ad esempio, di Adolf Hitler, scopriamo che «a causa dei problemi polmonari avuti durante l’adolescenza, divenne un lettore compulsivo. Secondo i suoi amici di gioventù, frequentava le librerie e prendeva volumi in prestito dalle biblioteche. Lo ricordano circondato di libri, soprattutto di trattati di storia e di saghe di eroi tedeschi. Quando morì, lasciò una biblioteca di più di millecinquecento volumi. Mein Kampf lo trasformò nell’autore del grande best seller in tedesco degli anni trenta del secolo scorso. In quel decennio, il suo fu il libro più venduto dopo la Bibbia. Guadagnò milioni grazie alla percentuale sulle vendite». O di Mao Zedong, che nel 1920 aprì una libreria a Changsha: «Ebbe un tale successo che arrivò ad avere sei commessi: quell’avventura capitalista dei suoi primi anni si rivelò così straordinariamente redditizia che servì a finanziare per anni gli esordi della sua carriera di rivoluzionario. Tempo prima aveva lavorato in una biblioteca universitaria, dove lo ricordavano come un lettore vorace.» Eppure, «quarantasei anni dopo, con una ferocia inspiegabile, avrebbe dato il via alla Rivoluzione culturale, che lasciò una scia di libri bruciati e di intellettuali sottoposti a umilianti esercizi di autocritica, incarcerati o assassinati.»
Quanto al futuro del libro, la Vallejo non ha dubbi: «il libro continuerà a essere il supporto basilare della lettura, o che perlomeno il suo formato sarà sempre qualcosa di molto simile a ciò che il libro non ha mai smesso di essere, perfino prima dell’invenzione della stampa.»
«Quando paragoniamo il vecchio e il nuovo – come, per esempio, un libro e un tablet […] – crediamo che il nuovo abbia più futuro. In realtà accade il contrario. Quanti più anni di vita un oggetto o una consuetudine ha accumulato nella società, più avvenire avrà davanti a sé. In linea di massima, ciò che è più recente si estingue prima.» Non solo: «Gli arcaici libri sono serviti da modello nella creazione dei nostri avanguardistici laptop»
Uno stile avvincente, davvero affabulatorio, e una sorprendente capacità divulgativa spiccano nel libro della Vallejo, mai noioso, denso di aneddoti colti e dettagli curiosi che danno ragione del suo straordinario successo editoriale.
L’Autrice non poteva accomiatarsi dai suoi lettori che con un atto d’amore proprio verso la lettura: «Leggere è ascoltare musica fatta parola. È vicinanza e stordimento. È, a volte, parlare con i morti per sentirci più vivi. È viaggio immobile. È una meraviglia quotidiana. In questo tempo di reclusione abbiamo sperimentato che i libri ammansiscono l’ansia e ci regalano luoghi lontani. Apprezziamo – adesso forse più che mai – il ruolo che svolgono nelle nostre vite sbatacchiate dalla tempesta e dallo sconcerto. Nel corso dei secoli, questi scrigni di parole sono scampati a guerre, dittature, periodi di siccità, crisi e catastrofi. Dentro i libri, le utopie attendono giorni migliori. Senza sosta, ci offrono dalle loro pagine, come braccia aperte, le idee, le storie e i racconti di cui avremo bisogno per scrivere il domani.»