“Oltre la disoccupazione. Per una nuova pedagogia del lavoro” di Andrea Cegolon

Prof. Andrea Cegolon, Lei è autore del libro Oltre la disoccupazione. Per una nuova pedagogia del lavoro edito da Studium. In che modo le trasformazioni tecnologico-informatiche stanno caratterizzando il lavoro e con quali conseguenze?
Oltre la disoccupazione. Per una nuova pedagogia del lavoro, Andrea CegolonI progressi delle tecnologie informatiche e della comunicazione cambiano il modo in cui lavoriamo, la gestione del tempo libero, soprattutto l’interazione tra i soggetti. Lo verifichiamo in questa emergenza del Covid-19. La connessione costante era inimmaginabile ed è quello che ci permette di fare Internet e i dispositivi mobili, la posta elettronica, i social media ecc. Da queste potenzialità tecnologiche stanno emergendo nuovi settori industriali e nuovi modelli di business. I dispositivi per la salute personale, i computer che rispondono alle nostre voci, i servizi di condivisione di viaggio (come Uber) o i magazzini gestiti da robot stanno diventando sempre più comuni. L’e-commerce online ci permette di trovare ciò che vogliamo e acquistarlo all’istante. Con il semplice tocco di un dito possiamo usufruire di servizi tarati sui nostri gusti, come ad esempio ordinare cibo da asporto, chiamare un taxi o aprire un articolo di giornale. Alcune automobili possono persino parcheggiare scaricando un’app apposita.

I progressi tecnologici possono migliorare la qualità del lavoro aumentando la produttività e i guadagni, riducendo l’esposizione a compiti pericolosi, malsani e noiosi, oltre a garantire a molti lavoratori una maggiore flessibilità, autonomia, equilibrio tra vita lavorativa e vita privata. La nuova tecnologia può anche consentire l’impiego di competenze personali ad elevato livello, che tipicamente si associa a una maggiore soddisfazione sul lavoro. Tuttavia, tali progressi possono anche avere un impatto negativo con mutamento delle condizioni di lavoro, come nel caso del lavoro in piattaforma o gig economy o delle diverse forme di lavoro non standard, di qualità inferiore (salari più bassi, meno protezione contrattuale, maggior esposizione a rischio per la salute…). Ma la ricaduta più rilevante delle nuove tecnologie è la perdita di posti di lavoro in alcuni settori, come nel caso del tessile o nel ramo delle apparecchiature elettriche complesse, anche se, contemporaneamente, esse hanno generato una domanda aggiuntiva di beni e servizi che hanno dato luogo a nuovi posti di lavoro (soprattutto nel settore sei servizi professionali). Infine non va dimenticato che il progresso tecnologico ha anche contribuito all’aumento dell’occupazione femminile. Difficile fare un bilancio complessivo soprattutto oggi in tempi di pandemia. Tuttavia, è certo che senza le nuove tecnologie, oggi non potremmo svolgere diversi tipi di lavoro da remoto.

Quali sono le cause remote della disoccupazione/inoccupazione?
Oltre al fattore della tecnologia, vi sono anche cause meno evidenti che concorrono a spiegare la disoccupazione/inoccupazione odierne. Mi riferisco alla concezione antropologica alla base del capitalismo quale viene definendosi a partire dal XVI quando si iniziano a nutrire dubbi sulla severità delle idee precedenti.

L’affermarsi di una dimensione terrena della vita, lo sviluppo del commercio, l’accumulazione della ricchezza producono un benessere prima sconosciuto che diventa difficile condannare come manifestazione di impulsi negativi. Il denaro, considerato sterco del diavolo, comincia ad apparire sotto un’altra luce, non solo malefica, anche benefica. Allo stesso modo, l’avidità, la passione che è alla base dell’istinto umano di accumulo, si pensa non generi solo vizio, ma possa produrre anche virtù. È la tesi sconvolgente di un medico-filosofo olandese, Bernard de Mandeville, che nel 1704 dà alle stampe un poemetto dal titolo provocatorio The Grumbling Hive: or Knaves Turn’d Honest (L’alveare scontento: ovvero i furfanti diventati onesti). Una decina d’anni più tardi, nel 1714, viene ripubblicato con un titolo più politically correct, The fable of the Bees (La favola delle api). Con la metafora dell’alveare, Mandeville dimostra come la società, che trova una forza aggregante nel lavoro, sia tenuta insieme da soggetti diversamente impegnati: c’è chi investe capitali negli affari e lavora poco; chi non possiede nulla e deve adattarsi a svolgere i lavori più umili e faticosi ed infine chi – imbroglioni, ladri, assassini ecc. – riesce a campare con la frode. La società è fatta di posizioni diverse, diseguali, discriminanti ma nel suo insieme presenta la stessa armonia di un alveare e produce benessere per tutti. Ciò che sul piano individuale può apparire vizioso, nell’insieme sociale diventa virtuoso. E se, dando adito al malcontento che inevitabilmente serpeggia, si pretendesse di moralizzare la società, si finirebbe per livellare ogni diversità, eliminare la possibilità stessa del progresso che nasce dall’abbondanza e dalla emergenza di sempre nuovi bisogni. Sulla scia di Mandeville, altri autori, come ad esempio La Rochefoucoult, Montesquieu, Smith contribuiscono alla revisione culturale che accompagna la transizione da una economia di sussistenza ad una economia di mercato, attribuendo all’avidità umana, convertita in interesse, una forma di razionalità quando dimostra di saper seguire la propria convenienza, nella quale è compresa anche la socialità.

In sintesi, tra il XVII-XVIII secolo si registra una reinterpretazione dell’egoismo umano, del quale si scoprono ambivalenze nuove che finiranno per bonificarlo. Ma proprio l’idea che le pulsioni acquisitive si accompagnino a pulsioni altruistiche raggiungendo spontaneamente un loro equilibrio, quasi ad opera di una mano invisibile, si è rivelata la grande ingenuità del capitalismo che spiega anche il problema attuale del lavoro. E cioè, di fronte alla possibilità di conseguire incrementi di produttività attraverso l’automazione, il capitalismo non dimostra di avere alcuna remora nel sacrificare il lavoro.

Quali le ricadute della crisi del lavoro sull’uomo?
La prospettiva di “società senza lavoro” (Meda) è umanamente inaccettabile, alienante, per utilizzare un termine che nella storia del lavoro si è caricato di un significato ben preciso. Significa semplicemente costringere un essere umano a vivere al di fuori delle sue potenzialità, delle sue possibilità di realizzazione, divenire altro da quello che sente di poter essere, altro dal suo Beruf, dalla sua vocazione. Che non è banalmente lavorare da medico, avvocato, ingegnere, ma semplicemente lavorare, poter mettere alla prova se stesso attraverso l’esperienza sfidante del lavoro. Per questo, essere privati di questa opportunità non significa solo povertà economica significa anche povertà umana irrisarcibile con un reddito di cittadinanza.

L’impoverimento umano che subisce il soggetto disoccupato o inoccupato passa attraverso diversi stadi di esclusione, vissuta come disaffiliation (Castel), rifiuto da parte della realtà sociale di appartenenza; come desinsertion, negato inserimento sociale (De Gaulejac), ancora come dequalification (Paugam) giudizio di inabilità che intacca l’autostima e pone le premesse per una forma di esclusione più grave, quella del soggetto da se stesso che ho proposto con il termine disaffezione. Insieme al distacco sociale si verifica gradualmente quello da se stesso, nel momento in cui la persona decide di non corrispondere più a quella forma di amore primario nei confronti di se stessa, che è l’amore di sé o istinto di conservazione, fino a mettere nel conto anche conseguenze dolorosissime.

In che modo la pedagogia del lavoro può contribuire alla prevenzione della disoccupazione?
Di fronte alla complessità dei problemi economico-lavorativi attuali, difficile affermare in che modo la pedagogia del lavoro possa contribuire ad evitare le ricadute negative nel soggetto dovute allo stato di disoccupazione/inoccupazione. Nondimeno essa può concorrere, se non ad eliminare, a ridimensionare il problema. Prevenire significa precedere altri, fare qualcosa prima di altri, impedire che un evento negativo o dannoso si verifichi. L’educazione deve promuovere il soggetto, ma anche prevenire, porre in essere tutte le strategie di contrasto all’insorgere di fattori di rischio. Più o meno è questo il quadro pedagogico tracciato da Rousseau nel suo capolavoro pedagogico, Emilio, dove è forte il legame tra promozione e prevenzione nell’iter educativo. In questo senso si capisce l’importanza che per la pedagogia del lavoro assume la fase educativa precedente il momento lavorativo e coincidente con l’educazione di base che concorre, come ha dimostrato l’economista premio Nobel, James Heckman, in maniera determinante alla formazione delle soft skill, le competenze considerate complementari al lavoro tecnologicizzato e fondamentali sul piano della formazione personale. Nondimeno la pedagogia si trova alle prese con un dilemma. Questo. Le soft skills sono un valore in sé o un valore per? Segnano una svolta da cui non si può tornare indietro oppure finiscono per configurarsi come una strategia gattopardesca? Valori di umanità, socialità e cittadinanza sono destinati a diventare stabili ed imprescindibili costituenti della teoria economica oppure la centralità della persona sarà il fiore all’occhiello che serve alla rilegittimazione sociale del lavoro ferma restato la supremazia invincibile della produzione indipendentemente dai costi umani richiesti?

Quale nuova idea del lavoro è dunque necessaria?
Una risposta a questi interrogativi ancora aperti può venire da una nuova idea di lavoro che può iniziare ad essere affermata a partire da alcuni correttivi. Innanzitutto, evitare di trattare il lavoro in maniera univoca, dal momento che esso ha sempre conosciuto una forma plurima: agricolo, artigiano, industriale, domestico, di cura. Inoltre deve essere modificato il nostro concetto di produttività del lavoro. La distinzione marxiana tra lavoro produttivo – beni di consumo o di scambio – e lavoro improduttivo che si esaurisce in se stesso, perde di significato, perché il lavoro inizia ad essere considerato anche in rapporto ad un altro genere di bisogni e viene visto in termini produttivi anche quello, per riprendere Stuart Mill, che inizia e finisce nella soddisfazione che produce.

Se, infatti, iniziamo a ragionare di lavoro dagli scopi multipli dell’esistenza umana, cambiano anche i criteri per misurare la produttività. Essa non può più essere limitata solo ai beni materiali, deve essere estesa anche ai beni immateriali che concorrono al benessere della persona e di un Paese. Materiale è il benessere misurato dal prodotto interno lordo (PIL); immateriale è il benessere che chiama in causa anche altri indicatori come, particolarmente oggi, vivere a lungo e in buona salute, essere istruiti, disporre delle risorse adeguate a un tenore di vita decoroso. In tutto questo un riconoscimento particolare spetta alla famiglia e al lavoro domestico. La famiglia è la principale agenzia produttiva di benessere immateriale che, mai come in questo momento, appare insuperabile. È un benessere fatto di accoglienza, comprensione, affetto, aiuto reciproco, sicurezza, appartenenza, identità: che solo apparentemente non ha alcuna importanza sul piano economico. Se solo iniziassimo a pensare l’economia non più come una sfera separata e autonoma, ma come realtà inserita nel tessuto sociale, attenta anche ai limiti antropologici che incontra il lavoro in quanto attività materialmente produttiva, allora cambierebbe anche il nostro modo di guadare la famiglia e il lavoro domestico.

Ma la valorizzazione dei diversi tipi di lavoro non è raccomandata unicamente in vista di opzioni alternative, ma per affermare anche la disponibilità al cambiamento flessibile, discontinuo, non lineare, in altri termini la disponibilità a passare da un ambito lavorativo ad un altro, fino a seguire contemporaneamente più attività lavorative. La disoccupazione e soprattutto l’inoccupazione giovanile e i NEET sono fenomeni che per le loro caratteristiche inedite inviano segnali di cambiamento discontinuo che vanno tenuti nella debita considerazione. Per poter conservare il lavoro nell’era della tecnologia e dell’automazione si impongono nuovi atteggiamenti e rappresentazioni diverse. Sia che si parli di occupabilità o di imprenditorialità, l’arma vincente sono le competenze personali generatrici di flessibilità e cambiamento e per questo sovra-ordinate rispetto alle sole competenze tecniche che irrigidiscono l’identità professionale all’interno di circuiti limitati.

Proprio la disponibilità a passare da un lavoro ad un altro per corrispondere al nostro bisogno di sicurezza e di realizzazione lavorativa ci porta nella direzione di concepire il lavoro come un insieme di opportunità, un portafoglio del lavoro. Significa imparare a gestire le nostre potenzialità, i nostri talenti, le nostre competenze come qualsiasi altro bene e cioè investendoli in più campi. Sicurezza e benessere personale vanno ricercati investendo sia nel lavoro remunerato – quello stipendiato o fatturato – che nel lavoro non remunerato, quello domestico, quello volontario e lo studio. Nessuno oggi investirebbe il proprio capitale finanziario in una sola azione, ma molti di noi hanno investito il loro capitale umano in un unico lavoro con la pretesa di trovare in esso tutto quello che cercavamo nella vita: interesse, soddisfazione, profitto, buone relazioni, possibilità di progressione e sviluppo. Aspettative legittime, tranne il fatto di rivolgerle ad un unico lavoro. Questo l’errore cui ci ha condotto una visione monistica del lavoro.

Una visione plurima del lavoro, nell’ottica della cittadinanza e dei diritti/doveri, oltre che della uguaglianza delle opportunità, unita all’idea che il lavoro domestico e di cura debba diventare un obbligo per tutti, può consentire una redistribuzione del lavoro remunerato e contribuire a risolvere il problema della disoccupazione/inoccupazione. La responsabilità per ognuno del lavoro di cura verso se stessi e verso gli altri funzionerebbe da potente deterrente nei confronti della tentazione ad aumentare il lavoro retribuito, mentre verrebbe più apprezzato il lavoro di cura e positiva sarebbe la ricaduta anche nelle relazioni famigliari e sociali. Cura part-time per tutti e lavoro part-time per tutti dovrebbe essere lo slogan che riassume il cambiamento culturale da promuovere e a chi lo considerasse utopico, basterebbe ribattere che le donne lo fanno da tempo, da tempo hanno imparato a conciliare i due tipi di lavoro.

Andrea Cegolon è ricercatore confermato abilitato a professore associato presso il Dipartimento di Scienze politiche, della comunicazione e delle relazioni internazionali dell’Università degli studi di Macerata, dove insegna Teoria e modelli dei processi formativi. Ha pubblicato cinque monografie e una serie di articoli su riviste nazionali e internazionali. I suoi interessi di ricerca includono la transizione scuola-lavoro; la formazione professionale e l’educazione degli adulti; le indagini comparative internazionali sui livelli delle competenze degli studenti e degli adulti; i temi legati all’economia dell’istruzione riguardanti la formazione del capitale umano.

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