“Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista” di Vito Bianchi

Prof. Vito Bianchi, Lei è autore del libro Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista edito da Laterza. A distanza di oltre cinque secoli, la conquista e la strage di Otranto continuano ad essere ancora molto dibattute: quale importanza storica riveste l’episodio?
Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista, Vito BianchiScrive un islamista puntuale quale Bernard Lewis che “… durante la lotta per la successione che vide impegnati da una parte il nuovo sultano Bayazid II e dall’altro suo fratello Djem, le truppe ottomane vennero ritirate da Otranto e il piano di conquista dell’Italia fu rimandato a tempi migliori e, in seguito, abbandonato. La facilità con cui, pochi anni più tardi, nel 1494-1495, i Francesi riuscirono a conquistare uno stato italiano dopo l’altro, senza quasi incontrare resistenza, lascia supporre che, se i Turchi non avessero desistito dall’impresa, si sarebbero impadroniti della maggior parte della Penisola, se non di tutta, senza difficoltà. Un’ipotetica conquista turca dell’Italia nel 1480, proprio agli inizi del Rinascimento, avrebbe trasformato la storia del mondo intero…”. In effetti, dovette trattarsi di un’esperienza scioccante per il mondo occidentale. Nel 1480, il sultano turco Maometto II Fatih, (1451-1481), il Conquistatore nel 1453 di Costantinopoli, aveva architettato l’assalto all’Italia e a Roma partendo da Otranto, in Puglia: una regione che le coeve fonti musulmane paragonavano ad un’arnia “il cui miele è molto… e le cui api sono poche”, a sottolinearne da un lato la floridezza economica e dall’altro le scarse difese. “Rum, Rum”, e cioè “a Roma, a Roma”, era il grido con cui si lanciavano in battaglia gli Ottomani, sin dai primi momenti in cui avevano invaso le regioni balcaniche. Qui erano rimasti incagliati nella resistenza opposta dal principe valacco Vlad III Dracula, detto Ţepes (l’Impalatore), e dai Veneziani, che non intendevano perdere le basi commerciali nel Mediterraneo orientale. Ma dopo che Dracula era morto in battaglia alla fine del 1476, e dopo che nel 1479 Venezia era stata costretta ad arrendersi ai Turchi, al termine di un aspro conflitto durato sedici anni, ecco che per gli Ottomani si era aperta la possibilità di assalire la Penisola italica dal Salento, territorio appartenente al regno meridionale degli Aragona, con capitale a Napoli.

Contrade ricche e appetibilissime, le terre salentine erano appartenute per secoli ai Bizantini. Ma Bisanzio era divenuta turca. E i Turchi pretendevano adesso di riappropriarsi dei territori che erano stati bizantini: il ragionamento non faceva una grinza.

L’offensiva della Sublime Porta trovò impreparati gli Aragonesi che, per la pressoché contemporanea Guerra di Firenze, si trovavano allora con un “melione d’oro” in meno nelle casse regie. Pertanto, al profilarsi degli Ottomani, il fronte adriatico dovette configurarsi per il re di Napoli, Ferrante d’Aragona, figlio di Alfonso il Magnanimo, non più come la desiderata base di lancio verso l’area balcanica e l’ex impero bizantino, bensì come una frontiera assolutamente permeabile. Ecco dunque l’attacco turco a Otranto, una località protetta da fortificazioni ormai cadenti e obsolete, che sin dall’epoca dell’imperatore Federico II di Svevia, nel XIII secolo, avevano sofferto per l’erosione marina.

Gli invasori sbarcarono il 28 luglio ai Laghi Alimini, avanzando per terra e per mare, devastando casali e campagne. In quei frangenti il borgo otrantino risultava praticamente sguarnito, con pochissimi soldati delegati a difendere la comunità locale. Gli altri erano per lo più dei semplici cittadini, degli onesti marinai. Sapevano di barche e reti, di venti e maree. Di armi, proprio no. I musulmani chiesero la resa. La guarnigione di stanza nella città rispose con un colpo di bombarda alla richiesta. Gli Otrantini, allora, subirono un terribile bombardamento, per poi assistere all’ingresso delle schiere turche in città. Il 12 agosto, il comandante ottomano, Ahmed Pascià, detto Gedik, lo “Sdentato”, ordinò di rastrellare i superstiti di sesso maschile e d’età superiore ai quindici anni. I giovani migliori, naturalmente non vennero uccisi ma tratti come schiavi. Le fanciulle più belle furono avviate agli harem della capitale ottomana. Chi poté, pagando un riscatto di 300 ducati, ebbe salva la vita e venne lasciato libero di allontanarsi da Otranto. I restanti prigionieri, per lo più anziani e “inservibili”, a gruppi di cinquanta furono condotti sulla collina detta “di Minerva” – quella che oggi è chiamata “collina dei Martiri” – e decapitati.

In quale contesto storico va inquadrata la questione di Otranto e dei suoi martiri?
La guerra otrantina si pone al culmine di una molteplicità di intrecci, in una fase decisiva per le sorti della storia mediterranea, quando l’impero ottomano era in prepotente dilatazione verso l’Europa e l’Occidente. Sulla traiettoria espansionistica degli Ottomani, l’Italia appariva lacerata da congiure e lotte intestine fra le più splendide signorie rinascimentali. Dietro l’attacco turco alle Puglie c’è il sogno di un sultano quale Maometto il Conquistatore, affascinato dai fasti dell’antichità, che intendeva riunificare l’impero romano togliendo al papa la Città Eterna dopo aver già espugnato Costantinopoli. Ci sono gli interessi della Repubblica di Venezia, che aveva bisogno di preservare le sue basi commerciali sui quadranti orientali; c’è Lorenzo il Magnifico, appena scampato alla Congiura dei Pazzi, angustiato dalla necessità di liberare la Toscana dall’assedio degli Aragonesi; ci sono le mire di dominio della Penisola del re di Napoli, Ferrante d’Aragona; c’è un pontefice come Sisto IV che, mentre pensava alla decorazione della Cappella Sistina, brigava per insignire di nuovi feudi il proprio nipote, Girolamo Riario; ci sono condottieri al servizio del miglior offerente, come Federico da Montefeltro; c’è il coraggio dei Cavalieri di Rodi che resistevano agli assalti degli “infedeli” musulmani. Spie, veleni, trame oscure si fondono fra loro per condurre a una guerra terribile, che rovescerà tutta la sua violenza su una popolazione ignara degli intrighi, ingannata da coloro cui era fedele e, per questo, massacrata. Alla fine non ci saranno vincitori, se non la peste. E si cercherà di recuperare gloria almeno dai resti delle vittime, facendone appunto dei “martiri della cristianità”, contro ogni evidenza e testimonianza. Su tutto, l’impassibilità del potere nei confronti degli umili, degli ultimi, degli indifesi, costretti a pagare il prezzo delle altrui ambizioni.

Gli ottocento otrantini massacrati dai Turchi sono stati canonizzati da papa Francesco nel 2013 come martiri della fede; in realtà l’ecatombe fu conseguenza del rifiuto della cittadinanza di arrendersi, non di abiurare la propria fede per convertirsi all’Islam.
Nella cattedrale di Otranto, all’interno del sacello che, con la sua sagoma ottagonale, imita il Santo Sepolcro di Gesù Cristo a Gerusalemme, ancor oggi i resti dei “poveri cristi” salentini, giustiziati nel 1480 dai Turchi, rappresentano l’epilogo di ambizioni, ripicche, titubanze, intrighi, paure, vendette, sogni cullati a mille miglia di distanza da sultani e re, signori e condottieri. I sovrani aragonesi di Napoli, bisognosi di affermazione, si glorieranno con il culto dei martiri otrantini, eletti a testimoni della fede cristiana e della fedeltà alla Corona, adatti a perpetuare una memoria distorta. Il mito verrà alimentato nella capitale sin dal giorno del trionfo celebrato da Alfonso duca di Calabria, figlio di re Ferrante e comandante delle truppe regie, al rientro dalla campagna salentina. E si propagherà subito: già nelle feste di carnevale del 1482 la corte partenopea assisteva alla messinscena del riscatto di Otranto, con l’esibizione di cavalieri mascherati che giostravano in circolo armati di lance e con damigelle che spargevano acqua di rosa dalle finestre. All’esibizionismo tipico della società rinascimentale si legherà la sacralizzazione del martirio e la monumentalizzazione degli eventi, nella scia di quanto era stato sempre fatto dai dinasti aragonesi: Alfonso progetterà quindi un tempio da intitolare a Santa Maria dei Martiri, a ricordo delle proprie gesta pugliesi, nella sua villa detta “della Duchesca”, in costruzione vicino al palazzo reale di Castelcapuano. Qui perverranno dieci casse colme di ossame otrantino, scortate lungo l’antica via Traiana dai frati Angeloti, tutti vestiti d’azzurro. Le reliquie otrantine verranno poi traslate in Santa Caterina a Formiello, sottoposte nei secoli a spostamenti interni e ricognizioni, e di nuovo valorizzate da Ferdinando IV di Borbone che, nel Settecento, riprendendo la tradizione aragonese, elevò la cappella al rango regio.

Il grosso delle ossa, tuttavia, rimarrà nella cattedrale otrantina, dove la familiarità della gente locale con le vittime dell’eccidio turco, l’umana pietà nutrita per la sorte di tante persone conosciute e ricordate, continueranno a incoraggiare una venerazione che al senso del martirio univa la devozione per i cari estinti. Spontaneo, popolare, tenace, quel nucleo di intensa religiosità sarà ripescato all’occorrenza dalla Chiesa di Roma, e orientato a significare ciò che non era mai stato, e cioè il simbolo di una “guerra di religione” fra cristiani e infedeli, specie nei frangenti in cui, fra gli anni Venti e Trenta del XVI secolo, i musulmani di Solimano il Magnifico (che prenderà Rodi nel 1523) e i protestanti di Martin Lutero attentavano alla supremazia del papato. Non è un caso se, nel 1539, col pontefice assediato dai luterani nell’Europa centrale e dagli Ottomani nel Mediterraneo, si aprirà il processo canonico per conferire ai martiri di Otranto lo status di santi. Antonio de Beccariis, vescovo di Scutari nonché reggente – in qualità di vicario generale – della chiesa metropolitana otrantina, su sollecitazione del sindaco locale, Giovanni Francesco de Cesanis, istituirà un’apposita commissione d’indagine, con l’intento di raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti alla strage del 1480. Fra il 17 giugno e il 22 settembre verranno ascoltati, sotto giuramento, dieci Otrantini (gli abati Bernardino d’Alessandro e Angelo Pendinelli, don Giovanni Leondari, il nobile Angelo Pavosio, i maestri Paduano de Vito e Battista di Natale, Giovanni Longo, Giovanni Panemolle, Francesco della Cerra e Filippo de Pressa). Ma i risultati dell’inchiesta, pur in una sfera di evidente propensione cattolica, si riveleranno abbastanza deludenti per chi aspirava a ideologizzare il massacro a fini politico-religiosi. L’ecatombe, per ammissione pressoché unanime, era stata determinata dal rifiuto della cittadinanza di arrendersi, e non dalla mancata abiura: ne derivava, dunque, un mito difficilmente alimentabile, alla vigilia del Concilio di Trento.

La canonizzazione, richiesta a gran voce dalla municipalità di Otranto, procederà con scarsa lena, nonostante il terribile supplizio inflitto dai Turchi venisse rispolverato ogniqualvolta la minaccia di islamizzazione si affacciasse prepotentemente nei territori italici o europei. La battaglia navale di Lepanto, vinta nel 1571 da una coalizione europea, accenderà gli entusiasmi occidentali, innescando una propagandistica visione del bene che si impone sul male, dei cristiani che prevalgono sugli islamici. E, anche per l’occasione del primo centenario della tragedia otrantina, i letterati o gli storiografi potranno inneggiare alla strenua difesa degli Otrantini e al loro estremo sacrificio per la “vera fede”. Una sequenza di versioni martirologiche continuerà a enfatizzare il coraggio dei Salentini che avevano impedito all’islam di allignare nella Penisola italica, elevando la resistenza dei Pugliesi a emblema di religiosità.

Nondimeno, al di là del revival ideologico che si sarebbe acceso a fiammate intermittenti nei decenni a seguire, fino all’assedio di Vienna del 1683 e oltre, fra cicliche guerre veneto-turche e incursioni sempre meno frequenti della marineria turco-barbaresca, la sincera devozione cittadina per i martiri di Otranto stenterà a ottenere una legittimazione ufficiale dal Vaticano, benché la certezza della santità, nata localmente, si andasse estendendo alle genti “di paesi forestieri” e, nei fatti, si traducesse in costanti preghiere e flussi di pellegrini.

I vescovi che guideranno la diocesi otrantina fra Cinque e Seicento peroreranno la causa di beatificazione, e il 1688 vedrà il pontefice Clemente IX statuire l’indulgenza plenaria per i devoti che avessero cristianamente reso omaggio a quelle spoglie. Vecchi e nuovi miracoli, puntualmente attestati nelle relazioni del clero, ne esalteranno l’importanza, finché l’ufficializzazione della beatitudine giungerà nel 1771 dalla Sacra Congregazione dei Riti, su pressione dello stesso Ferdinando IV di Borbone. Gli Otrantini verranno allora definitivamente giudicati “servi di Dio, confessori della fede e martiri gloriosi di Gesù Cristo”. La data del 14 agosto, che ormai da tempo vedeva Otranto assurgere a fulcro di un enorme concorso popolare per la ricorrenza del martirio, diverrà giorno di uffizio e di messa, con l’istituzione di indulgenze sia per i fedeli che avessero venerato le reliquie, sia per i sacerdoti che avessero officiato liturgie. Per una completa consacrazione, peraltro, bisognerà attendere ancora parecchio. Certo Giovanni Paolo II vi contribuirà vigorosamente, con la visita pastorale del cinquecentenario e con la pubblica asserzione di una santità che soltanto trentatré anni dopo papa Francesco statuirà, in Piazza San Pietro, una volta per tutte, il 12 maggio del 2013.

Il riconoscimento ufficiale è arrivato in una fase storica di profondi rivolgimenti dell’universo islamico, contrassegnati dall’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre del 2001, nel montare speso irrazionale dei concetti sloganistici di “scontro di civiltà” o di “scontro di religioni”. Il pericolo di alimentare odio e violenza in un brodo velenosissimo di pressappochismo e cecità è sempre vivo, e va di pari passo con la tentazione di ergere barriere brutali fra culture e uomini.

Una corretta ricostruzione storica può contribuire, se non a disinnescare, almeno ad attutire quel pericolo, ad aprire margini contemporanei per una riflessione collettiva, scevra da pregiudizi, che consenta di oltrepassare la patina di superficialità e penetrare al cuore delle dinamiche, in una società quanto mai bisognosa di appigli alla verità. Vale la pena, quindi, ricordare che nel 1880, quattrocento anni dopo la tragica vicenda, i “martiri di Otranto” vennero usati per ideologizzare e giustificare le brame colonialistiche di un’Italia che guardava al progressivo disfacimento dell’impero ottomano con l’intento di annettersi la Tunisia e la le province libiche della Tripolitania e della Cirenaica. La Guerra italo-turca del 1912 fu presentata dagli interventisti come un risarcimento, un atto di punizione per i fatti otrantini del 1480. Solo in seguito, negli anni Sessanta del Novecento, con Maria Corti e le sollecitazioni letterarie del suo libro L’ora di tutti, si arrivò all’umanizzazione degli eventi, e una prospettiva stagnante sembrò aprirsi a interpretazioni diverse, più vicine al dolore e al sacrificio dei poveri cittadini che erano stati trucidati per le altrui beghe, senza alcuna possibilità di scegliersi un destino, di determinare una propria esistenza. Ogni uso strumentale degli avvenimenti storici non potrà insomma mai rendere giustizia alle loro storie raccolte nella grandiosa cattedrale di Otranto, ai loro avanzi, ai teschi ordinati dietro al vetro nell’abside della navata destra: vuote orbite che paiono scrutare a mezz’aria e che risucchiano l’incedere sul maestoso mosaico del pavimento in una propaggine verticale di morte trionfante. Sono lì, compendio, paradigma, culmine dell’empietà vivida, reiterata, attorta, riecheggiante fra il tronco e i lunghi rami dell’Albero del Male che giganteggia al suolo. Sono lì, epilogo di un percorso che non si sostanzia di conflitti religiosi, ma rappresenta l’esito di rivalità, di ambiguità, di spietatezze e di interessi personali, coltivati a mille miglia di distanza e ricaduti su vittime ignare, su persone escluse crudelmente dal mondo, nella fredda indifferenza per gli inermi, per gli innocenti, per gli ultimi della Terra, in un refrain di sempre, che torna, che serpeggia, che si propaga, per l’umana follia delle guerre.

Tra i protagonisti della vicenda c’è senza dubbio Ahmed «lo Sdentato»: chi era il comandante dell’esercito ottomano?
Gedik (lo Sdentato) Ahmed Pascià, nato in uno sperduto villaggio della Slavonia, affermatosi nelle file dell’esercito turco, fu uno dei più straordinari personaggi della storia militare e politica ottomana, capace di ottenere strepitose vittorie sul quadrante orientale del sultanato, facendosi amare dalle sue milizie, e accedendo fino al grado supremo del gran visirato. Fino a un certo punto, niente era sembrato arrestare la favola del povero giovinetto slavo diventato gran visir. Ma anche un gran visir era soggetto al sultano. Ne era giuridicamente “schiavo”: certo, uno schiavo privilegiatissimo e potentissimo, con ampie possibilità di manovra e di attestazione della propria potestà. Ma pur sempre subalterno a una sovranità che bisognava stare attenti a non ledere, nemmeno minimamente. E un imperatore come Maometto II, probabilmente, non avrebbe mai potuto tollerare qualcuno che, anche soltanto un po’, ne offuscasse la maestà. I roboanti trionfi di un servo in prepotente ascesa avevano cominciato a infastidirlo. Sicché, nel 1477, la parabola dello “Sdentato” aveva preso a declinare: gli esponenti del partito interventista avevano pressato il sultano affinché venisse lanciata un’offensiva capace di sloggiare i Veneziani da Croja, da Scutari e dall’intera Albania. Le perplessità che Gedik Ahmed Pascià aveva espresso al riguardo erano entrate in contrasto con la volontà guerriera del Fatih, ormai convinto della fattibilità dell’impresa. E la divergenza che ne era derivata aveva provocato il tracollo del gran visir: destituito, accusato di alterigia per aver osato contraddire l’imperatore ottomano, Gedik Ahmed Pascià era stato infine rinchiuso nella fortezza-prigione di Rumeli Hisar.

Di lui si sarebbero presumibilmente perse le tracce se, nel maggio del 1478, Maometto II non avesse provato tutta la fatica del risalire a piedi un impervio tratturo fra le montagne albanesi, durante uno spostamento dell’esercito. Si racconta che il sultano si fosse allora lamentato per le pessime condizioni delle strade, sostenendo che una maggiore efficienza del gran visirato avrebbe saputo ovviare all’inconveniente. Qualcuno del suo seguito avrebbe quindi ricordato al Gran Turco i talenti di Gedik Ahmed: e, quasi svincolando dalla nebbia di antichi livori una memoria di imprese fantastiche e irripetibili, il Conquistatore di Costantinopoli avrebbe ordinato l’immediata scarcerazione del prigioniero.

In concreto, la liberazione si sarebbe perfezionata per una serie di concause, quali l’inalterata devozione dei giannizzeri nei confronti del loro vecchio capitano e l’intercessione di Ishak Pascià, un personaggio che vantava un discreto prestigio a corte. E comunque, appena liberato, Gedik Ahmed Pascià sarebbe stato insignito di un compito infinitamente meno prestigioso rispetto al passato: il sultano gli avrebbe difatti affidato il sangiaccato di Salonicco, delegandolo alla funzione che, di norma, premiava il personale ottomano che s’era ben comportato e che veniva inviato nella città della Grecia per concludere la carriera in tranquillità, senza infamia e senza lode. Era un incarico da pensionati o poco più. Per chi s’era lustrato in battaglia trionfando per ogni dove sui quadranti orientali dell’impero turco, per chi sentiva l’urgenza di riscattarsi, di riprendere a coltivare un proprio disegno politico-militare, l’essere relegato nell’antica Tessalonica era, se non una punizione, di sicuro una prostrazione. Una degradazione simbolica, e anche economica.

Gedik Ahmed Pascià aveva dunque dovuto ricominciare. Se non daccapo, certamente da diversi gradini più in giù rispetto a dove era pervenuto pochi mesi prima. Ma la pace stipulata da Venezia con la Porta nel gennaio del 1479 aveva aperto nuovi sbocchi alla sua ansia di riemergere e riaffermarsi. Un’ansia che Maometto II aveva tenuto in debito conto e che, al momento opportuno, era stata ricollocata e scatenata nel giusto contesto: appena terminato il conflitto veneto-ottomano, nel pieno della Guerra di Toscana, con le truppe napoletane e pontificie impegnate contro Firenze, si era dischiuso un corridoio adriatico favorevolissimo per piantare in Italia il vessillo turco. E nessuno, meglio dello “Sdentato”, avrebbe saputo e potuto infilarsi con cognizione di causa ed energia guerriera in quel corridoio: Maometto II lo intuiva benissimo, e perciò aveva deciso di spostare Gedik Ahmed Pascià immediatamente a Valona. Settanta chilometri più in là c’erano le Puglie, a portata di mano. E la ferma volontà di rivincita che animava l’ex gran visir caduto in disgrazia, la sua brama di riabilitarsi agli occhi del sultano erano il propellente ideale per concretizzare quel progetto. Nel gennaio del 1480, recandosi a Istanbul, Gedik Ahmed Pascià aveva potuto pianificare l’organizzazione dell’offensiva con il sultano che aveva finalmente intravisto il prossimo compimento dei suoi antichi progetti. La gotta di cui Maometto II soffriva, di sicuro non gli avrebbe permesso di guidare personalmente la spedizione. E tuttavia l’entusiasmo del sangiacco di Valona, il suo curriculum indiscutibile, offrivano al sultano sufficienti garanzie, in attesa di un miglioramento delle proprie condizioni di salute.

Quale epilogo ebbe la vicenda di Otranto?
Il dominio turco durerà poco più di un anno: nel settembre del 1481, ci sarà il ritiro degli invasori, disorientati dalla morte di Maometto II e dal vuoto di potere che ne era derivato. Qualche soldato ottomano potrà scegliere di rimanere e arruolarsi negli eserciti dei cristiani. E comunque, scampato il pericolo, residueranno l’inquietudine, l’ansia, la paura. Il “Mamma li Turchi!” resterà a marchiare l’anima delle popolazioni meridionali e a impregnare talune rievocazioni storiche.

Peraltro, fra Cinque e Seicento la società turca si presentava molto più evoluta rispetto a quelle occidentali. Non appariva intrisa da rigide stratificazioni sociali; era improntata, di fatto, alla tolleranza razziale e religiosa; permetteva forme di mobilità sociale ascendente; e favoriva le progressioni di carriera ai più meritevoli. Non deve quindi sembrare strano che, in quel periodo, non pochi abitanti dell’Italia meridionale preferissero emigrare nel sultanato ottomano. Un po’ per liberarsi dal fiscalismo insopportabile delle autorità spagnole; un po’ per sfuggire alla prepotenza dei baroni; e, talvolta, per cullare il sogno di una vita migliore. E si sa che sulle spiagge del Mezzogiorno pugliese o calabrese più di qualcuno si metteva in attesa di un equipaggio turco-barbaresco, che arrivasse dal mare, e lo portasse via… Ma questa, magari, è materia del mio volume successivo, e cioè di quell’Atlante Parigino che, con le sue meravigliose mappe ad acquerello, è il simbolo, anche cartografico, di quei tempi e di quelle storie meravigliosamente e tutte mediterranee.

Vito Bianchi è professore di Archeologia e di Storia all’Università degli Studi “A. Moro” di Bari. È autore di Gengis Khan. Il principe dei nomadi (Laterza, terza edizione 2014), Marco Polo. Storia del mercante che capì la Cina (Laterza, quarta edizione 2018), Castelli sul mare (Laterza, 2008), Otranto 1480. Il sultano, la strage, la conquista (Laterza, quarta edizione 2020), Dracula. Una storia vera (Raffaello Cortina Editore 2011), Gengis Khan e Marco Polo (Mondadori, 2011).

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