Ornamenta urbis. Opere d’arte greche negli spazi romani” di Alessandra Bravi

Dott.ssa Alessandra Bravi, Lei è autrice del libro Ornamenta urbis. Opere d’arte greche negli spazi romani edito da Edipuglia: cosa significò per la cultura romana l’arrivo nella capitale dei “bottini d’arte” e del gusto artistico greco?
Ornamenta urbis. Opere d’arte greche negli spazi romani, Alessandra BraviPer i romani l’amour de l’art è un sentimento controverso; nel II secolo a.C. gli estimatori dell’arte greca erano accusati di corrompere i costumi ancestrali di Roma. Questa era la visione dei conservatori. Il rappresentante più celebre di questi gruppi, Catone il Censore, nel 195 proclamò con parole ardenti un discorso nella Curia per difendere la Lex Oppia. Possiamo immaginare che nella fazione avversa militassero uomini di punta del filellenismo romano, come Quinzio Flaminino e Scipione l’Africano. Quindi la percezione dell’arte greca fu in un primo momento legata alle lotte tra tradizionalisti e filelleni. La svolta segnalata dalle fonti è nel bottino di opere d’arte realizzato dall’esercito di Claudio Marcello a Siracusa. Sembra che Catone lo abbia eletto ad esempio, in una sua orazione di qualche decennio più tardi, come elemento emblematico di corruzione dei costumi romani: le statue saccheggiate da Claudio Marcello a Siracusa nel 211 sono infesta signa, manufatti simbolici ostili, alieni, ovvero estranei ai costumi più puri dell’identità romana racchiusa nelle formule e nei precetti del mos maiorum.

Livio e Plutarco invece, attingendo forse da fonti che rispecchiavano la fazione avversa a Catone, sottolineano come queste statue abbiano provocato un cambiamento nella percezione visuale dei Romani. Per Livio gli ornamenta di Siracusa, che Marcello espose a Porta Capena, nel tempio di Honos e Virtus, segnano l’inizio di una attitudine nuova: il primum initium mirandi graecarum artium opera. Il verbo utilizzato da Livio, miror, indica una visione attenta, consapevole e stupefatta davanti a oggetti in possesso di qualità speciali, certamente distinti dagli oggetti ordinari. Nella biografia di Marcello Plutarco descrive come il dibattito sull’arte greca segnalava all’epoca un conflitto generazionale: tra anziani tradizionalisti e giovani filelleni. Marcello portò via da Siracusa le più belle opere d’arte per il trionfo e per ornare Roma, piena soltanto di armi barbariche e di prede insanguinate, di monumenti trionfali e trofei, tanto da poter essere definita, con un’espressione di Pindaro “il recinto di Marte bellicoso”. A Marcello si rimproverava di aver portato i romani a discutere urbanamente di arte e artisti, passando in ciò molta parte del giorno. Ciò nonostante si gloriava anche verso i Greci per aver insegnato ai Romani a valutare e ad ammirare quelle meravigliose opere d’arte greca che non conoscevano [1].

Nel 146 a.C. sembrava che le opere d’arte fossero ancora per i nobili Romani, dopo anni di conquiste e bottini d’arte in Grecia, oggetti di natura estremamente ambigua e sfuggente. Sul campo di battaglia, nella pianura che si estendeva di fronte a Corinto, il plebeo Lucio Mummio, dopo aver saccheggiato la fiorente polis, si trovò disarmato di fronte ai poteri di un quadro dipinto da un pittore greco, il tebano Aristide (360-310). Sulla tavola era raffigurato il dio Dioniso assieme ad Arianna. Il re Attalo pretese di comprare il quadro per una cifra esorbitante. Mummio stupefatto, sospettando che in quell’opera fosse contenuto un qualche potere magico a lui ignoto, si rifiutò di cedere la tavola. Questo aneddoto dimostrerebbe secondo le fonti l’inadeguatezza sostanziale nell’approccio con l’arte dei Romani: un rozzo generale non poteva essere in grado di apprezzare i valori estetici delle opere d’arte da lui stesse saccheggiate dimostrando così inesorabilmente la sua inferiorità nei confronti dei conquistati.

È chiaro che le fonti seguono tradizioni consolidate e propongono visioni funzionali alla retorica che accompagna la formazione della consapevolezza dell’identità romana nel confronto serrato con la cultura greca. E che il timore dei tradizionalisti riguardava il pericolo degli eccessi di ricchezza e potere che potevano acquisire i generali vittoriosi.

L’interesse di Mummio per il quadro di Aristide poteva avere diverse motivazioni, che traspaiono dalle sue azioni. Il quadro venne infatti dedicato da Mummio sul santuario plebeo dell’Aventino, che Liber condivideva con il suo doppio femminile, Libera, e con la grande dea della fertilità e dei raccolti Cerere. Agli occhi romani Dioniso era Liber Pater, dio italico e plebeo. Il luogo in cui quest’opera venne dedicata da Mummio e la sua devozione per Bacco costituiscono per noi prove per affermare che l’attitudine di questo generale plebeo nei confronti dei quadri di Aristide non era dettata da scelte di gusto: non motivata della presunta rozzezza estetica, quanto piuttosto focalizzata sui contenuti dell’opera e sui risvolti del messaggio in essa contenuto, e che acquistava un peculiare regime espressivo se ambientato nella scena politica del momento.

Il Dioniso di Aristide, esposto nel santuario plebeo, assolve a due regimi espressivi: da un lato si adegua al significato del luogo, dedicato al culto di Liber; dall’altro rappresenta quasi una rivendicazione delle origini plebee del generale. Questo genere di significato, che potremmo definire “individuale”, fondato sulle inclinazioni autorappresentative del committente, esprime la devozione di Lucio Mummio e le sue scelte politiche; e sembra affermare un primato dei significati sul gusto artistico nella scelta romana delle opere d’arte greche.

In che modo le opere d’arte greche trafugate dai romani si integrarono con il contesto in cui erano state inserite?
Tra il III e il II secolo i generali romani decorarono con le opere greche i luoghi pubblici e i monumenti costruiti ex manubiis, con i proventi dei bottini. Le opere greche erano elementi di prestigio a cui un generale vittorioso sembrava non potesse rinunciare, anche se le sue vittorie non riguardavano la Grecia. La logica implicita e inconsapevole che sembrano seguire i protagonisti della conquista per celebrare le loro imprese e manifestare il potere acquisito si rivela se prendiamo in considerazione i dati della topografia. I contesti di esposizione delle opere greche si distribuiscono lungo un percorso trionfale e negli spazi sacri degli dei della Vittoria, disposti lungo una fascia extrapomeriale che partiva da porta Capena alle falde meridionali del Celio (Camene), toccava l’Aventino (Diana, Vortumno), costeggiava il lato sud-ovest del Circo Massimo (Flora), arrivava al Tevere all’altezza di Porta Trigemina (Ercole), proseguiva a nord, usciva dalla cinta muraria per la porta Carmentale (anche Carmenta era una Camena) e finiva al circo Flaminio, con Ercole, Castore e Polluce, Fortuna Equestre. Il fanum Herculis menzionato in funzione del portico che secondo Livio Nobiliore avrebbe costruito è la futura aedes Herculis Musarum[2]. Il bottino di Marcello venne esposto nell’aedes di Honos a Porta Capena, il quadro di Aristide sull’Aventino, dove erano insediate divinità della Vittoria come Luna e Stimula/Semele, la Venere di Prassitele nel tempio di Felicitas presso la Porta Carmentalis, i bottini di Nobiliore, Bruto Callaico e Domizio Enobarbo nei templi di Ercole Marte e Nettuno intorno al Circo Flaminio.

Le opere greche vengono integrate negli ambienti romani in una corrispondenza intima con la funzione e il significato degli spazi. Nella tarda repubblica Pompeo decorò il suo teatro con una miriade di statue. I soggetti raffigurati erano consoni a rappresentare il mondo concettuale di Venere, la dea della vittoria di Pompeo, alla quale era dedicato un tempio in summa cavea: statue di etere, di poetesse, donne prodigiose per la loro fertilità, che risaltano con il mondo di soggetti esposti nella porticus, più legati al negotium e agli spazi politici che si aprivano lungo questo ampio recinto porticato. Cesare dedicò nel suo Foro i quadri di Timomaco di Bisanzio raffiguranti Medea e Aiace, due soggetti tipici delle tragedie. Con questi inaugurava la creazione di un nuovo spazio politico, alternativo alla vetusta piazza repubblicana. Medea e Aiace erano immagini simboliche dei mali della tarda repubblica, della tragedia delle guerre civili, mali esorcizzati tramite la consacrazione dello spazio, tutt’uno con le opere che lo decoravano. Alla sua morte il figlio adottivo Ottaviano, ne consacrò la divinitas con la esposizione della Venere Anadyomene di Apelle nel tempio dedicato al padre. L’aspetto formale dell’opera, Afrodite che sorge dalla schiuma delle acque, esprime in modo consono il significato nuovo dell’aedes Divi Iulii: l’apoteosi e l’immortalità di Cesare e quindi, come seppe leggere l’occhio acuto di Ovidio, la sua stessa immortalità.

Quali regole seguiva la collocazione delle opere?
I romani della tarda repubblica seguivano delle regole implicite nella decorazione degli spazi pubblici e privati con opere d’arte. Vitruvio nel de architectura cerca di razionalizzarle e di metterle nero su bianco. In un passo famoso, studiato da Tonio Hölscher che lo inserisce nella sua teoria del decorum, Vitruvio scrive sull’adeguatezza dei soggetti delle opere agli spazi pubblici. Gli abitanti di una città della Caria, Alabanda, dimostravano il loro scarso livello di cultura disponendo statue di oratori nelle terme e di atleti nel Foro, quando invece le regole della decentia avrebbero suggerito il contrario: l’attitudine e i significati delle statue erano in palese disaccordo con il carattere dei luoghi. L’affermazione riecheggia le parole di Licurgo, che nel IV secolo declamava: «Solo voi Ateniesi, tra tutti i Greci, conoscete il modo in cui si debbano onorare gli uomini valorosi. In altri luoghi troverete statue di atleti nell’agorà; ma nella vostra città troverete statue di generali vittoriosi e uomini che uccisero i tiranni». Convenzioni e regole di adeguatezza tematica e semantica delle opere negli spazi fanno parte della cultura greca. A Roma sono un frutto dell’ellenizzazione, ma solo in parte. Negli spazi romani le opere greche si adattano al sostrato di antiche tradizioni e assumono una semantica specifica, che varia in base ai luoghi e alle intenzioni del committente. La vocazione fortemente autorappresentativa dei committenti romani trasforma e adatta le regole del decorum, ovvero dell’adeguatezza che un’immagine o un’opera figurativa deve possedere per essere significativa.

Le regole che i romani seguivano nella collocazione delle opere greche emerge dal genere letterario che meglio esprime gli aspetti culturali legati alla vita quotidiana di committenti e collezionisti romani. Nelle lettere scritte ad Attico tra il 66 e il 65 a.C. Cicerone esprime il suo apprezzamento per una statua in particolare, un’erma con i busti appaiati di Hermes e di Athena, una decorazione tipica dei ginnasi greci. Cicerone ringrazia Attico, per avergli procurato l’ornamento adatto all’ambiente che nella sua villa era chiamato Accademia. L’immagine di Hermes infatti era un ornamento adeguato dei ginnasi, ma l’effige di Athena si adattava in modo particolare al suo: e collocata in questo spazio, sembra farlo risplendere dei suoi significati, rendendoli tutto una sorta di anathema alla dea. L’effige di Athena era dunque talmente carica di forza espressiva, da trasformare e amplificare il significato dello spazio, rendendolo consacrato alla dea, come fosse un santuario[3]. La statua esemplificava per Cicerone l’ornamento adeguato per l’ambiente che voleva decorare.

Un ornamentum adeguato, ovvero proprium, può essere commune, dice Cicerone. Hermes è un ornamentum commune omnium; appartiene a un genere di statue che normalmente decorano i ginnasi. La sua adeguatezza definisce in questo senso un livello di percezione condivisibile da molti; ma con l’immagine di Athena Cicerone stringe un rapporto soggettivo, individuale, quasi affettivo. Athena esprime una caratteristica del suo spazio. Le fonti sottolineano come all’epoca della repressione di Catilina Cicerone avesse eletto la dea, sua protettrice, a simbolo delle sue virtù: razionalità, autocontrollo e saggezza. Anche per un visitatore della domus di Cicerone, che con il committente condivideva categorie culturali e inclinazioni, la statua di Athena poteva indicare metaforicamente un luogo dove si praticava la cultura. L’opera d’arte non sembra essere per l’élite romana valutata come modello di un’artisticità ineffabile e astratta dalla realtà quotidiana, quanto qualcosa che interagiva fittamente con questa realtà. L’adeguatezza quindi, che Cicerone attribuisce all’Hermathena definendola ornamentum proprium, determina un profondo radicarsi dell’opera e del suo contenuto di significato nella complessa e multiforme realtà sociale. Il concetto definisce caratteristiche essenziali dell’oggetto opera d’arte a Roma e alcuni suoi regimi espressivi: l’opera, attraverso il suo soggetto e in modo specifico la sua iconografia, è espressione dell’habitus del committente, delle categorie culturali di cui è parte e al suo ruolo sociale; su un secondo livello, è intrecciata al luogo e alle caratteristiche che gli deve infondere. Il significato un’opera d’arte può essere compreso solo se consentaneum a un tempo, a un luogo, a un committente e al destinatario. I messaggi veicolati dai soggetti devono essere comprensibili a un pubblico differenziato, ma accomunato da una percezione condivisa. [4] Per Cicerone esiste una ulteriore qualità semantica dell’opera figurativa. L’iconografia non si connette soltanto al contenuto, ma piuttosto istituisce un mutevole rapporto con l’ambiente. Con i regimi espressivi molteplici e compresenti le opere d’arte assolvono la loro efficacia comunicativa sull’osservatore comune, mentre assolve ai rituali e alle pratiche sociali quotidiane, che corrono senza una riflessione distanziata o una conteplazione estetica.

Il concetto di ornamentum contiene in sé i germi di una divergenza radicale dalla purezza dell’opera d’arte moderna. L’ornamentum possiede la sua bellezza in funzione di un contesto da ornare. Istituisce quindi immediatamente una relazione con uno spazio, sia esso fisico che culturale.

Quali funzioni e quale ruolo assunsero le opere d’arte greche una volta esposte negli spazi pubblici?
Il legame forte che le opere figurative greche intrattengono con i significati e i valori dei luoghi implica che le funzioni e i ruoli assunti da queste opere sono condizionati dalle funzioni degli spazi e dalle personalità dei committenti. Ma volendo parlare in senso generale, potremmo individuare una costante: tanto più l’opera corrisponde al contesto nel quale è inserita, tanto meglio assolve alla sua funzione espressiva. I grandi quadri di Apelle esposti nei luoghi più celebri del Forum Augustum sono immagini trionfali, che comunicano un nuovo significato in consonanza con la quadriga di Augusto e le tradizionali effigi dei viri triumphales sotto i portici. Sono immagini adeguate ad esprimere il senso romano della virtus che diventa in questo confronto proprio del transfer culturale, universale. Il ruolo primario delle opere greche negli spazi romani non è quindi simile a quella delle opere d’arte nei nostri moderni musei. Anche se a una parte del pubblico non dovevano sfuggire i valori estetici e la techne raffinata degli artisti greci.

Nel libro Lei offre l’analisi di una serie di opere greche giunte a Roma nella Tarda Repubblica: quale fu la percezione del popolo romano?
I modi di percepire le opere d’arte greche a Roma si rivelano vari e diversificati. Plinio si lamentava della percezione distratta cui erano soggette le opere d’arte disperse in città, circondate dall’oblio durante lo svolgimento di molteplici attività quotidiane. Segnala quindi l’esistenza di un pubblico più attento e in cerca di una visione più tecnica delle opere. A Roma tuttavia il gran numero di opere d’arte e l’oblio che oramai le oscura, e ancora più l’accumularsi dei più svariati impegni ed affari, finiscono per stornare dalla contemplazione, perché per ammirare opere come queste bisogna essere tranquilli, in luoghi silenziosi[5]. Ecco testimoniata dal passo l’esistenza di un tipo di visione che potremmo chiamare contemplativa: l´admiratio, realizzata in una condizione ambientale estremamente favorevole: il silenzio.

Ne L’amour de l’art; Pierre Bourdieu cita un illustre allestitore del Louvre negli anni ’60 del Novecento. Secondo Gazzola, lo spettatore ideale dei musei moderni “viene a battere alla porta del museo con una certa agitazione; e non appena ne ha varcato la soglia, gli è assolutamente necessario trovare l’elemento senza il quale non può avere un confronto con l’opera plastica: il silenzio”

Gazzola traccia poi le caratteristiche di una percezione ideale, che consente di cogliere significati intensi e raggiungere l’effetto che deriva dalla comprensione: „è soltanto nella „neutralità che le opere esposte possono mostrare liberamente il loro significato espressivo. Ed è ancora questa atmosfera, che deve essere automaticamente astratta fino a divenire impersonale, ma nello stesso tempo scrupolosamente compiuta, al fine di evitare ogni possibile suggestione, che crea le condizioni psicologiche ideali per il visitatore“ [6] Anche secondo Plinio l’admiratio era una percezione intensa che si realizzava nei luoghi dominati dal silenzio. Un luogo ottimale esisteva anche a Roma per questo tipo di contemplazione: una biblioteca. È infatti quel tipo di percezione che uno spettatore colto poteva realizzare nella biblioteca dei Monumenta Asinii Pollionis. Asinio Pollione, luogotenente di Cesare all’epoca del Rubicone, aveva idee chiare sul tipo di percezione si addiceva alle opere greche di celebri artisti esposte negli spazi da lui creati. Il suo spettatore ideale doveva contemplare le opere in modo concentrato e intenso, per essere compenetrato dalla stessa vehementia che lo aveva animato nel comporre la collezione: una passione che aveva connotato le azioni dell’intera sua vita. Asinio Pollione, scrive Plinio, per il suo temperamento appassionato e ardente, volle che anche le sue statue fossero contemplate con trasporto. Rivolgendo lo sguardo a Ninfe e Centauri, alle statue di Oceano e Iuppiter, al supplizio di Dirce, un mirabilium di tecnica e stile patetico, il pubblico raffinato dei monumenta provava sensazioni intense e condivideva le passioni dell’epoca di Cesare, un’epoca ormai al tramonto.

Rappresentative negli spazi politici, intensamente legate ai valori espressivi dei luoghi, alle volontà rappresentative dei committenti e alle capacità immedesimative dei fruitori, le opere d´arte greche sono a Roma dimostrano una capacità di coinvolgere gli spettatori in un dialogo sociale e collettivo, intenso ed emotivo.

Agrippa costruì in campo Marzio un laconicum: “un ginnasio così chiamato in onore degli atleti spartani, che avevano un primato nell’esercitare i loro corpi nudi e abbondantemente cosparsi di olio” (Dio 53, 27, 1). L’immagine adeguata a esprimere il concetto è l´Apoxyomenos, l’atleta che si deterge, di Lisippo, dedicato da Agrippa davanti all’edificio: una resa visiva davvero concreta dell´effetto sul corpo degli esercizi atletici. Agrippa gioca con l’evergetismo su un duplice senso. Allude a un vir triumphalis che negli anni Settanta, sul Campidoglio, aveva dedicato questo tipo di immagini per rappresentare la sua vittoria con la metafora atletica: Pompeius Bithynicus che espose nel 74 a.C. una effigies juvenis rutrum tenentis ex Bithynia suppellectilis regiae (Fest., XVI, s.v. rutrum).

Il popolo amò tanto profondamente questa statua, simbolo del suo benessere pubblico e della capacità evergetica dei suoi uomini politici, che protestò con violenza quando Tiberio gliela sottrasse per farla rinchiudere nel suo cubiculo. Tiberio fu costretto a far rimettere la statua al suo posto.

Quale evoluzione subì il gusto artistico romano durante l’età di Cesare e nel periodo postaziaco?
Dopo Azio e durante tutta l’età augustea esiste a Roma un pubblico differenziato, in grado di percepire le opere greche per la loro espressività formale ed estetica e di comprenderne il linguaggio e i significati impliciti, sia nei luoghi più raccolti, elitari, che negli spazi di massa. Si può constatare la formazione compiuta in questi anni di una sorta di competenza interpretativa a vari livelli, più che di un ‘gusto artistico’, condivisa da ampi gruppi interrelati dall’ideologia del consenso. Augusto veicola consapevolmente messaggi ai senatori riunti nella Curia attraverso i quadri greci, comunica il significato epocale della rifondazione del sacro con la triade di Apollo Palatino, esprime l’identità romana imperiale con le opere greche del suo Foro. Il linguaggio figurativo complesso dell’epoca è in consonanza con l’elaborazione delle decorazioni architettoniche e con il valore monumentale degli spazi. L’arte, con le sue componenti formali e i suoi significati, assume in quest’epoca la funzione e il ruolo di creare le realtà concrete degli spazi, dei luoghi e dei monumenti, all’interno dei quali si svolgevano le attività sociali del popolo. In questo senso le opere greche sono parte di una percezione ‘estetica’ diffusa, che implica il riconoscimento del loro essere parte del sistema culturale di Roma.

Alessandra Bravi si è addottorata in Archeologia classica all’Università di Roma Tor Vergata. È membro della facoltà di filosofia della Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg e svolge attività di ricerca presso l’Università della Tuscia di Viterbo.

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[1] Plut., Marc., 21.

[2] D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, p. 264 ss.

[3] Att., 1, 4, 3: Quod ad me de Hermathena scribis, per mihi gratum est. Est ornamentum Academiae proprium meae, quod et Hermes commune omnium et Minerva singulare est insigne eius gynnasii. Quare velim, ut scribis, ceteris quoque rebus quam plurimis eum locum ornes. «è proprio l´ornamento adatto per la mia Accademia, perché Ermete si addice a tutti i ginnasi e Minerva particolarmente al mio. Perciò vorrei che, come tu mi scrivi, mi ornassi questo luogo con il più gran numero possibile di pezzi».

[4] Questa percezione ´condivisa´, che affonda le radici in un sostrato culturale comune di una società, determina anche la coerenza formale interna degli artefatti: cf. Cic. orat. 73.

[5] Plin. nat. 36, 27 Romae multitudo operum et iam obliteratio ac magis officiorum negotiorumque acervi omnes a contemplatione tamen abducunt, quoniam otiosorum et in magno loci silentio talis admiratio est.

[6] P. Gazzola in Musées et Collections publiques en France, April-Juni 1961, 84-85.

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