“Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale” di Tania Groppi

Prof.ssa Tania Groppi, Lei è autrice del libro Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale edito da Laterza: in che modo la metafora spaziale verticale incarna e rappresenta il principio di gerarchia?
Oltre le gerarchie. In difesa del costituzionalismo sociale, Tania GroppiL’idea centrale del mio libro è che, nelle società umane, il contrario di “eguaglianza” non è “diseguaglianza”, bensì quella particolare forma di diseguaglianza che esprime una “gerarchia”, ovvero una ordinazione asimmetrica delle cose basata su una graduazione del loro valore: trattandosi di esseri umani, potremmo dire, su una graduazione della loro “dignità sociale”. E che questa concezione dei rapporti sociali si serva, per camuffarsi e rendersi accettabile, di metafore spaziali che, come studiosi, siamo chiamati a smascherare.

Organizzare i pensieri senza far ricorso alle metafore spaziali sembra quasi impossibile: lo spazio, con le sue diverse dimensioni, il sopra e il sotto, il davanti e il dietro, il dentro e il fuori, la destra e la sinistra, ci offre un luogo per rappresentare i concetti al quale è assai difficile rinunciare. Ad esempio, esprimiamo l’uguale con il piano, il livellato, lo spianato, il giusto (o retto) e l’ingiusto (o lo storto) attraverso, rispettivamente, la linea retta e il segno contorto (pensiamo all’aforisma kantiano sull’uomo come “legno storto”).

In particolare, il principio di gerarchia trova la sua espressione attraverso la metafora spaziale verticale, al punto che oggi ci è difficile immaginare una qualsiasi «gerarchia» prescindendo da una sua rappresentazione secondo l’asse sopra/sotto. Come ha ben messo in luce la filosofa Francesca Rigotti, questa metafora si risolve in una rappresentazione di rapporti diseguali, di subalternazione, in quanto colloca i soggetti su punti diversi di un asse verticale, che trova alla sua sommità il titolare dell’autorità: questo si collega a una concezione secondo la quale ciò che sta in alto è “buono” e ciò che sta in basso è “cattivo”, concezione a sua volta spiegabile attraverso elementi antropologici, religiosi e gravitazionali.

Le metafore non sono innocue come potrebbe sembrare: esse, selezionando alcuni aspetti del mondo e rendendoli visibili, motivano e strutturano in maniera pervasiva il linguaggio, il pensiero e, infine, anche il comportamento.

È così che la gerarchia basata sui rapporti di forza si trasforma, attraverso la metafora, in una gerarchia di valore, di «dignità sociale», potremmo dire utilizzando le parole dell’articolo 3 della Costituzione italiana (che esordisce proprio affermando che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale»: ci ritorneremo), ma esattamente nel senso opposto, ovvero per raffigurare e consacrare una im-pari dignità sociale. Ed è così che la metafora spaziale verticale è servita ai forti, cioè a chi ha il potere, per autoincensarsi abbellendosi di tutte le luminose virtù dell’alto e per ricacciare ancora più in basso, sotto, chi il potere non ce l’ha, in una sfera dove prevalgono l’oscurità e le tenebre.

Come ha ricordato lo storico del Novecento Tony Judt, che cito spesso nel mio libro, «se non parleremo in modo diverso, non riusciremo a pensare in modo diverso». Né ad agire in modo diverso, aggiungerei: perché si avvii un processo che porti a rimuovere, o a cercare di rimuovere, un’ingiustizia, essa deve prima essere vista e pensata come tale, a partire da chi la subisce, deve essere resa visibile, senza camuffamenti. Soltanto così si potrà generare quell’indignazione che è la molla per ogni cambiamento. Il mio libro vuole fornire un contributo a questo smascheramento.

Quali ripercussioni ha, sulle democrazie liberali, l’onnipresenza del principio di gerarchia nelle nostre società?
Non dico niente di nuovo, lo aveva già rilevato più di due secoli fa Tocqueville, evidenziando che la democrazia ha bisogno dell’eguaglianza, almeno di una certa dose di eguaglianza.

Che al di sotto di un certo livello di distribuzione della ricchezza non sia possibile un’autentica dialettica democratica è da tempo argomentato sul piano teorico e sostenuto da rilevazioni empiriche. Una eccessiva concentrazione della ricchezza, infatti, può alterare la competizione politica, specie in assenza di adeguate regole sul finanziamento delle campagne elettorali e l’azione delle lobbies. Un impoverimento dei ceti popolari può renderli più vulnerabili, nell’espressione delle loro preferenze politiche e nel rapporto con i governanti, in quanto meno capaci di esercitare un controllo sulla loro azione e più disponibili a pratiche clientelari. Inoltre, è stato mostrato che i cittadini coi redditi più bassi tendono a partecipare meno alla vita politica, lasciando quindi le decisioni nelle mani dei più ricchi, col rischio di quella che è stata definita una «deriva plutocratica» della democrazia. Per non parlare di situazioni estreme, nelle quali il potere di alcuni soggetti privati, in particolare dei datori di lavoro, nei confronti di altri soggetti privati, i cittadini-elettori, è così pervasivo da configurarsi come una privazione della libertà di scelta e dell’autonomia individuale: una forma di neofeudalesimo o di quasi schiavitù, tale da annientare la partecipazione democratica.

Ma c’è di più, ed è quello che cerco di evidenziare nel libro, sottolineando la relazione tra aumento delle diseguaglianze e regressione democratica, due fenomeni che vanno in parallelo in questi ultimi venti anni.

Infatti, ancor più delle diseguaglianze di per sé, è la loro crescita – in paesi nei quali, nel XX secolo, esse erano state decisamente ridotte – a produrre conseguenze sul funzionamento della democrazia: l’aumento delle diseguaglianze, con l’accrescimento delle distanze tra individui e gruppi, indebolisce la coesione sociale e il senso di identità. Il venir meno di una comune appartenenza mina, a sua volta, lo stesso legame comunitario, favorendo la divisione e la polarizzazione.

A creare distanze contribuisce anche la gestione degli spazi urbani, che ha visto la diffusione, in molti paesi, di quartieri recintati, gated communities in senso proprio, affidati alla sorveglianza di compagnie di sicurezza private, dove i benestanti si sono autorinchiusi per cercare di ricreare artificialmente quella quiete e sicurezza che sono smarrite nella violenza di città spesso simili a vere e proprie «giungle urbane». Il viaggiatore europeo continua a restare colpito, mentre si aggira tra fili spinati e barriere che circondano centri commerciali e zone residenziali, nei quartieri abbienti di Città del Messico, Santiago del Cile o Johannesburg. Ma tale realtà sta diffondendosi anche nei paesi ricchi, dove si tende ad allontanare i poveri dalle zone centrali e a rinchiuderli in ghetti urbani, sperduti in remote periferie. Comunque sia, il risultato è che l’organizzazione della vita sociale è sempre più ridotta entro spazi privati, e ciò fa sì che tra diversi non ci si incontri nemmeno. Per cui il senso di appartenenza deve essere creato artificialmente. Ad esempio attraverso l’emersione o il ritorno di forme di «nazionalismo tribale» (nutrite da un complesso armamentario simbolico), finalizzate a supplire all’assenza di una «reale» base di condivisione.

Lo svanire della possibilità di migliorare la posizione economica propria o dei propri figli, le difficoltà della vita quotidiana derivanti dai tagli alla spesa pubblica, le incertezze di un futuro che sembra dipendere da variabili incontrollabili generano, nelle moltitudini dei cittadini delle società democratiche dell’Occidente, una molteplicità di emozioni negative: risentimento, rancore, invidia, sfiducia, insicurezza, paura e finanche rabbia. In un’epoca di risorse limitate, in cui scarse sono le posizioni lavorative appetibili e si riducono anche quelle meno qualificate, è facile che prevalgano lo scoramento e il senso di abbandono, quando non si inneschi addirittura una lotta tra gli ultimi, come sta accadendo nei confronti dei migranti, ovvero degli stranieri poveri, che a sua volta si presta ad essere sfruttata a scopi elettorali da politici senza scrupoli.

Quale contributo può offrire il diritto contro il processo di polarizzazione che sta mettendo in pericolo il patto sociale sul quale si reggono le democrazie occidentali?
La mia convinzione profonda è che, nelle democrazie pluraliste, il compito del diritto è quello di contribuire a trasformare la realtà, nel senso di promuovere l’inclusione, la prossimità, la vicinanza tra le persone, insomma contesti nei quali ciascuno possa sviluppare al meglio la propria personalità.

E che il costituzionalismo sociale del Secondo dopoguerra, di matrice europea, abbia ancora molto da dire: anzi, che le sue conquiste, in termini di dignità della persona umana, eguaglianza sostanziale, diritti sociali, redistribuzione della ricchezza, debbano essere difese anche in un contesto profondamente mutato come è quello del XXI secolo. In particolare, è importante che, come italiani, diventiamo pienamente consapevoli del nostro patrimonio costituzionale: cosa questa non sempre evidente nella tendenza assai diffusa a lamentarsi e a ignorare le nostre conquiste.

Mi piace ricordare, lo faccio anche nel libro, un intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Meeting di Rimini nel 2016 «All’inizio degli anni Sessanta quasi la metà degli italiani non aveva neppure il diploma di scuola elementare, soltanto il 15% aveva completato la scuola media – che comprendeva allora l’avviamento – e meno del 6% aveva il diploma di media superiore. Soltanto poco più di un bambino su quattro andava oltre la licenza elementare e molti meno andavano oltre il diploma della media inferiore». Si potrebbero evocare tanti altri dati: indici su mortalità infantile, incidenti sul lavoro, diminuzione della povertà, declino della violenza e anche riduzione delle diseguaglianze di reddito e di capitale. Tutti questi dati e indicatori testimoniano il cammino compiuto dal nostro paese, specialmente a partire dal secondo dopoguerra: rileggerli, interpretarli, e semplicemente ricordarli, è tutt’altro che un esercizio inutile, di questi tempi. Così come non è inutile, anzi necessario, metterli in relazione con la nostra Costituzione, con i suoi principi, e in particolare con l’eguaglianza sostanziale dell’art. 3, comma 2, una disposizione davvero unica al tempo in cui fu scritta, una vera e propria “apripista” rispetto a quel “costituzionalismo trasformatore” che si sarebbe poi sviluppato nei decenni successivi, anche in altre parti del mondo, penso al Sudafrica o all’America latina.

Quale attualità mantiene il costituzionalismo sociale e come può tradursi in spinta culturale e forza di cambiamento?
Come dicevo, il costituzionalismo sociale del Secondo dopoguerra, almeno laddove è nato ed è stato applicato, cioè essenzialmente in Europa, ha dato un contributo ineguagliato nella riduzione delle distanze sociali, nell’inclusione sociale, nell’apertura di possibilità di crescita e sviluppo per grandi moltitudini di persone. È innegabile però da un certo punto in poi, si è assistito a un mutamento di politiche, che si è tradotto in una perdita di normatività delle costituzioni. In particolare, se il costituzionalismo sociale del Secondo dopoguerra aveva assicurato alla politica e alle sue istituzioni poteri di governo sui fatti dell’economia e la capacità di orientarli a favore delle classi più deboli, negli ultimi decenni la libertà dei mercati è apparsa invece come una necessità inevitabile, quasi una sorta di «fatto naturale», mentre le forme e le regole della politica degli Stati sono state degradate a variabili secondarie, come se si trattasse di irrilevanti «artifici».

Il vero grande trionfatore del post-1989, così, non è stata la democrazia costituzionale: le sue promesse, tra cui in primo luogo la riduzione delle diseguaglianze, non sono state mantenute. Il vincitore è invece il capitalismo finanziario globale, sempre pronto a giocare al ribasso nella tutela dei lavoratori e dei diritti sociali; al rialzo, invece, nell’arricchimento dei manager o dei titolari delle grandi fortune.

Ebbene, io credo, e il mio sguardo è profondamente influenzato dalla mia attività di costituzionalista svolta in tante parti del mondo, soprattutto in America latina e in Africa, che in Europa, e specialmente in Italia, abbiamo un “tesoro”. In particolare, in quanto italiani, dobbiamo riacquistare la consapevolezza che la lotta contro le diseguaglianze, la coesione sociale, l’anelito al pieno sviluppo della persona umana fanno parte della nostra identità costituzionale. A differenza del mondo anglosassone, in cui il quadro costituzionale è sprovvisto di una base giuridica adeguata, nel nostro paese principi di giustizia e strumenti per realizzarli sono sanciti normativamente nella Costituzione. Di conseguenza, non possiamo continuare a importare acriticamente e passivamente il dibattito statunitense o inglese: più che ricercare astratte definizioni di giustizia, non dobbiamo stancarci di richiamare la priorità di questi principi costituzionali, che configurano sia un obbligo di azione dei poteri pubblici, sia doveri di solidarietà che ricadono su tutti i soggetti dell’ordinamento.

In altre parole, dobbiamo «trarre dall’oblio» le norme costituzionali. Questo significa ricordare che il diritto non è una variabile indipendente nel mare magnum delle politiche economiche e sociali, ma ha carattere prescrittivo, cioè deve improntare di sé programmi politici, elettorali e di governo, atti normativi di ogni ordine e grado, sentenze di ogni ordine e grado.

A questo fine, occorre però fare un passo in più, perché si sviluppi questa consapevolezza. Occorre una crescita individuale – una crescita in consapevolezza ed empatia, che passa, oltre che tramite lo sviluppo personale, attraverso una sfida educativa, che coinvolge la collettività e che ha come indispensabile premessa la garanzia dei diritti economico-sociali, ovvero proprio quella giustizia sociale che a sua volta richiede l’adempimento di doveri di solidarietà. E’ qui che il diritto può dare il suo contributo: abbiamo bisogno che il diritto, muovendo dai grandi principi, si traduca in contesti in cui il «pieno sviluppo della persona umana» si realizzi effettivamente: ci serve un «diritto piccolo», che trasformi i principi in politiche che tengano conto di ogni essere umano nella sua concretezza e unicità, scardinando visioni basate su stereotipi, sostenute da fuorvianti metafore.

Tali politiche non si fanno da sole, ma a loro volta richiedono la partecipazione attiva di molteplici soggetti, pubblici e privati, che se ne facciano attivamente protagonisti e se ne assumano la responsabilità. Esse debbono essere scelte da maggioranze politiche che credano nella democrazia costituzionale, da rappresentanti di un’opinione pubblica e di elettori capaci di vedere l’altro. E vanno attuate attraverso la scuola, le amministrazioni, specie locali, la società civile, le famiglie e in definitiva col contributo di ciascuno di noi.

Giuristi compresi. Spesso mi ha colpito, nello studiare questo tema, la loro solitudine, nel senso che la loro voce è ignorata sia dalle altre discipline sociali, che dai politici, che al massimo se ne servono come di consulenti e/o azzeccagarbugli. Tuttavia, forse, sotto questa loro marginalità, più che un isolamento dalle altre discipline sociali, c’è, una volta ancora, una distanza. Tra i principi che i giuristi declamano e i comportamenti che praticano. Insomma, esaltare il basso e frequentare l’alto. Per recuperare un po’ di credibilità, se non di autorevolezza, essi sono chiamati a dare il loro apporto non solo a livello teorico, attraverso una progettualità di idee e lo sforzo di dialogare in misura maggiore con le altre scienze sociali, ma immergendosi nella realtà concreta, facendosi parte attiva nella società. In conclusione, non possiamo rinunciare, come giuristi, a riaffermare il carattere prescrittivo del diritto, la sua vocazione a trasformare i rapporti di forza, ad ergersi contro le ingiustizie, e a farcene concretamente portatori con il nostro lavoro.

Tania Groppi è professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Siena, dove insegna anche Diritto comparato. Ha diretto e dirige progetti di ricerca, nazionali e internazionali, sulla giustizia costituzionale, la democrazia costituzionale, il dialogo tra le corti. Ha partecipato ad attività di Institution building, tra l’altro, in Iraq, Repubblica democratica del Congo, Tunisia. È autrice di più di duecento articoli e dei volumi Il federalismo (Laterza, 2004); Canada (Il Mulino, 2007); Le grandi decisioni della Corte costituzionale italiana (Editoriale scientifica, 2010), Menopeggio (Il Mulino, 2020) e curatrice dei volumi The Use of Foreign Precedents by Constitutional Judges (Hart Publisher, 2013, con M.C. Ponthoreau) e Tunisia. La primavera della Costituzione (Carocci, 2015, con I. Spigno).

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