
Di cosa è fatto il carattere nazionale? A quali materiali attinge?
Per costruire il carattere si fa ricorso prima di tutto alla lingua: la nazione coincide con la sua lingua (senza tener conto che esistono nazioni dove si parlano lingue diverse). Poi, alla storia del paese, alle sue tradizioni, ai costumi, al modo di vivere. Ma si prendono in considerazione anche la religione e le istituzioni. Ci sono poi due elementi che da una certa data in poi sono sempre presenti come fattori del carattere, due elementi naturali: il clima (nel quale si comprende anche la natura del suolo) e la razza. Usualmente, infatti, si distinguono le cause che danno luogo al carattere in cause fisiche e cause morali.
Quando nasce la teoria dei caratteri nazionali?
La teoria dei caratteri nazionali nasce con Ippocrate e Aristotele nell’Antichità, conosce un importante sviluppo in epoca moderna, esplode nel Settecento, riempie di sé tutto il Diciannovesimo secolo. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento inizia il suo declino e nel XX secolo si può dire che la teoria scompaia completamente dalla letteratura scientifica: sembra non possedere i requisiti di scientificità necessari a una teoria, secondo le nuove concezioni che si sono imposte, affinché possa essere ritenuta scientifica. Non è un episodio isolato: la stessa sorte colpisce tutta la cultura positivista. In più, ci sono due elementi che rendono poco spendibile il carattere: il fatto che si sia mischiato sempre più con il concetto di razza (prima nel significato neutro di nazione o sub-nazione, poi in senso razzialista e infine razzista) e il fatto che il carattere venga accusato di essere determinista. Il razzismo non piace per ragioni ideologiche e politiche, il determinismo non piace per ragioni ideologiche e culturali: è ritenuto un nemico della libertà del singolo e dei popoli. Così, i grandi autori, la produzione accademica, mettono da parte il carattere. Un bel mutamento, se si pensa a credere nel carattere nazionale e a darne definizioni sono stati personaggi del calibro di Bodin, Rousseau, Hume, Montesquieu, Hegel, Tocqueville.
La teoria dei caratteri nazionali è presente anche ai giorni nostri?
La teoria dei caratteri nazionali oggi è presente in modo massiccio. Prima di tutto, nel discorso giornalistico: basta seguire i commenti a una gara internazionale per veder fioccare gli stereotipi nazionali (gli Italiani anarchici ma geniali, gli Inglesi tenaci, i Francesi frivoli, i Tedeschi sistematici). In secondo luogo, è presente nel senso comune, in quelle convinzioni e giudizi che esprimiamo senza riflettere troppo nelle situazioni più diverse: di ritorno da un viaggio durante il quale abbiamo mangiato male (e ne concludiamo che tutto quel popolo, ad esempio quello americano, non sa mangiare), nella lite per il posteggio con uno straniero (e ne concludiamo che, se lo straniero è greco, i Greci sono tutti imbroglioni), nel disappunto per un orario che non siamo riusciti a rispettare (ma quanto sono precisi gli Svizzeri!) o nella soddisfazione per essere risultati vincenti in un confronto (siamo i migliori, se non per capacità, almeno per l’arte di arrangiarsi).
È innegabile che servendoci del carattere esprimiamo stereotipi e pregiudizi: lo utilizziamo come una bussola per muoverci velocemente nel mondo, per distinguere Noi dagli Altri, per mettere Noi al di sopra degli Altri. Ma è anche probabile che il carattere incorpori qualche frammento (e forse più) di realtà.
Se, invece, abbiamo tempo per riflettere, diveniamo più accorti: sappiamo che il carattere nazionale in molti ambienti non è più à la page, e cerchiamo di moderare i nostri giudizi, di relativizzare le nostre affermazioni. Ho l’impressione però che alcuni (soprattutto politici) facciano ricorso a mente fredda (ossia dopo averci riflettuto bene) ai caratteri delle nazioni per soffiare sul fuoco del sentimento di appartenenza nazionale, per contrapporre un compatto ed esclusivo Noi a tutti gli eventuali Altri che desidererebbero essere inclusi.
La forma che oggi ha preso la teoria dei caratteri più rigida è infatti quella parte del multiculturalismo che vede nelle varie culture entità completamente omogenee che non possono e non devono incrociarsi fra loro.
Michela Nacci insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Firenze. PhD presso l’Istituto Universitario Europeo, borsista CNR a Paris, Fellow presso IEA-Paris, membro del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, si è occupata di anti-americanismo in Italia durante il fascismo e in Francia nel XX secolo; della tecnica interpretata dai filosofi del Novecento; ha pubblicato Strade per la felicità. Il pensiero politico di Bertrand Russell nel 2012 e Il volto della folla. Soggetti collettivi, democrazia, individuo nel 2019. Dal 2018 codirige la rivista «Suite française».