
di Paolo Cherchi
a cura di Dino Manca
EDES
Prof. Paolo Cherchi, un altro Suo libro nel giro di poche settimane! Congratulazioni! È un libro molto diverso dal suo ultimo, Le concordanze delle storie che il nostro portale ha segnalato, e lo è per il tema e per il taglio che ci vorrà illustrare. La inviterei a farlo chiedendole che cosa vuol dire “Sa recuida de Paulu” con cui il Dino Manca intitola la sua presentazione del volume.
La ringrazio come sempre dell’ospitalità e anche della domanda che, in qualche modo arriva all’essenza del libro. La parola sarda “sa recuida” significa “il ritorno a casa”, ed è stata una felice trovata di Dino Manca presentatore e curatore del volume, nonché direttore della collana che lo accoglie. Attorno a questo concetto ricostruisce un fenomeno che coinvolge molti sardi e fra questi include anche me. È una sorta di diaspora che annovera personaggi alcuni illustri sardi come Giuseppe Dessì e Salvatore Satta i quali vissero fuori dalla Sardegna, ma non la dimenticarono mai, anzi la “mitizzarono” nelle loro opere, e quindi anche loro “tornarono a casa”, sia pure con la memoria. Questo paragone ovviamente mi lusinga e mi intimidisce, e chi ha letto Il giorno del giudizio di Satta non deve aspettarsi di vedere qualcosa di simile nella raccolta dei miei saggi. Dino Manca è un professore di letteratura italiana presso l’Università di Sassari ed è anche un allievo di un mio maestro, ma è molto più giovane di me e credo che l’affetto e la patria comune lo abbiano spinto ad associarmi generosamente ad altri illustri sardi espatriati.
Saranno esperienze diverse, ma il presentatore avrà colto qualcosa di simile fra questi sardi che vivono lontani dalla loro terra.
Certamente. È uno studioso troppo serio per costruire un discorso senza basi solide. Dico solo che ha esagerato un pochino nell’affiancarmi a personalità di grande rilievo, ma nella sostanza ha visto benissimo. Intanto vede lucidamente che esiste un “modo sardo” di rimanere attaccati alla propria terra, ed è dovuto alla diversità della loro cultura d’origine, addirittura della loro civiltà rispetto alle nazioni che li ospitano, e questa distanza crea un nostos particolare, una tensione ambigua ma forte verso la loro isola. In qualche modo vi accenno anch’io nella prefazione in cui cerco di spiegare come sono nate queste mie “pagine sarde”.
Lo dica anche a noi.
Mi sono laureato in filologia romanza a Cagliari, e non ho mai seguito un corso né di storia né di linguistica sarda. Da provinciale mi sembrava che quegli studi mi avrebbero reso ancora più provinciale o campanilista, e una volta laureato sono andato a Berkeley e poi a Chicago dove ho fatto l’italianista. Ed è da fuori che ho scoperto un po’ della Sardegna dalla quale ero felice di essere lontano ma di cui ovviamente mi riconoscevo figlio. E leggendo di tutt’altre cose mi imbattevo in cose relative alla Sardegna. Ne prendevo nota, scrivevo qualche saggio, e durante le vacanze tornavo spesso in Sardegna. E vedevo che c’era un potente movimento di riscoperta della Sardegna, di studi e di attività che sprovincializzavano la Sardegna e alcuni dei miei vecchi colleghi erano diventati notevoli studiosi di cose sarde, sia in campo letterario che antropologico e storico. Con il passare del tempo ho capito che esisteva una Sardegna fuori dall’isola e che i miei amici sardi non conoscevano. E così è maturata l’occasione e anche il desiderio di “recuire a domo”, di tornare a casa e presentare il gruzzolo di cose che avevo imparato, cose che riguardavano a Sardegna ma che i miei conterranei non conoscevano.
Ci può dire di questi saggi che ha raccolto?
Ecco, uno dei primissimi saggi ricostruisce la storia di una fontana sarda che rende ciechi i bugiardi che toccano le sue acque. Questa leggenda risale al mondo antico (la registra Solino), e fece il giro delle letterature europee, ed era nota anche dai sardi, ma in misura minima: non si sapeva che, ad esempio, ad essa dedica un capitolo Tomaso Garzoni nel suo Serraglio degli stupori del mondo. La leggenda poi muore senza lasciare traccia alcuna come accadde con altre fonti famose che però, contrariamente alla fonte sarda, erano legate ad un nome di luogo o di un eroe. Un altro saggio è dedicato ad un’opera in latino del Cinquecento che descrive il simbolo dell’Hermathena dell’Accademia Bocchiana di Bologna. Quest’opera scritta da un medico sardo, Gavino Sambigucci, è una delle primissime opere di emblematica, ossia del fortunatissimo genere dell’Europa Cinque e Seicentesca, ed è praticamente sconosciuta in Sardegna. Affronta grandi temi, come quello trinitario nel contesto del neoplatonismo cinquecentesco, ed è del tutto anomala nella cultura sarda del Cinquecento, ed è giustificato supporre che l’autore sardo sia un prestanome e non il vero autore. C’è un altro saggio sull’Argenis, (1625) dello scozzese John Barclay; è un romanzo in latino che ebbe una fortuna immensa nel Sei-Settecento. Uno dei due protagonisti maggiori è un re sardo, che però non è mai esistito. L’Argenis è un romanzo a chiave i cui personaggi sono quelli contemporanei dell’autore ma sotto finto nome, per cui il re sardo menzionato adombra il re spagnolo in guerra con un re di Sicilia che rappresenta a sua volta il re di Francia. Tutta la Sardegna che vi troviamo (i porti, un tempio di Giove, un esercito di soldati feroci, ecc.) è inventata, e tuttavia descrive un’isola di primitivi quale doveva essere nell’immaginario di quell’epoca e che comunque contribuì a diffondere, tanto che la Sardegna appare in vari romanzi secenteschi sempre come terra remota e misteriosa.
Quindi i saggi vertono tutti su autori stranieri che descrivono una Sardegna che non hanno mai visto?
Alcuni saggi, e non tutti. Altri toccano autori che “escono dalla Sardegna” e la portano all’estero. Tale è il caso di Antonio Lo Frasso, un algherese che finì i suoi giorni a Barcellona e scrisse un romanzo pastorale in spagnolo, ma contenente poesie in sardo, in catalano e perfino in italiano. La Sardegna di quei giorni, era dominata dalla Spagna ma aveva contatti intensi anche con la Toscana e con Genova, ed era trilingue, un fenomeno non registrato altrove. Comunque Los diez libros de Fortuna de amor (1571) di Antonio Lo Frasso sono un romanzo pastorale, che viene ricordato nel Don Quijote fra le opere più strane tanto da essere originali. Il giudizio di Cervantes è molto ambiguo e molto discusso. L’opera offre un caso di acculturazione particolare, cioè del modo in cui la cultura sarda aspirava ad adeguarsi al meglio di quello che circolava nella cultura spagnola del tempo. Il meglio era il romanzo pastorale salito in grande auge nella prima metà del Cinquecento, e per giunta consentiva di includere elementi autobiografici, sezioni in versi, descrizioni paesaggistiche, novelle, allegorie e vari altri generi: proprio il tipo di letteratura che si confaceva ad un autore voglioso di esperimentare e di cimentarsi in vari generi.
I suoi incontri “occasionali” del mondo sardo con altre culture si muove anche in direzioni letterarie non puramente creative?
Sì, certo. Una di queste è la questione della lingua che per la Sardegna è quasi inevitabile, considerando che il sardo è una vera lingua romanza, e Dante nel De vulgari eloquentia la escluse dal novero dei dialetti italiani, dicendo che il sardo scimmiotta il latino. Un primo saggio è dedicato allo studio del Padre nostro in sardo, il testo sardo più diffuso nel mondo. La Oratio dominica nella versione sarda apparve a stampa nel 1550 nella Cosmographia universalis di Sebastian Münster, e apparve in tre versioni, cioè latina, logudorese e catalana. Quest’ultima era la versione “cittadina”, quella sarda invece era quella delle campagne. Questo testo, ripreso da Conrad Gessner e poi da Claude Duret, fu ristampato centinaia di volte in tutto il mondo, dall’Inghilterra alla Germania agli Stati Uniti e ancora oggi si ripubblica nel cosiddetto Lord’s Prier Book, che raccoglie i “padre nostro” in tutte le lingue dove è arrivato il cristianesimo. È la preghiera che più di tutte le altre viene utilizzata per dare “identità” ad una lingua. In questo saggio porto alla luce varie versioni sconosciute fra cui quella registrata da un grande linguista e gesuita spagnolo del tardo ’700, Hervás y Panduro. Un altro saggio riguarda una ‘contina’ infantile, in una lingua irriconoscibile ma che credo sia originariamente il catalano poi deformata in una versione che sopravvive in Sardegna. Infine un terzo saggio riguarda una polemica tra due grandi linguisti, Yakov Malkiel e Max Leopold Wagner a proposito di una parola sarda.
Nessun saggio “tipico” su poeti e scrittori sardi, e intendo dire nessuna lettura nel senso tradizionale di valutazione estetica di romanzieri e/o di poeti?
Dedico un saggio alla traduzione in sardo della Divina Commedia fatta da un sacerdote e letterato sardo, Pedru Casu, nel 1929. La Sardegna fu l’ultima regione ad avere una Commedia in lingua propria, e facendolo si univa al coro delle altre regioni italiani che nell’Ottocento tradussero Dante per partecipare allo spirito unitario risorgimentale. Mi occupo anche di due autori in particolare. Uno è Salvatore Farina, romanziere oggi dimenticato ma che ai suoi giorni apparve come un “Dickens” italiano. E lo studio proprio analizzando la fortuna che ebbe nel mondo inglese dove fu letto e tradotto e apprezzato in modo che oggi ci pare immeritato. Comunque fu un fenomeno che solo i tempi riescono a farci capire, i tempi in cui era di moda un certo “antieroismo” à la Pierre Loti e lo psicologismo di un Bourget. L’altro saggio è dedicato ad un accademico del mio paese, Mario Pinna, un normalista vissuto fuori dalla Sardegna e di cui si pubblicò postumamente una raccolta di poesie in sardo. È un poeta di vena pascoliana con inflessioni di un Machado e perfino di un Ungaretti. Un bel poeta. Con questi due autori si chiude il mio ritorno, e sintetizzano il senso del libro che mostra una Sardegna vista da fuori, quindi di un Sardegna che vuole uscire fuori, e di una Sardegna che vuole farsi vedere dal di dentro. Ma forse la sostanza del libro viene emblematizzata bene da uno studioso, Nicola Tanda, al quale viene dedicato il medaglione finale. Tanda era un italianista che diventò un promotore dinamico degli studi della cultura sarda. Egli parlava non della “letteratura italiana” ma della “letteratura degli italiani”, e in questo senso riusciva a far rientrare la cultura letteraria prodotta in Sardegna nella cultura letteraria italiana in generale, e in questo fu maestro di varie generazioni, incluso la mia e di quella del curatore del volume Dino Manca.
Personalmente sono molto contento di aver fatto questo libro, non perché apporti grandi conquiste intellettuali, ma perché mi ha aiutato a scoprire quella che Cicerone chiamava la “patria parva”, o che gli spagnoli chiamano “la patria chica”. Spero che i miei conterranei vi trovino cose che li riguardano e che ignoravano, e che i colleghi “internazionali” capiscano meglio un’isola che cerca di uscire dai confini che il mare le impone.