
È evidente come in tutto ciò il problema dell’ordinamento costituisca l’elemento centrale. Le vicende della storia della Salvezza sono rette da un «vivens ordo», da un «ordo rationis» – per usare le parole dell’abate –, che può quindi essere compreso e comunicato. Il dono che Gioacchino crede di aver ricevuto è proprio quello di uno spiritus intelligentiae, grazie al quale egli comprende e svela i significati nascosti delle Scritture; e cioè, questa griglia di corrispondenze, che gli permette di annunciare che la fine è vicina, e di mettere in guardia le gerarchie ecclesiastiche e laiche dalla venuta dell’Anticristo – o meglio, dei diversi anticristi che il suo sistema individua, fino a quello finale, la cui persecuzione precederà di poco il ritorno di Cristo.
Come si sviluppa, nella sua opera, il tema dell’ordo?
L’«architrave» (per usare un’espressione di Gian Luca Potestà) dell’intera opera di Gioacchino è l’ermeneutica della «concordia». Si tratta del sistema di corrispondenze a cui accennavo prima: il tempo da Adamo alla seconda venuta di Cristo è innanzitutto distinto in due sezioni, che vengono messe in parallelo: e cioè, il tempo dell’Antico Testamento e quello del Nuovo. Attraverso simmetrie fitte e molto precise fra le vicende di Israele e la storia della Chiesa, Gioacchino ritiene di poter cogliere il significato di ciò che è accaduto nel passato, anche recente: ad esempio, le vicende dello scontro fra gli imperatori e re della casa di Franconia e poi di Svevia e i papi, a partire dalla metà dell’XI secolo, vengono fatte corrispondere al conflitto fra i re Babilonesi e quelli di Giuda, culminato con la distruzione di Gerusalemme e la seconda deportazione a Babilonia. A questo punto, grazie alla conoscenza degli ultimi eventi del tempo dell’Antica Alleanza, e alla loro supposta corrispondenza con quelli degli anni che egli stesso sta vivendo, Gioacchino ritiene di essere in grado di prevedere gli eventi futuri, attraverso un’interpretazione che per ciò stesso diviene profetica, attenendosi a una corrispondenza altrettanto puntuale. Coerentemente, per quest’ultimo periodo, che ritiene quello finale, l’abate ricorre anche ai testi apocalittici presenti nelle Scritture (oltre ovviamente all’Apocalisse, anche a Daniele, ai passi sui tempi della fine nelle lettere paoline e di Giovanni, ma anche ad altri testi). La fine per Gioacchino è dunque vicina, e i suoi conteggi portano a prevedere ancora due-tre generazioni prima della venuta del Giudice: tutto si compirà entro (circa) il 1260.
A questo primo schema di «concordia» Gioacchino ne aggiunge un altro, a tre termini, che gli deriva – come del resto, almeno in parte, il primo – dalla sua speculazione trinitaria. Le due interpretazioni, è bene tenerlo presente, non si elidono, ma semplicemente mostrano la storia della salvezza da due diversi punti di vista. Lo schema a tre termini individua non due ma – appunto – tre tempi, e tre corrispondenti «status»: quello del Padre, quello del Figlio, e quello dello Spirito. Qui è molto evidente un aspetto caratteristico del pensiero di Gioacchino, che sarà con il tempo sempre più recepito e valorizzato, e che è stato molto sottolineato – forse anche oltre la sua effettiva incidenza – dagli studiosi del XX secolo. Lo sviluppo che egli descrive delinea inequivocabilmente un progresso, per cui, almeno per certi aspetti, l’epoca prossima alla fine, e in particolare il terzo status, l’”età dello Spirito” poco prima della venuta del Giudice, mostra elementi di maggiore perfezione rispetto alle epoche precedenti. Per molti versi, si tratta di una novità, rispetto a una tradizione che riteneva che il mondo semplicemente invecchiasse, fosse ormai decrepito, e che non ci si dovesse aspettare per il futuro se non il peggio. Con il tempo – soprattutto a fronte degli epigoni più tardi dell’abate – tale rottura con la tradizione verrà avvertita e stigmatizzata.
Tutto ciò appare particolarmente evidente, più efficacemente comunicato e più immediatamente riscontrabile, nelle «figurae», ossia le rappresentazioni diagrammatiche e simboliche realizzate da Gioacchino. In particolare ce ne è giunta una raccolta – con ogni probabilità realizzata dopo la sua morte – che è nota come «Liber figurarum». In queste figurae è molto chiara la tensione a cogliere l’ordine che regge le realtà rivelate, e in particolare la stessa storia della Salvezza. L’abate, come dicevo, ritiene che nelle cose create si possa distinguere una «luce… che in nessun modo è offuscata da qualche casuale oscurità, ma risplende per un ordine potente» (Dialogi, III). Attraverso queste rappresentazioni egli vuole mostrare questo ordine. Si tratta di testimonianze piuttosto impressionanti della sua attitudine a cogliere l’ordo rationis che regge le opere di Dio.
In che modo il punto di vista dell’abate calabrese ci consente di comprendere meglio l’evoluzione del tema dell’ordo attraverso il XII secolo?
Negli autori del XII secolo il tema dell’ordo è molto presente, sebbene secondo modalità diverse. Si è spesso insistito sul confronto fra teologia «monastica» e teologia «scolastica», appiattendolo per altro sul paradigma del famoso scontro fra Bernardo di Clairvaux e Pietro Abelardo, interpretato così come il paradigma dell’inevitabile conflitto fra la vecchia tradizione monastica, «mistica» (o «simbolica»), e l’assunzione della «ragione» in teologia attraverso i paradigmi della logica. In realtà, la differenza – che è innegabile, anche se spesso troppo enfatizzata – fra la lo studio e la speculazione dei monaci e quello delle scuole urbane è riconducibile innanzitutto al diverso significato che in questi ambienti viene riconosciuto allo studio: i monaci leggono, scrivono e meditano per raggiungere una visione delle cose più alta, per vedere il mondo come Dio lo vede; lo studio coltivato nelle scuole dei canonici è volto maggiormente alla trasmissione dei contenuti della fede – innanzitutto attraverso quella particolare forma di insegnamento che è la predicazione. Entrambi, tuttavia, recepiscono il tema dell’ordo. Ciò avviene attraverso modelli e strumenti diversi, in uno scenario in cui tuttavia le partizioni non sono rigide, e la contaminazione è la norma. Nelle scuole dei canonici, in particolare, si sviluppano strumenti che modificano le modalità stesse della lettura – indici, nuove impostazioni della pagina, rappresentazioni schematiche che danno ordine ai contenuti, e che permettono di trovare velocemente ciò che si cerca, per trasmetterlo nella predicazione e nell’insegnamento. Ivan Illich nel suo In the Vineyard of the Text (1993) ha parlato in questo senso di una svolta ancora più significativa di quella dell’invenzione della stampa. La stessa esposizione della fede assume la forma della summa, slegata dalla narrazione biblica e costruita secondo un’architettura di significato, che tuttavia si ritiene già presente nella realtà: l’ordine è nella realtà, e l’esposizione non fa che ripresentarlo. Anche gli autori monastici partono dal medesimo presupposto, e sviluppano conseguentemente i loro discorsi, sebbene con strumenti e metodi diversi – almeno in parte.
In generale, si è molto spesso parlato di «simbolo» e di «teologia simbolica» per questi secoli. Ancora una volta, bisognerebbe capire bene che cosa intendiamo con queste parole. Potremmo dire che si tratta si tratta della tensione a cogliere – e poi a rappresentare – l’invisibile attraverso le creature visibili, e il piano posto nell’eterno attraverso le vicende dei diversi tempi. Questo tipo di speculazione, che in effetti conosce in questo secolo una particolare fioritura, non può essere semplicemente consegnato ad una categoria onnicomprensiva di «mistica» o «simbolismo». Va chiarito che per questi autori ciò che rende possibile queste letture e queste rappresentazioni è l’ordo che regge la creazione, che ritengono riconoscibile: un ordo, quindi, che presuppone in ogni caso una ratio in grado di coglierlo e di comunicarlo.
Gioacchino è un ottimo punto di vista per comprendere queste tensioni comuni, e per verificare anche le interazioni – oltre che i conflitti, ben inteso – fra i due mondi. Due esempi possono aiutarci. L’abate calabrese mostra di conoscere uno dei testi a cui il XII secolo deve di più, per lo sviluppo di questa centralità dell’idea di una realtà ordinata, leggibile e come tale comunicabile, ossia la Gerachia celeste dello pseudo-Areopagita: in particolare, Gioacchino pare aver letto l’esposizione che ne dà Ugo, canonico e membro di spicco della scuola parigina di San Vittore. D’altro canto, la storiografia ha riconosciuto nei diagrammi di Gioacchino un esempio particolarmente elaborato dell’esposizione tramite diagrammi: per Anna C. Esmeijer, con l’abate «the method has been pushed as far as it could go»). Tale metodo rappresenta nel modo più evidente l’attitudine a pensare la realtà come ordinata, e a rifletterne l’ordine in schemi che possano trasmettere questa speculazione.
Marco Rainini, docente di Storia della Chiesa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è fra i curatori dell’edizione critica delle opere di Gioacchino. Fra le sue pubblicazioni: Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la teologia figurativa di Gioacchino da Fiore (Viella, 2006), Il profeta del papa. Vita e memoria di Raniero da Ponza, eremita di curia (Vita e Pensiero, 2015). Con Timoty Leonardi ha curato Ordinare il mondo. Diagrammi e simboli nelle pergamene di Vercelli (Vita e Pensiero, 2018).