Intanto dobbiamo osservare che l’etichetta “social network” designa un fenomeno multiforme e in costante evoluzione. Quando i miei soci e io concepimmo l’idea di usare Twitter per accompagnare l’esperienza della lettura dei classici, nel 2012, Twitter aveva caratteristiche molto diverse da quelle che presenta oggi: era un luogo di socialità, sperimentazione e anticonformismo. Anno dopo anno, siamo stati testimoni di una trasformazione profonda, che ha fatto emergere gravi disfunzionalità. Oggi – possiamo dirlo serenamente – Twitter si presta molto meno a quel tipo di esperienza. Tanto è vero che negli ultimi anni i nostri sforzi si sono concentrati nello sviluppo di una piattaforma alternativa, pensata apposta per gli esercizi di lettura e riscrittura, principalmente declinati in chiave didattica. Mi riferisco a Betwyll, dove la comunità di TwLetteratura si sta gradualmente spostando. Nel frattempo scorgiamo i primi segni della crisi di Facebook, assistiamo alla battuta d’arresto di Instagram, alla disaffezione dei giovani nei confronti di YouTube e al successo di TikTok. Quest’ultimo, a mio avviso, non è neppure definibile come social network ed è più probabilmente una piattaforma di intrattenimento simile a Netflix. Insomma, nel momento in cui la retorica del web 2.0 sembra avere fatto il suo tempo, di quali social network stiamo parlando?
A me interessa molto di più il concetto di social reading. Con esso mi riferisco a qualunque pratica di lettura basata sulla condivisione dell’esperienza all’interno di una comunità di lettori, i quali si organizzano opportunamente proprio per “leggere insieme”. Voglio evidenziare il fatto che non si tratta di un’idea inedita. Al contrario, per tutta l’antichità e per buona parte del medioevo, la lettura si è manifestata in una serie di pratiche di tipo collettivo. Solo con la modernità e con il progressivo consolidarsi di quello che Roger Chartier chiama l’“ordre des livres”, la lettura acquista un carattere privato, riconducibile alla dimensione dell’individualità. Ebbene, i media digitali – fondati sul paradigma della connessione – possono abilitare pratiche di lettura condivisa di vario tipo.
Ciò è sufficiente a promuovere l’amore per i libri e la lettura? Difficile dirlo, in termini astratti e generali. Da quando mi occupo di questo tema, ho una ferma convinzione: ogni pratica di lettura si manifesta al punto di incontro fra supporto tecnico, contenuto e contesto sociale. Quindi ogni volta dovremmo considerare come ciascuno di questi tre elementi si dispone all’interno del sistema. Esistono diversi modi di leggere o stili di lettura, i quali dipendono non solo dalle caratteristiche del dispositivo tecnico, ma anche dalla posizione e dagli obiettivi specifici assunti di volta in volta dal lettore, dal contesto in cui l’esperienza di lettura si consuma (spazio e tempo a disposizione, tanto per cominciare), dalla natura del contenuto testuale (funzione, forma, lunghezza) e infine dalla cultura di chi legge.
I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Ovviamente le cause sono molteplici. Provo a indicarne due.
In primo luogo chi non legge è spesso condizionato da un deficit di competenza. Per leggere, infatti, occorre saper leggere. Non è un fatto scontato, perché leggere è una delle pratiche più innaturali in cui all’essere umano capiti di impegnarsi. Nulla di biologico ci predispone alla lettura. Saper leggere vuol dire disporre delle competenze necessarie per abbracciare un testo e instaurare con esso un dialogo proficuo. Il che significa molte cose diverse, dalla comprensione letterale al godimento estetico. Tutte cose che dovrebbero essere insegnate a scuola. Quando la scuola fallisce, perché non è capace di offrire gli strumenti critici né di accendere la passione per la lettura, produce non-lettori. Che poi sono cittadini svantaggiati, in quanto incapaci di decodificare la realtà in cui si muovono.
Una seconda ragione è di ordine più generale, e riguarda la condizione in cui tutti noi siamo immersi. La chiamo “condizione postmediale”, per indicare lo stato di immersione permanente nei media, il costante rumore di fondo, il sovraccarico informativo e l’iperstimolazione cui siamo sottoposti. La lettura ha bisogno di altro: di concentrazione, tempo e silenzio. Ovviamente questo non è un fenomeno solo italiano e non impatta tanto su quanto leggiamo, ma su come leggiamo.
Può dare a chi non legge una ragione per farlo?
Il consiglio più bello lo diede a suo tempo Umberto Eco. Ricordiamo tutti, credo, il suo ammonimento: chi non legge si troverà a 70 anni ad avere vissuto una vita sola, mentre chi legge conquista una “immortalità all’indietro”. Sono altresì persuaso che il modo migliore per tenere un non-lettore lontano dai libri sia giudicarlo sul piano morale, cercando di farlo sentire in colpa in base all’idea che chi non legge sarebbe un individuo moralmente esecrabile.
È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
Come ho già detto, assegno alla scuola un ruolo fondamentale. In primo luogo la scuola deve insegnare a leggere, perché questo è un presupposto di tutto il resto. E poi deve educare ai testi, sia quelli letterari sia quelli di altra natura. Le nuove generazioni dovrebbero imparare a leggere e decodificare Manzoni, ma anche un quotidiano, un manuale tecnico o un discorso politico. Per quanto riguarda la letteratura, mi pare che troppo spesso si insista con un approccio che valorizza la storia e la critica, ma trascura i testi. Le cui ragioni sono spesso umiliate attraverso la pratica dell’antologizzazione. Proprio il caso di Manzoni è emblematico in questo senso. Se I promessi sposi sono il romanzo più importante della tradizione letteraria italiana, che senso ha leggerne solo alcuni brani, come spesso accade nelle nostre scuole? Quale comprensione ne ricavano gli studenti?
Come è cambiata la lettura nell’ecosistema dello schermo?
Quindici anni di ricerche, condotte in tutto il mondo, ci portano a formulare delle ipotesi, ma non ci autorizzano a trarre conclusioni certe. La dematerializzazione del contenuto sembra produrre un indebolimento delle performance cognitive del lettore. La comprensione e la memorizzazione del testo, nella lettura a schermo, sono in linea di massima più difficili perché, a differenza di ciò che avviene nel libro tradizionale, il testo non occupa una posizione fissa nello spazio. Il digitale manda in soffitta uno dei cardini del libro tradizionale: la mise en page («messa in pagina»), ovvero la disposizione grafica di un contenuto informativo in uno spazio dato. Quella pratica che, perfezionata da tipografi come Aldo Manuzio, consente di raggiungere il massimo livello di leggibilità e comprensibilità di un documento.
Molti osservatori insistono sull’ipotesi che lo schermo sia incompatibile con la lettura profonda e che abiliti un tipo di lettura veloce e superficiale. Tuttavia occorre essere molto cauti, come dicevo, nel trarre delle conclusioni. Raccomando l’ultimo saggio di Naomi Baron, How We Read Now: Strategic Choices for Print, Screen, and Audio, in cui l’idea di una relazione biunivoca fra medium e approccio alla lettura viene messa in discussione. Secondo Baron il “modo di leggere digitale” può manifestarsi anche quando affrontiamo la lettura su supporti analogici o quando ascoltiamo un audiolibro. Il mezzo conta, ma contano ancora di più la consapevolezza e l’atteggiamento che abbiamo quando leggiamo. Per questo Baron riprende la formula della bi-alfabetizzazione agli stili di lettura, proposta qualche anno fa da Maryanne Wolf, ma suggerisce di applicarla agli stili di lettura, piuttosto che ai media. In pratica, quando si legge bisognerebbe identificare la ragione per cui lo si sta facendo, mettere tutto l’impegno necessario affinché il mezzo di volta in volta impiegato funzioni, non sopravvalutare le proprie capacità, gestire al meglio l’ambiente in cui si sta leggendo e imparare ad adattarsi, quando non si può scegliere il mezzo di lettura più indicato.
Quali provvedimenti andrebbero a Suo avviso adottati per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
Ho già detto che non credo nelle campagne di promozione della lettura di stampo paternalista, che rischiano anzi di essere controproducenti. Nel nostro Paese ci abbiamo provato più volte, ma la cosa non ha mai funzionato. Io mi concentrerei su un elemento chiave del sistema della lettura, che in Italia è debolissimo. Mi riferisco alle biblioteche, intese ovviamente non come luoghi di conservazione dei libri ma come spazi di socialità. E, in questo senso, darei credito anche alle librerie indipendenti, che possono svolgere una funzione diversa rispetto alle librerie di catena e alle piattaforme di e-commerce. Poi – anche se la proposta può apparire paradossale – stamperei meno libri. Escludendo la scolastica, oggi in Italia si pubblicano circa 70.000 titoli all’anno. Troppi, per essere tutti di qualità e per essere adeguatamente promossi. Credo che gli editori siano le prime vittime di questa inflazione.
Paolo Costa è docente a contratto per i corsi di laurea in Comunicazione e in Filologia Moderna dell’Università di Pavia. Dopo la formazione in Lettere Moderne con indirizzo filologico-linguistico, ha svolto per un decennio la professione di giornalista, per poi dedicarsi alla consulenza di impresa nell’ambito della comunicazione organizzativa e delle tecnologie dell’informazione. Dal 1998 si occupa in particolare di cultura digitale e nuovi media. È tra i soci fondatori di Spindox (società di consulenza) e di Betwyll (startup innovativa che sviluppa tecnologie a supporto della didattica).