“Ordine e disordine nella città contemporanea” di Francesco Indovina

Prof. Francesco Indovina, Lei è autore del libro Ordine e disordine nella città contemporanea edito da Franco Angeli: cosa è disordine?
Ordine e disordine nella città contemporanea, Francesco IndovinaCosa sia disordine lo spiega molto bene G. Bateson nel dialogo riportato nel mio libro. In generale possiamo dire che si tratta della collocazione di un oggetto là dove non ci si aspetterebbe che fosse, o se si preferisce, in un posto diverso da quello “assegnato” (da una persona, da una istituzione, da un potere …). La cosa che tuttavia pare rilevante è che esiste un solo ordine, mentre i disordini possono essere infiniti. Ma questa generale (e generica) definizione di ordine si addice solo parzialmente alla città.
Quest’ultima infatti non è fatta solo di “oggetti”, ma vive della presenza di donne e uomini impegnati a realizzare i propri sogni, a costruirsi il loro futuro, a soddisfare i propri bisogni. Non solo ma questi uomini e donne sono portatori di ruoli tra di loro diversi, hanno collocazione economica e sociale diverse tra di loro, hanno culture diverse. Non sono inquadrabili in una identità (gli abitanti di …) ma hanno individualità diverse (anche quegli individui nati e cresciuti nello stesso posto).
È questo amalgama di individui, che collaborano tra di loro, che “lottano” gli uni contro gli altri, o insieme contro altri, che si organizzano, che sentono e difendono i valori della tradizione, qualunque questa sia, mentre altri proprio questi valori vogliono cambiare, che rende la città viva, vitale, e …. disordinata.
Quando si parla di ordine urbano, non si fa solo riferimento ad un ordine fisico-morfologico, né ad un ordine estetico, che ci sono e contano, ma parliamo anche di “ordine sociale”.

Perché le città finiscono in disordine?
Se per ordine urbano non ci si riferisce soltanto al un giusto posto degli “oggetti” urbani ma anche agli individui è chiaro, e immediatamente intuibile, perché le città finiscono in disordine: gli individui, singolarmente o aggregati mettono continuamento in gioco la loro collocazione in quell’ordine sociale, ma così facendo finiscono anche per incidere sull’ordine degli oggetti. La cosa importante è che la messa in gioco della propria collocazione solo raramente costituisce un atto coscientemente eversivo (dell’ordine sociale e quindi dell’ordine urbano) ma scaturisce come conseguenza delle scelte che i singoli vanno facendo per raggiungere i loro obiettivi (economici, professionali, di lavoro, alla ricerca della felicità, ecc.).

La città finisce in disordine perché gli individui, singolarmente o aggregati, realizzano o tentano di realizzare loro obiettivi: aprono uno studio, fanno una società per costruire un condominio, si alleano in alleanze speculative, realizzano una fabbrica, si spostano in altra città, mettono al mondo figli, …. Insomma la vita scorre e questo scorrere crea disordine: non più le cose stanno al loro posto e soprattutto gli individui non stanno al posto loro.
La velocità del cambiamento non è stata storicamente sempre uguale, oggi il cambiamento è rapido e complessivo: cambia l’economi, la tecnologia ci pone in mano sempre nuovi strumenti, gli individui si muovono cambiano città o paese alla ricerca di nuove opportunità, cambiano gli stili di vita …. Tutto cambia.
Questa situazione fa dire ad individui e gruppi non disinteressati che data la velocità del cambiamento la pianificazione è del tutto inutile, non serve, arriva quando tutto è cambiato, o al massimo questi preferirebbero una pianificazione flessibile, cioè vacua e inutile. Sappiamo che il prevalere di questi gruppi, del tutto non interessati ai beni di tutti, farebbero fare una brutta fine alle città, prevarrebbe la prevaricazione, gli interessi dei più forti, questi sanno, anche se spesso sono riusciti a scavalcarla che la pianificazione è strumento contro l’arbitrio (di tutti).

Qual è il ruolo dell’urbanistica nel dare un ordine alle città?
Una città statica, immobile, o dal cambiamento molto lento, si può governare con un piano tradizionale: un paino che definisce destinazione d’uso, localizza funzioni, che cerca di risolvere le carenze maggiore di parte della popolazione, ecc. Ma oggi quel piano non serve, ma non perché esso dovrebbe durare un lasso di tempo entro il quale il cambiamento sconvolge molte cose, ma perché è povero di prospettive e non si pone il problema del cambiamento. Governare il cambiamento è fondamentale, il cambiamento si governa o ti distrugge, questo vale per i singoli ma anche per le città.
La finalità dell’urbanista sempre, intendo prima ed anche oggi, è quello di dare un ordine alla città, un ordine che ha aspetti fisici e funzionali ma che fa riferimento alla struttura sociale definita dai processi economici e dei rapporti di forza tra le classi.
Appunto perché la città è il riflesso delle formazione sociale e delle sue diseguaglianze, la pianificazione, che ha nella sua natura un carattere riformista, non può essere uno strumento che si adagi su queste diseguaglianze, ma, tuttavia, poiché non è possibile con la pianificazione territoriale modificare la natura della formazione sociale (e dei suoi effetti), la pianificazione si trova in una situazione apparentemente ambigua: non può cambiare la formazione sociale ma non ne può accettare le conseguenze sociali (e la loro proiezione sulla città). L’impegno della pianificazione è quello di mitigare, proprio attraverso l’intervento pianificatorio, le condizioni meno vantaggiose. La costruzione di un ordine territoriale, nel senso prima detto, è proprio funzionale a questo scopo.

Come si è manifestata storicamente la volontà d’ordine?
L’urbanistica, da quando la disciplina ha iniziato ad essere codificata e da prima quando si costruivano città senza una disciplina codificata, si è sempre occupato di dare ordine alle città: collocarle in siti adeguati, pensare alla loro difesa, al loro approvvigionamento, ecc., magari facendo credere con l’ausilio di auspici, di realizzare una volontà divina. Prima queste erano gli strumenti adottati per nascondere una conoscenza pratica frutto di diverse esperienze.
Ma da quando l’urbanistica è stata codificata gli urbanisti hanno usato metafore per spiegare la loro idea di città e spesso si sono costruiti dei possibili “modelli” di città che corrispondessero a specifiche ideologie, elaborazioni culturali, opzioni politiche.

Quali sono stati i principali teorizzatori dell’ordine cittadino?
I principali teorizzatori dei modelli di città, prima che gli urbanisti sono stati i filosofi. Sono loro, fin dall’antichità, che hanno colto la relazione stretta esistente tra la formazione sociale (attiva nei diversi periodi) e la città, è da questa riflessione sono scaturite indicazioni precise sui modelli di città. Fino a modelli utopistici.

Come è possibile gestire le diversità spaziali?
La città, essendo una proiezione nello spazio della società, si presenta non omogenea, ma caratterizzata da differenze. In epoca recente il “mercato” mette ciascuno “a posto suo” in termini fisici; ciascuno potrà insediarsi in quella parte di città che corrisponde alla sua collocazione sociale (alla sua capacità a pagare). Da questo punto di vista i diversi livelli di periferie non sono un effetto di distrazioni urbanistiche o edilizie, ma sono la condizione perché ciascuno possa trovare il proprio posto. Ma la caratterizzazione spaziale di ciascun luogo non è fatta solo di beni di mercato (la casa, il cibo, ecc.) ma è anche fatta di servizi pubblici e collettivi (verde attrezzato, scuole, biblioteche, ospedali, ecc.) una distribuzione spaziale nello spazio di tali servizi e beni collettivi costituisce un dato di “scelta politica” (quindi dal mio punto di vista urbanistico). Se si fosse in presenza di una loro distribuzione non omogenea saremmo nel caso di un’urbanistica che tradisce la sua essenza. ti
Come detto in precedenza, l’urbanistica o la pianificazione non hanno strumenti per intervenire e modificare i processi economico sociali, ma hanno l’obbligo di studiare come rendere le diverse parti della città non disomogenee per quanto attiene a servizi e attrezzature. Quello che prima ho chiamato azione di mitigazione.
Solo in questo modo è possibile gestire e in parte correggere le diversità spaziali, non mistificando ruoli impossibili, ma solo dando per quanto possibile soddisfazione alle domande della popolazione insediata nelle diverse zone e assumendo che chi meno ha più ha bisogno e merita.

In che modo la pianificazione può contribuire allo sviluppo delle nostre città?
Anche in questo caso la pianificazione si trova ad avere in mano non tanto strumenti di promozione quanto strumenti di governo.
Ogni città presenta una sua dinamica quale risultato dell’insieme delle decisioni e delle azioni che gli abitanti del luogo prendono per realizzare i propri obiettivi (economici, sociali, culturali, sentimentali, ecc.). L’insieme di queste, che chiamiamo pratiche sociali, determinano il sentiero lungo cui la dinamica urbana cammina, per così dire. Questo insieme fornisce, cioè, la chiara indicazione delle trasformazioni in corso. Il problema fondamentale è quello di governare queste trasformazioni, le trasformazioni o si governano o ti travolgono, nel senso che vanno per la loro strada. Ma di chi è il compito di governare le trasformazioni, ma soprattutto verso quale direzione indirizzare queste trasformazioni, bisogna lasciarle andare lungo il loro sentiero o si può tentare di modificare questo sentiero di evoluzione ove fosse opportuno e necessario?

La pianificazione territoriale ha strumenti in parte adatti a determinare questo “governo”, ma non può essere il pianificatore a decidere il sentiero da intraprendere. Si tratta di una scelta politica (l’urbanistica è scelta politica tecnicamente assistita), che solo la collettività, nel suo insieme e per bocca dei suoi governanti (a questo scopo eletti) possono prendere.
Solo tenendo conto di questa scelta, considerando le possibili previsioni di trasformazione, che il pianificatore potrà indicare sia l’assetto spaziale della specifica città, sia le politiche pubbliche necessarie (edilizie, infrastrutturali, scolastiche, dei servizi, del lavoro, ecc.) da attivare per raggiungere quel determinato obiettivo o se si vuole piegare la dinamica in atto alle scelte politiche esplicite.
Detto così tutto sembra molto facile e quasi meccanico, nella realtà, ovviamente, la questione è molto più complessa e “invischiante”, anche perché e soprattutto perché la sfera politica di governo è restia o non è capace di definire con chiarezza l’obiettivo, e senza questa chiarezza tutto diventa più complicato.

Quale dialettica tra ordine necessario e inesorabile disordine?
Una variabile del punto precedente è appunto dovuta alla dialettica tra ordine e disordine urbano. Ordine e disordine si oppongono ma non si contrappongono. L’ordine viene messo continuamente in discussione (disordinato) per effetto delle dinamiche economica, tecnologica, degli stili di vita ecc., ma come riportare ordine e ne vale la pena?
Sul fatto che ne valga la pena non ho dubbi, nel disordine quelli che ci perdono sono quelli che hanno meno (certo c’è anche la rivoluzione, ma siamo su un altro piano), chi ci guadagna sono quelli che “sanno approfittare”, cioè quelli che non meritano.
Quindi riportare all’ordine si deve. Se chiara, esplicita e fondata fosse stata la scelta di governo, allora si tratta di modificare, adeguare, riconsiderare le politiche attivate affinché esse possano contribuire a determinare un nuovo ordine (che sarà molto presto messo in disordine).
Il disordine, mi pare, indichi la vitalità di una comunità, di una realtà, che forza continuamente i limiti e i vincoli, perché vuole utilizzare le nuove opportunità che l’ordine imposto offre, ma l’affermazione di tale vitalità crea disordine, metti in discussione cioè, le stesse opportunità che si vogliono utilizzare, per questo si impone una (ri)messa in ordine, in una dialettica … senza fine.

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