
In questo senso una funzione importante è assunta dal “simbolo”, che non è il “segno”. Il “simbolo” infatti è l’elemento che stabilisce una relazione, che congiunge due parti che si richiamano a vicenda; è propriamente il “tra”. Il “segno” invece, indica precisamente qualcosa. Simboli sono dunque le parole di un rito, possono esserlo gli oggetti sacri, le preghiere… Il simbolismo insomma, esula dal modo comune di intenderlo: esso va contestualizzato in una relazione che riporta due parti che si richiamano e che si ricongiungono mediante un percorso cultico.
Nel mio studio mi sono posto in una posizione critica e metodologicamente attenta, nelle distinzioni e nelle comunanze che il paganesimo e il cristianesimo hanno avuto nell’epoca tardo-antica, (in maniera più densa il volume abbraccia il II-IV sec. d.C., ma necessariamente scorre indietro fino a Pitagora e si riporta in avanti fino a Proclo e Damascio, oltre il V sec.), in quel particolare periodo in cui il pensiero classico dell’antichità ellenica è maggiormente intriso di elementi religiosi, i quali hanno a che fare con le pratiche della mantica, della magia e della divinazione in generale, ma anche con il pensiero cristiano, che tiene la filosofia classica inizialmente come bersaglio ma poi come strumento fondamentale per stendere le proprie tesi e fondarle scientificamente, cercando appunto il confronto con la cultura fino ad allora dominante. Questo confronto sul doppio binario pagano e cristiano costituisce la base teorica del desiderio atavico dell’uomo: divenire come Dio, divinizzarsi.
Il campo della mia ricerca è stato ristretto alla relazione possibile tra la filosofia e la celebrazione del culto, laddove al termine “celebrazione” non si attribuisce un significato particolarmente indicativo dello specifico atto rituale, ma lo si guarda soprattutto in maniera congiunta ad un pensiero espressamente speculativo, prima di tutto della relazione dell’uomo con Dio e poi della sua attuazione nel culto.
L’incontro filosofico nel culto è declinato nell’aspetto filosofico-religioso dal cristianesimo, che nei primi secoli della nostra era muove i primi passi in materia di dottrina, e da un platonismo che, radicato com’è nelle sue origini religiose e misteriche, continua a muoversi tra filosofia e religione, cambiando e radicalizzando le modalità di accesso al divino, soprattutto in relazione alla religione cristiana. È quanto si denota nel neoplatonismo il quale, se non altro secondo l’aspetto formale – ovvero in quell’apparenza che offre al cristianesimo una griglia di riferimento cui poggiarsi e svilupparsi –, detta l’agenda metodologica delle modalità secondo cui l’uomo trova un approccio che, se nella filosofia platonica e successivamente nel neoplatonismo plotiniano è prettamente cognitivo, nei successivi passaggi storico-filosofici diviene “totale”, inerente non soltanto la facoltà intellettiva dell’uomo ma anche quella spirituale e materiale con la divinità. Proprio nella filosofia platonica i cristiani trovarono una comunanza con il loro credo religioso. Elementi come le realtà invisibili e intelligibili, ritenute superiori a quelle sensibili, queste ultime dipendenti da quelle, alle quali l’uomo, libero dalle passioni deve tendere; l’immortalità dell’anima e i suoi destini escatologici; la dialettica ascensiva verso l’Uno, pensato come Dio buono e bello, che provvede al mondo dell’uomo… Tali elementi hanno fatto sì che i cristiani si sintonizzassero sulla lunghezza d’onda del pensiero platonico, valutando quanto era possibile assimilare alla fede, senza commistioni che potessero causare la perdita della propria originalità. Una differenza importante tra platonismo e cristianesimo consiste proprio nel fatto che il primo, basato su argomenti razionali, è sempre stato oggetto di discussioni, mentre lo stesso non si può dire del cristianesimo. Esso, infatti, si fonda sulla Rivelazione come dogma di fede.
Come si esprime l’idea dell’incontro tra l’uomo e il divino in Clemente Alessandrino, Giamblico di Calcide e Lattanzio?
Il mio lavoro si è indirizzato nella ricerca dell’incontro filosofico nel culto in questi tre pensatori: Clemente Alessandrino (150-215 ca) e Lattanzio (250 ca.-325) in quanto cristiani e Giamblico (250 ca.-330) in quanto pagano. Nella trama mio studio però, sono emersi degli intrecci fitti, sebbene non sempre direttamente rinvenuti nelle fonti, non solo tra di loro ma anche – e soprattutto – con l’universo speculativo dell’antichità. Sono infatti presenti tanti altri pensatori dai quali non si può prescindere in questo tipo di studi. Su tutti cito Platone, Plotino, Proclo, Origene, Damascio.
Il punto fondamentale non è quello di mostrare le differenze tra una filosofia cristiana e una che tale non è; la ricerca stessa mi ha portato ad altre deduzioni, quali per esempio quelle che nel pagano Giamblico si riscontrano nella risposta alla Lettera ad Anebo di Porfirio, il De Mysteriis aegyptiorum. Senza polemizzare con il cristianesimo, ma certamente conoscendolo bene – siamo ormai nel III-IV sec. –, Giamblico mette in atto una teorizzazione di un rituale che costituisce il legame intimo tra la divinità e l’uomo: la teurgia. Si tratta dell’azione divina, del movimento di incontro tra l’umano e il divino; quest’ultimo, suscitato dalle preghiere dell’uomo, si cala in esso e lo abita, permettendo all’uomo di innalzarsi e quindi di divinizzarsi. Non è solamente un’azione del divino ma anche dell’uomo; la divinizzazione infatti, secondo il pensiero di Giamblico, è un movimento reciproco che coinvolge quasi simultaneamente l’uomo e il divino e culmina nell’ἐνθουσιασμός, ossia in quel particolare stato in cui si trova l’uomo quando incontra Dio. Si tratta di un vero e proprio ingresso nel divino, ma anche di un’entrata nel sacrificio rituale in cui è coinvolto tutto l’uomo, in anima e corpo, e questa è una fondamentale differenza del neoplatonismo di Giamblico rispetto a quello di Plotino, in cui il corpo e ogni materialità veniva fuggita e considerata come male.
Il rito teurgico è il culmine della filosofia del culto di Giamblico, un momento di oltrepassamento dei classici canoni speculativi platonici, densi di logica e di razionalismo. Il pensiero di Giamblico invece, facendo propri gli insegnamenti della filosofia platonica, comprende che nella relazione con il divino essa non è bastante, sicchè l’uomo deve capire – proprio mediante la filosofia – che nella comprensione del mistero divino è necessario un momento di arresto, o meglio, un cambio di rotta che porta dalla speculazione razionale alla celebrazione del culto, in cui si incontra Dio. A questo proposito è importante sottolineare che se il pensiero di Giamblico sfocia nel culto teurgico, ciò non vuol dire che egli fosse un irrazionale; questa è la critica che gli è stata mossa, già da Porfirio ma anche da studiosi a noi più recenti. Le mie ricerche mi hanno dimostrato come il pensiero di Giamblico fosse semplicemente un altro modo di pensare il divino; un modo diverso di fare filosofia. Se non troviamo in Giamblico le vette sistematiche di certi pensatori non vuol dire che egli non abbia compreso come si fa filosofia di Dio; semplicemente ha trovato nella teurgia il modo di incontrarlo; e non è un caso che tanti pensatori neoplatonici abbiano chiamato Giamblico “divino”, non tanto per la sua propensione alle cose divine quanto piuttosto rispetto a ciò che egli ci dice della sua personale esperienza del “divino”, del suo modo di intendere la mistica nell’enthusiasmo.
Diversamente da Giamblico, in Clemente Alessandrino la relazione con Dio è caratterizzata dalla razionalità. Essa si esprime nella “gnosi”, cioè nel tentativo di conoscere Dio mediante la speculazione filosofica. Nondimeno Clemente non eccede in questa posizione ma anzi, insiste nell’affermare che lo gnostico diviene perfetto nella conoscenza di Dio soltanto quando si mette alla sequela e nell’ascolto del Λόγος. Esaminando le sue opere ci si rende conto di quanto la Rivelazione cristiana sia un punto imprescindibile dal quale si dipana il suo pensiero; in lui non è presente l’eresia gnostica, volta alla ricerca della conoscenza a prescindere dal dato rivelativo. Al contrario, Clemente sottolinea come la fede debba essere alla base dell’iniziazione gnostica e che, se essa non è semplice, a nulla varrà ogni tipo di conoscenza acquisita. La gnosi viene ad essere una sorta di mistagogia che permette un ingresso di tipo speculativo nell’essere di Dio. Il Λόγος che egli indica altri non è che quello giovanneo presente nel Prologo del quarto vangelo. Avviene così un intreccio tra fede e ragione, un dialogo che, ben prima di Agostino, muove i suoi primi passi proprio nelle pagine degli Stromati di Clemente. Dio viene pensato, indagato e conosciuto a partire dalla semplicità della fede e con l’accompagnamento del Λόγος, unico pedagogo dell’uomo. Solo in quel momento lo gnostico entrerà nel mistero insondabile di Dio e comprenderà che lo stesso Λόγος è Dio. L’immagine è propriamente quella dei due di Emmaus che ri-conoscono il Risorto allo spezzare del pane, dopo aver camminato con Lui, ma simultaneamente quello sparisce dalla loro vista.
In Lattanzio l’argomento della relazione dell’uomo con Dio si sposta più sull’ambito della filosofia pratica. Nelle Divine Istituzioni egli parla di un culto secondo giustizia che culmina nell’aequitas, riconoscimento dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Si potrà dunque avere vera pietas, vero rispetto per Dio, soltanto quanto si rispetteranno gli uomini. Queste posizioni lattanziane vanno lette contestualizzandole nel periodo storico in cui egli ha vissuto: durante le persecuzioni di Diocleziano (303-311) e l’editto di Milano (313), che ha ha dato accesso ai cristiani alla libertà di culto. Ciò ha permesso a Lattanzio di teorizzare una visione kairologica di Dio nelle vicende dell’uomo, e lo ha portato a mettere in relazione la storia con la possibilità di elevare il culto non tanto mediante la partecipazione alla liturgia, quanto nell’applicazione delle norme divine e umane, che permettono appunto la realizzazione dell’aequitas. Si tratta di una teorizzazione del culto che forma una croce: la parte orizzontale è data appunto dall’aequitas mentre quella verticale è data dalla pietas. Solo se c’è la prima può esservi la seconda.
Nelle conclusioni del volume ho definito queste tre diverse posizioni come “tre aspetti di filosofia del culto”. Attraverso questi tre aspetti ho voluto guardare non tanto al bisogno di Dio da parte dell’uomo quanto al “come” questi pensatori propongono che si debba ricercare. L’affermazione di Giustino, εὐσέβεια καὶ φιλοσοφία, ne costituisce il comune denominatore.
Quale trama misteriosofica tra l’uomo e Dio mostrano gli Oracoli Caldaici?
Gli Oracoli Caldaici meritano un’annotazione a parte. Questi componimenti, composti intorno al II secolo d.C., sono l’espressione di una scrittura sapienziale che trascrive e trasmette la voce del divino mediante un medium. In essi si trovano legami con la metafisica e il pensiero orfico e platonico. Per le finalità della mia ricerca è stato utile lo studio della struttura degli Oracoli Caldaici, la loro storia e origine; tuttavia l’aspetto più interessante, al di là della descrizione del divino e del suo intervento e della sua presenza nel mondo, è la loro implicanza nell’approccio cultico e filosofico. Per questo ritengo che essi costituiscano una costante imprescindibile nel tentativo della comprensione dell’incontro filosofico nel culto nel tardoantico. Negli Oracoli, che nel libro rappresentano il fondamento su cui poggia lo sviluppo del capitolo su Giamblico, si è cercata e trovata una maggiore incidenza della reciprocità esistente tra la filosofia e il culto, che sfocia nella fattispecie nella teurgia. In essi si tratta delle gerarchie divine; della relazione triadica tra Padre, Intelletto e Spirito; della funzione demiurgica della divinità; del “fiore dell’intelletto” come elemento elevatissimo costituente il varco dell’unione tra l’uomo e il divino; della divinizzazione dell’uomo. Il pensiero di Giamblico ha una matrice oracolare, sebbene plasmato anche di un neoplatonismo di stampo plotiniano dal quale però si distacca. Il mio intervento si incunea proprio in questo distacco, evidenziando il valore della presenza degli Oracoli.
In che modo in Clemente e Giamblico confluiscono le correnti platoniche e neoplatoniche?
In questi due filosofi l’approccio al platonismo è differente. Nel primo, Padre della Chiesa come Lattanzio, ho riscontrato un riferimento alla dialettica platonica, che indaga i Principi Primi. Lo gnostico infatti, può essere considerato – solo se segue gli insegnamenti del Λόγος Pedagogo – alla stregua del dialettico platonico, ovvero di colui il quale è in grado di conoscere il Sommo Bene, con l’Uno e la Diade. Rispetto al platonismo vi è quindi un’acquisizione di metodo della ricerca ma non un’assimilazione passiva dei contenuti.
Negli scritti di Clemente non ho riscontrato riferimenti diretti al pensiero platonico, ma la densità dei richiami impliciti è alta e stimola l’approfondimento. Ad esempio mi sono imbattuto, per quanto riguarda il “nome di Dio”, nell’ermeneutica del Cratilo, ponendo l’Alessandrino tra Platone e la sua questione del corretto uso dei nomi, e l’interpretazione che ne dà Proclo con il suo Commento al dialogo.
Clemente Alessandrino considera la filosofia come la fonte della conoscenza che ha la sua originalità e verità soltanto nella religione cristiana; per lui la filosofia è propedeutica e funzionale all’uomo per fargli comprendere l’importanza della Rivelazione. Il platonismo di Clemente si può rintracciare nei suoi testi, laddove si riscontra come la speculazione viene considerata alla stregua di una sorta di “motore di ricerca” che contribuisce alla verità e che introduce alla vera gnosi, nella quale consiste il vero culto di Dio e la conoscenza del divino. La filosofia risulta quindi come un’aspirazione a Dio, una via per la conoscenza, ma non l’unica: essa infatti segue la fede. Se da un lato vi è un richiamo alla dialettica ascensiva di Platone dall’altro l’Alessandrino rimane ancorato saldamente al dato della Rivelazione. Chi vuole divenire gnostico deve essere mosso da una fede autentica nella Rivelazione; ciò significa che la salvezza è aperta a tutti e che la fede della persona ignorante è uguale se non superiore a quella del filosofo. Riconoscere la necessità di una fede semplice che garantisce l’accesso a Dio consentirà di specularvi senza la pretesa eretica, tipica della gnosi, di raggiungerlo al di fuori della redenzione divina. Sebbene dunque subordinata all’ascolto del Λόγος rivelato, secondo Clemente la filosofia rimane lo strumento utile per approfondire e comprendere il significato delle Scritture. L’accezione che egli dà al termine “filosofia” non è come in Platone un dato noetico attivo, proprio di una metodologia della ricerca verso i “principi primi”; l’Alessandrino piuttosto indica il valore dell’ascolto del Maestro divino, il vero Pedagogo che insegna la scienza di Dio, volto all’acquisizione degli strumenti speculativi propri di tale scienza. Si può quindi affermare che Clemente Alessandrino utilizza il termine “filosofia” mutuandone il significato dai pensatori pagani e rigenerandolo teleologicamente in funzione della Rivelazione cristiana, secondo parametri specifici adatti a fornire determinati strumenti teoretici al lettore, in modo tale che la stessa filosofia non sia l’elemento discriminante tra il paganesimo e il cristianesimo ma ne risulti piuttosto la cerniera, la naturale sutura per un proseguimento del cammino di conoscenza dell’uomo culminante nell’incontro cultico con il Dio Rivelato. Il Λόγος cui Clemente si riferisce è l’emblema di un tale congiungimento: da un lato la ricezione di un concetto proprio della cultura filosofica ellenica, soprattutto platonica ma anche stoica, in cui il Λόγος agisce in funzione di garante dell’ordine ma anche come oggetto di conoscenza; dall’altro il riferimento scritturistico a Giovanni 1, in cui il Λόγος è proprio l’espressione semantica e ontologica della Rivelazione divina proveniente dal Padre, da Dio, senza separazione alcuna ma con una continuità che esprime un prolungamento dell’essenza divina nell’esistenza del mondo. Utilizzare il dato scritturistico in questo senso permette a Clemente di situarsi in una posizione tale che, sentendosi garantito dalla Scrittura, può definirsi un pensatore che non esonda dalla dottrina cristiana ma anzi contribuisce alla sua edificazione pur utilizzando anche le fonti pagane.
Per quanto riguarda Giamblico, il suo platonismo, o neoplatonismo se vogliamo collocarlo in un preciso ambito della sortia delle idee, si distingue da quello di Numenio o, soprattutto, da quello di Plotino. Il motivo è dato proprio dalla sua teorizzazione della teurgia come filosofia del culto. Porfirio, discepolo di Plotino, considera la teurgia come una tipologia di culto adatta a chi non è filosofo, ovvero propria della gente comune; un culto che serve soltanto a rispettare le regole della polis – sebbene in alcuni passaggi di qualche suo scritto egli riprenda questa sua generica considerazione della teurgia riconsiderandone il valore –. Per lui soltanto il filosofo può accedere al divino mediante un culto razionale, puro, privo di ogni materialità. La posizione di Giamblico invece, come ho già detto, esalta la teurgia, considera il teurgo come filosofo e sostiene che questa è il modo per conoscere Dio incontrandolo anche nel proprio corpo. Dare piena cittadinanza alla materialità dell’uomo costituisce uno stacco con il razionalismo neoplatonico, e chiaramente il confronto speculativo più che con Porfirio è con il sistema plotiniano e con la dialettica di ascesa all’Uno. Giamblico non rifiuta questo modo di far filosofia, non lo contraddice, ma lo fa suo fino a quando può farlo, fin dove la ragione può spingersi, riconoscendo che la sfera divina, per essere conosciuta, necessita di altri strumenti, come il culto teurgico. Il neoplatonismo incide quindi su Giamblico fino al penultimo passo prima dell’incontro con il divino, cui segue lo step teurgico. Per questo motivo nel mio studio considero la filosofia del culto di Giamblico come un “oltrepassamento” del pensiero di Plotino e guardo alle differenze speculative come ad uno “scarto” tra i due.
Una distinzione immediata, su cui mi sono soffermato, è quella tra estasi (ἔκστασις) e il già citato enthusiasmo. Per Plotino l’estasi è il momento di più alta razionalità, quello in cui avviene l’unione del contemplante con il contemplato, assolutamente purificato nel pensiero e libero da ogni materialità. Si tratta quindi del raggiungimento dell’Uno, e le pagine delle Enneadi che descrivono questo momento sono veramente mirabili. Per Giamblico invece, l’enthusiasmo è pure un momento di unione, ma come reciproco ingresso del divino nell’umano cui partecipa anche la corporeità dell’uomo; gli Oracoli Caldaici fungono da indispensbile supporto a questa teorizzazione. Ciò mi ha permesso anche di considerare il momento enthusiastico come appartenente anche al cristianesimo, presente nella mistica di alcuni santi. Il pensiero di Giamblico inizia dunque, di fatto, una nuova e diversa corrente neoplatonica, quella “siriaca”.
In che modo in Lattanzio è fortemente presente l’elemento della filosofia pratica propria del diritto romano rappresentato da Cicerone?
Si tratta del corretto utilizzo della virtù della giustizia, ovvero dell’obbedienza a delle norme, secondo le quali per Lattanzio avviene il vero culto. Secondo Lattanzio nel genere umano ogni singolo è inserito come avente una doppia tendenza relazionale: la prima, mediante il culto sfocia in Dio; la seconda, per mezzo dell’affettività, culmina nell’umanità. La virtù della giustizia pensata da Lattanzio non riveste semplicemente i toni morali e giuridici, ma attraverso questi si sposta nel condurre chi la pratica alla conoscenza e alla dimostrazione della Verità Rivelata. L’affermazione che il culto di Dio consiste nella corretta pratica della giustizia sta ad indicare propriamente che per Lattanzio si rende lode a Dio in seno alla società, nella relazione tra gli uomini e poi in quella con Dio; il vero dovere da compiere, quello che sublima tutte le azioni moralmente corrette che ogni uomo deve adempiere, sarà quello di rendere il culto a Dio. Il concetto di giustizia di Lattanzio manifesta una derivazione dal De officiis di Cicerone. Declinando le tematiche dell’utile, dell’onesto e del loro conflitto, l’Arpinate scandaglia il giusto utilizzo delle virtù cardinali da parte dei singoli in quanto tali e in quanto membri della società civile, mostrando quale deve essere il corretto utilizzo di tali virtù per agire secondo le giuste modalità mediante il dovere. Tuttavia non è tanto importante mostrare il fatto che il tema lattanziano della giustizia, con le dovute distinzioni, derivi da quello di Cicerone; quanto piuttosto il fatto che quando Lattanzio argomenta sulla giustizia dialoga con un paganesimo che fa della filosofia morale il proprio perno per far prevalere il diritto e il dovere a fondamento della gestione della civitas. Proprio in questo fuoco ritengo importante per Lattanzio il concetto di filosofia pratica che tuttavia non si ferma all’analisi etica e morale ma che piuttosto fa di tale disamina il fondamento per innalzare il culto a Dio. In altre parole, anche in questo caso, come per Giamblico, ritengo che ci sia un “superamento”. Lattanzio cioè, quando tratta della giustizia, agisce da intellettuale latino, forgiato da una certa cultura del mos maiorum e della humanitas, che non preserva semplicemente i costumi di una tradizione ma, educandosi con l’utilizzo delle Sacre Scritture, ne esalta il ruolo pragmatico nella società e agisce in modo da coltivare gli ideali di attenzione e cura reciproca tra gli uomini. Lattanzio attribuisce alla giustizia due semplici doveri: quello di essere uniti a Dio, secondo la religione appunto; quello di essere uniti con gli uomini, secondo la misericordia o l’umanità. In questo modo viene garantito il giusto modo di vivere in seno alla società.