
È possibile affermare, quasi paradossalmente, che per Shakespeare il ventennio fascista fu un periodo positivo. Shakespeare ricevette da subito uno status di classico, il che di fatto agevolò la sua presenza sui palcoscenici della penisola. Certo, la censura teatrale fascista non fu sempre terribilmente restrittiva nei confronti degli stranieri, soprattutto nella prima fase del regime, fino cioè ai primi anni Trenta; tuttavia, Shakespeare poté godere da subito, e per tutto il ventennio, di una sorta di salvacondotto che non ne inibì la storia scenica. Anzi, la incentivò, dal momento che si poteva essere certi che il testo del bardo non sarebbe stato colpito da nessuna censura in linea di principio, a priori, per cui meglio magari cimentarsi con lui che con un altro, magari contemporaneo, più a rischio. Un’ulteriore caratteristica dello Shakespeare del ventennio è che le sue opere in scena non furono sfruttate ideologicamente, cioè non fornirono un’occasione per una rappresentazione propagandistica. Questo, invece, non avvenne – per esempio – in Germania, dove il vettore ideologico si inserì anche nella performance. Da noi la strumentalizzazione ideologica avvenne soprattutto nella cosiddetta letteratura di “secondo grado”, cioè nella critica relativa. Ci sono casi lampanti di letture critiche che fanno di Shakespeare un anticomunista ante litteram, senza tanti giri di parole.
Quale evoluzione subì la regia sotto il regime fascista?
Anche in questo caso la situazione può risultare sorprendente. È proprio negli anni del fascismo che la regia teatrale muove, in Italia, i suoi primi importanti passi. Si comincia, pur tra mille esitazioni e resistenze, collocate a vari livelli, a emanciparsi dal capocomicato e ad affacciarsi a un primo teatro registico, in cui appare chiaro (e qualche volta sconvolgente) che il testo dell’autore è soltanto uno degli ingredienti della rappresentazione finale – importante, certo, ma non l’unico. Ci sono anche le luci, gli attori, le scenografie e, appunto, l’interpretazione che il regista offre. Naturalmente, i primi registi che mostrarono il nuovo verbo in Italia erano stranieri. Molto famoso in questo senso Il Mercante di Venezia di Reinhardt ma, in epoca fascista, un grandissimo ruolo ha anche rivestito l’Otello del russo Pietro Scharoff, ruolo che cerco di rivalutare nel mio libro. Sfortunatamente, Scharoff non ha lasciato dietro di sé manuali teorici o cose simili: forse per questo, il suo diretto apporto alla nascita e sviluppo della regia teatrale italiana è passato in secondo piano. Con un po’ di fatica sono riuscito a recuperare (da riviste specializzate ormai solo su strisce di microfilm, peraltro piuttosto deteriorate), una sua vecchia e dimenticata intervista, oltre a qualche sbiaditissima foto del suo Otello. Basti pensare che Scharoff praticava un metodo di natura stanislavskiano molto prima che questo diventasse famoso. Ma era un lavoro che si esauriva nella pratica, sulle assi del palcoscenico giorno per giorno, senza tante disquisizioni teoriche.
Che rapporti vi furono tra il regime e il teatro italiano?
In primo luogo, il regime avrebbe voluto costruire un nuovo teatro, un teatro fascista – anche in senso letterale, immaginando nuovi e giganteschi spazi scenici, magari all’aperto, con ampi movimenti di masse. Ma questo progetto fallì miseramente, per il semplice fatto che non si riuscì a creare un teatro fascista di qualità. Gli unici “sani” testi fascisti erano insignificanti da un punto di vista drammaturgico, e nessuno si faceva illusioni su questo. Un autore come Pirandello – che pure, non dimentichiamolo, fu fascista e grande ammiratore di Mussolini – faceva un teatro che non era fascista per niente, e infatti Mussolini non lo ricambiava nelle sue simpatie. Più fortunata fu, invece, l’azione del regime sul piano organizzativo. A parte l’esperienza, impressionante ancora oggi, dei Carri di Tespi, che portarono il grande teatro dei classici – oltre che, naturalmente, l’opera – dove questo non c’era, è innegabile che il fascismo riuscì a riorganizzare il settore teatrale ridimensionando lo strapotere di un oligopolio, per non dire monopolio, di pochi impresari che gestivano i principali teatri delle principali “piazze”. Si avviò, insomma, una maggiore professionalizzazione del sistema. Dal punto di vista censorio, il regime produsse i suoi peggiori risultati dopo l’inizio della guerra in Abissinia. Da quel momento, inglesi, americani, francesi diventarono acerrimi nemici, senza riserve o diplomazie, e la loro produzione teatrale – a parte quella, come si diceva, attribuibile ai “classici” – finì per essere osteggiata a ogni costo, con grave danno per il nostro teatro e per la sua incipiente apertura alla “modernità”.