“Palenque. I luoghi dell’archeologia” di Arianna Campiani e Davide Domenici

Dott.ssa Arianna Campiani e prof. Davide Domenici, Voi siete autori del libro Palenque edito da Carocci: quale importanza riveste, per l’archeologia maya, il sito di Palenque?
Palenque. I luoghi dell'archeologia, Arianna Campiani, Davide DomeniciDurante il periodo Classico Tardo della Mesoamerica (250-900 d.C.) Palenque fiorì come sede di una delle più celebri e sfarzose dinastie del mondo maya. Nonostante la sua posizione ai margini occidentali di quella che si conosce come “zona maya”, la città controllava una vasta regione popolata da una miriade di insediamenti ed era una delle protagoniste della complessa vita politica del periodo. Il Classico maya fu infatti un periodo storico caratterizzato da una grande instabilità politica, dovuta alla presenza di decine di regni indipendenti in conflitto tra loro, che si contendevano l’accesso a beni di lusso e intessevano una fitta rete di alleanze incentrata attorno alle due grandi potenze dell’epoca, Tikal, nell’odierno Guatemala, e Calakmul, nel sud della messicana penisola dello Yucatan.

Palenque è stata la prima città maya ad essere scoperta dagli studiosi settecenteschi. Sin dalla fine del XVIII secolo, fu costantemente oggetto di visite e ricerche da parte di esploratori, curiosi e archeologi e, di fatto, è proprio qui che ebbe inizio l’archeologia maya. Attraverso i secoli, le raffinate architetture e decorazioni verranno instancabilmente riprodotte, disegnate, fotografate da coloro che si recavano nella fitta giungla per cercare di dare un senso alle imponenti rovine celate dalla vegetazione. Alla storia della scoperta di Palenque si intreccia inestricabilmente quella della decifrazione della scrittura maya. Per la ricchezza dei testi sui monumenti palencani, molti epigrafisti decisero di riunirsi proprio a Palenque nell’estate del 1973 per confrontare idee sul processo di decifrazione e verificarle direttamente in campo, tra le rovine. Questa collaborazione e confronto portarono a ricostruire la sequenza dei sovrani che governarono Palenque nel momento del massimo splendore e aprirono la porta a successivi incontri e workshop per formare generazioni di futuri epigrafisti. Non dimentichiamo poi che un altro momento fondamentale per l’archeologia maya che mette di nuovo Palenque al centro dell’attenzione di studiosi e archeologi ma lo porta alla ribalta anche come meta turistica, è la scoperta della tomba del sovrano K’inich Janaab’ Pakal nelle viscere del Tempio della Iscrizioni. Mai prima d’allora era stato rinvenuto un sarcofago regale all’interno di una cripta nel cuore di una piramide. Edifici come il Tempio delle Iscrizioni erano stati considerati fino ad allora come strutture di carattere prevalentemente templare, mentre il rinvenimento della cripta di Pakal ne svela la funzione funeraria. Insomma, Palenque è decisamente al centro dell’archeologia maya.

Quando è avvenuta la riscoperta di Palenque?
La spinta al collezionismo promossa da Carlo di Borbone con la riscoperta di Ercolano e Pompei si fece sentire anche all’altro capo del sistema imperiale spagnolo, proprio a Palenque. Le notizie di “case di pietra” celate dalla foresta cominciarono a circolare fin dal 1773, ma dopo aver avuto conferma dell’esistenza di tal rovine, la prima spedizione ufficiale a Palenque venne organizzata dalla Real Audiencia de Guatemala sul finire del 1784. Le visite alle rovine si susseguirono poi nel tempo e nel 1785 l’architetto italiano Antonio Bernasconi realizzò le prime mappe e i primi rilievi di carattere scientifico. Il susseguirsi delle notizie portò ad una ulteriore spedizione nel 1787, ordinata da Carlo di Borbone stesso. Bernasconi ipotizzò che gli abitanti e costruttori di Palenque fossero indigeni, basando la sua ipotesi sui bassorilievi in stucco e sullo stile degli edifici, mai visto prima. Questa visione pionieristica fu spesso contrastata dagli esploratori che visitarono Palenque dopo di lui, i quali – armati dell’arroganza intellettuale del colonialismo illuminista –erano incapaci di riconoscere agli antichi popoli indigeni il grado di civiltà necessario per erigere una simile città. L’uso della parola “riscoperta” parlando delle prime visite alle rovine di Palenque vuole enfatizzare il fatto che i maya che vivevano nella regione certo conoscevano l’esistenza delle rovine costruite dai loro antenati. Tra l’altro, come suggerisce lo storico Jan de Vos, è anche possibile che quando il domenicano fra’ Pedro Lorenzo de la Nada fondò il villaggio di Santo Domingo de Palenque nel 1567 lo abbia chiamato in questo modo (palenque significa in spagnolo “luogo recintato” o “fortificato”) proprio perché conscio dell’esistenza delle vicine rovine, indicategli dai locali.

Come si è articolata la storia dinastica di Palenque?
Sebbene l’area della città sia stata occupata almeno dall’inizio dell’era corrente, il registro epigrafico fa risalire la fondazione di Palenque al 431 d.C., quando salì al trono un certo Kuk’ Bahlam I (“Quetzal Giaguaro I”). Le iscrizioni retrospettive registrano poi i nomi di diversi successori, dei quali però abbiamo scarse evidenze archeologiche. Un vero e proprio punto di svolta nella storia palencana fu costituito dalla salita al trono, il 26 luglio del 615, di un ragazzino dodicenne, chiamato Janaab’ Pakal (“Ninfea Scudo”). Pakal, infatti, regnò per ben 68 anni facendo del regno B’aakal (questo l’antico nome della dinastia che governava Palenque) una delle grandi potenze della regione occidentale del mondo maya. Durante il suo regno, la capitale (il cui nome antico fu Lakam Ha’, “Acqua Grande”) si abbellì di monumenti di eccezionale bellezza, come i diversi edifici del Palazzo reale e gli adicenti mausolei, due dei quali destinati ad accogliere le spoglie di Pakal e di sua moglie. A Pakal successe poi suo figlio K’an Bahlam (“Prezioso Giuaguaro”), il quale continuò ad arricchire il centro monumentale con la costruzione dei templi del cosiddetto Gruppo delle Croci e ad accrescere il potere delle città grazie a numerose campagne militari. Non sempre queste furono però vittoriose: suo fratello K’an Joy Chitam, ad esempio, fu catturato dai guerrieri della città di Toninà, salvandosi comunque dal sacrificio al quale erano solitamente destinati i sovrani sconfitti. Tra i sovrani successivi spicca poi la figura di Ahkal Mo’ Nahb’ III, al quale si dovette un ultimo momento di grande sviluppo politico ed economico di Palenque, riflesso in monumenti di eccezionale bellezza. Ben presto, però, una profonda crisi colpì la città e tutto il mondo maya: nerl corso del IX secolo Palenque fu abbandonata e le sue rovine furono presto inghiottite dalla giungla.

Qual era e come si è evoluta nel tempo la configurazione topografica e spaziale di Palenque?
Palenque si trova in una posizione unica, un plateau solcato da numerosi torrenti e caratterizzato da un’ampia disponibilità di risorse naturali. L’abbondanza di acqua fu senza dubbio un elemento determinante nella scelta del luogo dove fondare la città: da qui l’antico toponimo di Palenque, Lakamha’, “Acqua Grande”, in lingua maya ch’ol. A differenza di molte altre città della “zona maya”, questa condizione facilitò il fiorire di un insediamento compatto. Il centro geografico del pianoro venne sbancato e spianato per creare grandi piazze su diversi livelli dove nel tempo si edificarono e abbellirono edifici templari e religiosi, che in un certo senso si dispongono intorno al Palazzo reale che, con le sue quattro facciate, domina su tutti gli spazi aperti. Si pensa che prima del 150 d.C. due villaggi occupassero rispettivamente il margine orientale e occidentale del plateau e che i loro abitanti usassero l’area centrale per attività e rituali comuni. Nel tempo questi due insediamenti si sarebbero fusi fino ad arrivare, nel secolo VIII, ad essere completamente irriconoscibili poiché inglobati nella città del Classico Tardo. Gli scavi archeologici suggeriscono che l’impulso architettonico che si registra nel centro della città a partire dal V secolo non fu uno sforzo isolato, ma ebbe ripercussioni anche nel resto dell’insediamento, dove i nobili che controllavano i quartieri cominciarono ad appianare le asperità del terreno per seppellire i propri antenati. Gli edifici che costituiscono il centro di Palenque riflettono i canoni architettonici maya del periodo Classico, con grandi piazze attorniate da costruzioni di tipologie ricorrenti: un edificio sede della corte reale, conosciuto come Palazzo, il campo per il gioco della palla e basamenti a gradoni sormontati da templi ed edifici funerari. Sul tetto di molti edifici palencani si innalzava una crestería (cresta), cioè un muro o gelosia di lastre calcaree che, elevando nettamente il profilo degli edifici, supportava grandi bassorilievi in stucchi policromi. Dobbiamo pensare a Palenque come a una città in costante divenire, con cantieri aperti tutto il tempo. Poche erano le persone che si dedicavano interamente all’edilizia, forse solo coloro che svolgevano incarichi speciali, come scultori e intagliatori, e certamente gli architetti appartenevano alla classe nobiliare, mentre cittadini comuni dedicavano parte del loro tempo alla costruzione. Parte di queste considerazioni nascono anche dal progetto MAYURB 839602 della dott.ssa Campiani, finanziato dall’Unione Europea, e che si centra sull’urbanistica maya del periodo Classico, dove Palenque è proprio il caso di studio particolare. Come si evince dalle pagine del libro, ci è interessato mostrare non solo la morfologia della città di Palenque e come le grandi opere infrastrutturali modificano il contesto inziale, ma abbiamo voluto anche enfatizzare la nascita dei quartieri cittadini e il modo in cui “l’organismo città” acquisisce nel tempo la forma che conosciamo oggi. Una pianificazione urbanistica che coinvolgeva non solo i sovrani ma anche la classe governante rese possibile una modificazione strutturale del pianoro grazie alla costruzione di un sistema di terrazze che garantivano aree pianeggianti e alla creazione di un sofisticato sistema idraulico con cui si potevano controllare le esondazioni dei torrenti, ma anche deviare il fiume Otolum per ampliare il Palazzo reale.

Come si sono sviluppati la fortuna e il mito di Palenque?
Palenque divenne celebre in tutto il mondo già nel XIX secolo, soprattutto grazie alla pubblicazione, nel 1841, di Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatan, scritto da John Lloyd Stephens e illustrato da Frederick Catherwood, un volume che divenne un best seller e che scatenò una vera e propria “mayamania”. Certo, però, fu poi la scoperta della tomba di Pakal, avvenuta nel 1952 a sancire il successo globale di Palenque e a farne uno dei luoghi mitici dell’archeologia mondiale. Purtroppo, però, la fama ha anche i suoi lati negativi: la celebre lastra a bassorilievo che chiude il sarcofago di Pakal – perfettamente comprensibile alla luce delle convenzioni iconografiche maya – è divenuta oggetto di celebri interpretazioni fantarcheologiche che vi vedrebbero la figura di un pilota di un razzo spaziale… Ci sarebbe da riderne, se non fosse che questo tipo di fantasie si fondano su idee profondamente razziste che – così come fecero i primi esploratori europei – negano agli indigeni maya la capacità di realizzare opere di grande valore estetico e simbolico. È anche per questo che è importante riconoscere non solo che l’antica Palenque fu costruita dagli antichi maya, dei quali i maya attuali sono i diretti discendenti.

Cosa rimane di Palenque oggi?
Verso la metà del xx secolo, la cittadina di Palenque cominciò a prosperare grazie alla zona archeologica, la cui fortuna portò alla costruzione della strada che la connette a Villahermosa (capitale dello Stato di Tabasco), permettendole di diventare un nodo commerciale di un certo rilievo. Oggi la moderna Palenque vive principalmente di turismo e dell’allevamento di bestiame. La zona archeologica, bene patrimoniale nazionale affidato all’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH) del Messico, è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1987.

Le rovine rappresentano ancora una fonte di ingresso per la moderna cittadina di Palenque, che si trova a pochi chilometri a nord del sito. Anche l’economia di gran parte delle comunità maya che abitano a El Naranjo e López Mateos, in prossimità del sito, dipende dalla zona archeologica. Molti maya ch’ol e tseltal si dedicano all’artigianato che si vende all’interno del sito e alle visite guidate, ma lavorano anche in hotel e ristoranti che sorgono in gran numero lungo la strada che connette il pueblo moderno alle rovine. Alcuni abitanti lavorano come personale addetto alla manutenzione della zona archeologica, mentre altri vivono delle campagne archeologiche quando vengono impiegati come muratori e operai.

Oggi la città archeologica resta in gran parte celata dal folto manto vegetale e solo il suo centro e pochi quartieri abitativi sono stati restaurati e si possono visitare. Il perimetro del sito si trova all’interno di un’area naturale protetta, il Parco nazionale di Palenque; grazie al parco, le rovine sono immerse nella lussureggiante foresta tropicale, ma di fatto quest’area è un’isola verde tra le colline e la pianura ampiamente deforestate. Alcuni percorsi nella foresta permettono di raggiungere il Tempio Olvidado, ad ovest del centro, dove forse erano sepolti i genitori di Pakal, e il limite occidentale del sito dove probabilmente si trovava l’accesso principale alla città, indicato dalla stele della Picota, un monolito senza decorazioni. Sempre in corrispondenza della stele si può osservare un complesso sistema di acquedotti con una piscina di acqua corrente che si usava per abluzioni rituali prima di avviarsi verso il centro della città. Un altro percorso nella foresta conduce dal centro della di Palenque al museo del sito, costeggiando e attraversando il fiume Otolum con le sue spettacolari cascate e piscine di acqua cristallina.

Davide Domenici è Professore Associato di Antropologia presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna, dove insegna Arte e cultura dell’America indigena. Ha diretto il Progetto Archeologico Río La Venta (Messico, 1999-2010) e il Cahokia Project (Illinois, USA, 2011-2017). Si occupa dello studio della pittura mesoamericana mediante indagini scientifiche non invasive e di storia del collezionismo di manufatti indigeni americani nell’Italia della prima età moderna.

Arianna Campiani è ricercatrice Marie Skłodowska Curie presso la Università di Roma La Sapienza e la Universidad Nacional Autónoma de México. Ha lavorato in numerosi progetti archeologici in Messico, primo fra i quali il Progetto Archeologico Rio La Venta. Fin dal 2008 collabora ai progetti interistituzionali diretti dalla Universidad Nacional Autónoma de México a Palenque e nella regione circostante. Si occupa di urbanistica mesoamericana e di archeologia digitale.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link