
Anche se il riscaldamento globale ha conseguenze negative sulle risorse idriche, il malgoverno è la più grande minaccia per la nostra acqua. Molto spesso incolpiamo il riscaldamento globale per siccità o inondazioni che ci colpiscono, quando in realtà la colpa è della mancanza di pianificazione e della nostra incapacità di dare valore all’acqua. Ad esempio, la vera causa della crisi idrica di Città del Capo del 2017 non è stato il riscaldamento globale, come hanno sostenuto i politici sudafricani e molti media, bensì la mancanza di investimenti in infrastrutture idriche e di coordinamento fra i differenti enti incaricati di gestire l’acqua (come spiegato in quest’articolo sulla rivista Nature).
Per questo ho deciso di scrivere un libro fatto di ‘storie’: per mostrare come l’acqua sia parte della vita di ognuno di noi e come ognuno debba fare la sua parte per proteggerla. La speranza è che queste storie ci aiutino a non sentirci vittime inermi del riscaldamento globale, e ci facciano comprendere come il problema siamo noi, il nostro modo di vivere e consumare l’acqua, e non il riscaldamento globale.
In che modo il controllo dell’acqua genera instabilità a livello planetario?
L’acqua è solo uno dei tanti fattori che possono generare instabilità a livello planetario. A noi scienziati piace parlare guardando i dati. Ed i dati compilati dall’Università dell’Oregon (e scaricabili a questo link) ci dicono che, fino ad oggi, non si sono combattute guerre mondiali per l’acqua e che la maggior parte di volte che due paesi si contendono il controllo dell’acqua lo fanno in maniera pacifica, riuscendo a raggiungere un accordo. Quindi il controllo dell’acqua può generare stabilità, invece di instabilità a livello planetario. È un approccio chiamato environmental peacebuilding, che usa la gestione e protezione delle risorse naturali come un fattore per creare relazioni pacifiche fra paesi.
Più che il controllo dell’acqua, è il malgoverno dell’acqua a generare instabilità. Quando non sviluppiamo i protocolli necessari per gestire gli impatti di un’alluvione, o quando non siamo pronti per affrontare un inevitabile periodo di siccità, siamo più vulnerabili alla forza distruttiva dell’acqua. Dopo l’uragano Katrina del 2005, New Orleans si trasformò in un far west d’acqua, una grande città sommersa dove migliaia di persone rimasero per settimane in balia di saccheggi e violenze. Un anno dopo, il governo degli Stati Uniti chiese pubblicamente scusa al paese per il mancato soccorso alle vittime dell’uragano. La commissione della Camera dei rappresentanti creata per indagare i fatti di New Orleans definì la mancanza di soccorsi, quindi il mancato controllo dell’acqua sotto forma di alluvione, come un fallimento dello Stato, una rinuncia al dovere solenne di tutelare il benessere dei cittadini.
E il malgoverno dell’acqua non genera soltanto instabilità politica, ma anche economica. Nel 2011, in Thailandia, le gravi inondazioni e la loro gestione inadeguata hanno provocato 884 morti nonché danni a 1,5 milioni di case e a 7.500 impianti industriali. Il danno indiretto all’economia globale è stato enorme: i prezzi dei computer sono aumentati notevolmente per la carenza di hard disk e la produzione di veicoli a motore ha subìto un impatto simile (basti pensare a Toyota, che ha perso 2,3 miliardi di dollari per l’interruzione della produzione negli stabilimenti thailandesi).
Quali sono le aree più colpite?
La forza distruttrice dell’acqua si fa sentire ovunque. Le aree più colpite sono quelle dove c’è minore capacità di adattarsi ai cambiamenti e dove ci sono meno risorse economiche per coprire i danni inevitabili causati dalle siccità, inondazioni e altri disastri legati all’acqua. La forza distruttrice dell’acqua colpisce duramente anche l’Italia. Nel nostro paese quasi il 90 per cento dei comuni sono a rischio idrogeologico, e oltre 7 milioni di Italiani vivono in zone a rischio frana o alluvione.
Quali, tra le storie da Lei raccontate nel libro, ritiene più significative dei rischi e delle conseguenze cui andiamo incontro?
Forse la storia delle paludi della Mesopotamia nell’Iraq meridionale racchiude molti dei rischi cui andiamo incontro. Secondo alcuni studiosi, il giardino dell’Eden si trovava qui, in questa distesa di terra e acqua dove il Tigri e l’Eufrate si incontrano. Adesso del giardino dell’Eden si è persa ogni traccia, e le paludi si stanno seccando. Nel sud dell’Iraq la gente non scappa dalla guerra e dalla violenza, scappa dalla mancanza d’acqua. Secondo dati dell’Organizzazione Internazionale per le migrazioni, la mancanza d’acqua è il primo motivo che spinge più del cinquanta per cento della popolazione nel sud dell’Iraq ad abbandonare la propria casa. La scarsità d’acqua è anche una delle ragioni principali che impedisce a questi migranti di tornare nelle proprie case.
Questa scarsità d’acqua è dovuta solo in parte al cambiamento climatico e alle maggiori temperature, che qui in estate superano già i cinquanta gradi. La scarsità è legata soprattutto a problemi legati alla gestione dell’acqua. Ci sono milioni di agricoltori nelle altre regioni dell’Iraq che consumano enormi quantità d’acqua per le loro coltivazioni, e le raffinerie irachene e iraniane che scaricano inquinanti. Anche l’agricoltura inquina le paludi: i fertilizzanti e i diserbanti che le piante non assorbono scivolano nei due grandi fiumi, uccidendo pesci e contaminando l’acqua. E poi ci sono le dighe in Turchia, Siria e Iran che trattengono più acqua, riducendo i flussi verso le paludi. La sola diga di Atatürk in Turchia può contenere un volume d’acqua pari a tutta l’acqua che scorre nell’Eufrate in un anno. La scomparsa del giardino dell’Eden è emblematica perché racchiude le sfide dell’acqua del ventunesimo secolo: inquinamento, scarsità, malgoverno.
È possibile evitare il disastro?
È una bella domanda, che si fanno tutti quando pensano al cambiamento climatico e all’acqua. Moriremo tutti di sete? O per una grande inondazione? La risposta è di solito di due tipi. Da un lato il pensiero epocale, che ci dice che la fine è dietro l’angolo, che ci dobbiamo preparare alla catastrofe imminente perché l’acqua finirà. Il disastro sembra inevitabile. Dall’altro il tecno-ottimismo, che vede nell’avanzamento inarrestabile della tecnologia la soluzione che ci tirerà fuori da tutti i nostri problemi, che spingerà i limiti sempre più in là.
Secondo me nessuna di queste due risposte è giusta. Il disastro si può evitare, ma solo se tutti facciamo la nostra parte. Il disastro si evita prima di tutto combattendo la nostra idrofobia, il nostro disprezzo per l’acqua. L’idrofobia è una caratteristica della nostra società: sprechiamo l’acqua, la inquiniamo, non le diamo valore, la scarichiamo il più lontano possibile dalle nostre vite. Per smettere di essere idrofobi dobbiamo imparare a dare spazio all’acqua, invece di bloccarne il flusso con l’urbanizzazione incontrollata. Dobbiamo anche imparare a dare valore all’acqua, anche all’acqua di fogna, riciclandola. E dobbiamo anche cambiare la nostra lista della spesa e ridurre il consumo della carne che richiede enormi quantità d’acqua per essere prodotta.
Per diventare idrofili è importante pensare l’acqua come un tema personale e non solamente come un problema per gli ingegneri, i chimici o gli economisti. È importante vivere l’acqua non come un disastro imminente, ma come un’occasione per articolare i propri bisogni (ad esempio il bisogno dell’acqua di un agricoltore) e prendersi parte della responsabilità (ad esempio, la responsabilità di non scaricare olii e salviettine nel water).
Edoardo Borgomeo è nato a Roma nel 1989. Ha conseguito un dottorato in idrologia presso l’Università di Oxford, dove dal 2016 è honorary research associate. Ha lavorato in Sud America, Medio Oriente, Asia meridionale e Africa orientale per la Banca Mondiale e l’International Water Management Institute. Oro Blu. Storie di acqua e cambiamento climatico è il suo primo libro.