
Sembra incredibile, ma sia economia che diritto non sono sembrati interessati a comprendere il reale comportamento umano ed utilizzare le conoscenze scientifiche che si hanno su di esso. L’economia si è basata su un modello fittizio ed irreale di attore economico (homo oeconomicus) la cui “mente” è costituita da un insieme di algoritmi di ottimizzazione ed il cui comportamento è spinto solo da incentivi positivi o negativi di tipo monetario. Il diritto a sua volta si è creato, più alla buona, il suo homo juridicus cioè il modello poco sofisticato di attore che viene guidato, pavlovianamente, soprattutto dal comportamento di evitamento, nella associazione fra sanzioni e mancato rispetto della norma.
Oggi giorno l’economia e meno il diritto riconoscono che è venuto il momento di aprirsi ai risultati delle scienze cognitive e comportamentali e riformulare il modello di attore. Si tratta però ancora di cambiamenti, più di carattere accademico, che non vanno ad intaccare molto l’utilizzo delle scienze economiche e giuridiche nella formulazione delle politiche pubbliche. Fino a pochi anni fa vi era un consenso quasi unanime fra i policy maker che qualsiasi legge, regolamentazione, normativa dovesse fare riferimento solo sulla analisi economica, su qualche dato di natura sociologica oltre che, in primis, sul codice ed sul pensiero giuridico. Il baricentro della coerenza verso il codice ed il contesto giuridico cambiava a seconda della civiltà giuridica di riferimento. Molto nel caso del diritto romano della Europa continentale e meno in quello di “Common Law” di tipo anglosassone.
I vari e frequenti fallimenti di mercato derivanti dalle proposte economiche – si pensi solo alla crisi economica iniziata nel 2007 e durata in Europa 10 anni – ed i fallimenti dell’attività normativa e legislativa nel guidare in modo efficace i comportamenti del cittadino verso gli obbiettivi delle istituzioni democratiche – si pensi soltanto alla complessità e opacità dei nostri codici – hanno spinto i policy maker a cercare qualche soluzione alternativa agli inefficaci strumenti tradizionali. Lo sviluppo della economia comportamentale e della finanza comportamentale, in ambito accademico, soprattutto in campo microeconomico, si è riflesso nel suo utilizzo da parte delle aziende, delle istituzioni finanziarie e dei policy maker. Il diritto, soprattutto europeo ed in particolare italiano, non ha manifestato la stessa attenzione ed apertura. L’unica eccezione è da parte di quel diritto più integrato con l’analisi economica, come la disciplina del “diritto ed economia”.
Quali processi cognitivi sottendono il successo delle strategie e delle politiche utili al nostro benessere e alla nostra felicità?
Le premesse per una convergenza ed integrazione fra politiche pubbliche e scienze cognitive e comportamentali si trovano già in Herbert Simon. Premio Nobel per l’economia nel 1978 e padre fondatore delle scienze cognitive, aveva iniziato la sua carriera accademica da scienziato politico e le sue più importanti innovazioni le aveva introdotte studiando, nella tesi dottorato, il funzionamento del comune di Milwaukee. La più importante di tutte, il concetto razionalità limitata, prende origine proprio dallo studio della organizzazione pubblica come strumento per superare la limitazione cognitiva del singolo decisore umano. Cosa aveva riscontrato Simon? Che la divisone delle mansioni e l’emergenza delle routine organizzative sono fenomeni che permettono l’elaborazione di decisioni complesse da parte dei vertici amministrativi e politici. Il capo di una amministrazione politica ed i suoi consulenti, quando devono prendere una decisione di politica pubblica, sono soggetti a tutta una serie di limitazioni, nella raccolta di informazioni sul tema in oggetto, nella rappresentazione ed elaborazione delle stesse, nella messa a fuoco delle opzioni disponibili rilevanti e nella previsione dei loro effetti nel tempo. Una buona organizzazione permette di superare molti ostacoli, ma non tutti. Più il decisore pubblico ha, nella sua organizzazione, le competenze necessarie per calibrare la norma, in modo da scontare la reazione psicologica del cittadino a cui essa è rivolta, maggiormente riuscirà a raggiungere gli obbiettivi prefissati. Uno dei limiti della razionalità del decisore pubblico è, infatti più legata all’ambiente di scelta, che alle caratteristiche cognitive del soggetto. Questo limite sta, proprio, nella difficoltà ad avere le informazioni critiche per modulare la norma in modo che risulti psicologicamente efficace. Con informazioni critiche si intendono, in questo caso, le conoscenze sulle modalità comportamentali dei soggetti oltre che sulle condizioni iniziali di tipo economico, sociale e normativo. Cosa significa modalità comportamentali del soggetto? Significa la possibilità di conoscere dei profili di comportamento, abbastanza stabili, che potrebbero essere innescati dal cambiamento dei contesti e degli ambienti di scelta dell’individuo. Sulla base di queste conoscenze il policy maker potrebbe calibrare la norma in modo che raggiunga l’obbiettivo voluto. La strada aperta da Simon trova nello sviluppo del programma “Euristiche e Bias” di Daniel Kahneman ed Amos Tversky la risposta parziale a questa esigenza. Dagli anni’70 ad oggi Kahneman e fino alla sua scomparsa prematura Tversky, insieme ad un numero crescente di collaboratori e colleghi hanno sondato vari aspetti della cognizione umana, legata ai processi di giudizio e decisione.
Cosa afferma la teoria del «nudging»?
L’importanza degli automatismi mentali non era nuova. Negli stessi anni uno psicologo italo americano della Columbia University, Robert Cialdini, stava sviscerando i meccanismi psicologici alla base della efficacia del marketing. Sotto mentite spoglie, come “osservatore partecipante”, aveva cominciato a frequentare i corsi di formazione per venditori delle varie aziende di prodotti di consumo ed aveva appreso quanto le tecniche di marketing fossero avanzate nell’agire in modo sub liminare sugli automatismi decisionali delle persone, trasformandole in ignari clienti. Persuadere qualcuno a comprare qualcosa significa stimolare meccanismi automatici che, solitamente, l’individuo attiva nella vita sociale e che, spesso, hanno una funzione positiva per la sua capacità adattiva. Fenomeni come la reciprocità, la coerenza, la riprova sociale, l’autorità, la simpatia e la scarsità hanno una forza enorme che può essere manipolata dagli specialisti della persuasione per ottenere acquisti, donazioni, concessioni, assenso, voti, etc.. Ovviamente questi stessi automatismi possono essere utilizzati per finalità positive o negative per l’individuo. Possono essere uno strumento nelle mani di un sovrano illuminato come di un tiranno, di un benefattore come di un ladro.
Da questi contributi, a partire da Herbert Simon fino a Cialdini, Kahneman e Tversky, emerge il quadro di un essere umano che è in qualche modo limitato nella sua capacità razionale, è guidato da automatismi decisionali, cade in trappole e soffre di illusioni cognitive, è più inerte che attivo, più attento al “carpe diem” che ad investire nel futuro, etc.. Di fronte a un individuo, così mal fatto, non sembrano più sostenibili le pretese di autonomia e libertà di scelta dei fautori della teoria della razionalità economica. Se il cittadino dimostra di non essere in grado di perseguire il suo bene, allora deve essere aiutato e non lasciato solo ed abbandonato nella arena pericolosa e crudele del mercato: “Hic sunt leones”. Già nel passato la svalutazione delle capacità morali e razionali umane aveva sostenuto i fautori di forme di paternalismo più o meno coercitivo. In ogni codice moderno vi sono dosi di paternalismo coercitivo. L’obbligo delle cinture di sicurezza nelle autovetture o l’uso del caso in moto, le misure contro gli incendi o contro l’inquinamento o la proibizione del fumo della sigaretta nei luoghi pubblici e delle tante sostanze psicoattive, definite droghe, sono alcuni esempi delle inclinazioni paternalistiche coercitive dello stato. In questi casi il paternalismo è diretto e non fa sottili analisi sugli effetti reali di queste proibizioni. Non si chiede ad esempio se le proibizioni, con conseguenze penali relative, non producano effetti perversi contrari (aumento dell’uso, costo della repressione e creazione di economie illegali) e se, invece, sarebbe più economico ed efficace l’uso di forme di paternalismo più leggero che fanno appello ai nostri automatismi basati sulle euristiche o sulle regole sociali (ad es. fare leva sulla imitazione o sulla emulazione per rendere fuori moda un comportamento a rischio, come è successo per il fumo fra i giovani americani). Richard Thaler economista comportamentale di Chicago Booth e collaboratore di Tversky e Kahneman e Cass Sunstein giurista ad Harvard, molto attento agli aspetti comportamentali ed economici del diritto, iniziano nei primi anni del nuovo millennio a chiedersi che contributo serio poteva dare la psicologia alle politiche pubbliche. Thaler aveva iniziato già nel 1994, con un articolo breve dedicato alle politiche per il risparmio (1994), a cui seguì qualche anno dopo, a valle di una serie di esperimenti, il successo del programma comportamentale “Save More Tomorrow” (Risparmia di Più Domani). Questo programma aveva dimostrato come basandosi su una serie di propensioni naturali di tipo cognitivo, come l’avversione alle perdite, la miopia e “time discounting”, l’illusione monetaria, l’inerzia e lo status quo bias si poteva raggiungere importanti obbiettivi di natura sociale ed economica, come l’aumento della propensione al risparmio previdenziale. Da qui il passo fu breve ad estendere l’approccio comportamentale a tutta un’altra serie di politiche pubbliche. Thaler, Sunstein e tutta una serie di colleghi tra cui Shlomo Benartzi, Brigitte Madrian, Eric Johnson, Hersh Sheffrin iniziarono a sperimentare l’introduzione di soluzioni comportamentali nei diversi ambiti delle politiche ambientali, della salute, della compliance fiscale, del credito. Ciò che caratterizzava queste proposte non era solo il loro sofisticato design comportamentale. Anche gli incentivi economici o i divieti legali hanno al loro interno una logica, anche se spesso inadeguata, di tipo comportamentale. La caratteristica più innovativa era la loro dimensione paternalistica, cioè di spinta del cittadino a fare scelte che miglioravano il suo benessere, unita ad una esigenza di salvaguardia libertaria della sua autonomia di scelta. A questo ossimoro che escludeva, come strumenti di policy, l’”enforcing” ed in larga parte gli incentivi economici, si univano altre caratteristiche come il costo molto basso e la grande efficienza economica degli interventi, la filosofia “evidence-based” (basata sull’evidenza) delle misure introdotte, l’obbiettivo di cambiamenti graduali e di piccole dimensioni, nell’immediato, che producessero effetti aggregati maggiori sul lungo periodo. Nel 2008 esce il libro Nudge di Thaler e Sunstein che riassume tutte queste caratteristiche e che diventa, dopo un inizio difficile, un bestseller mondiale. Thaler e Sunstein volevano intitolare il libro Paternalismo Libertario. Il titolo, molto accademico e poco attento alla psicologia del marketing, sarebbe stato un pesante handicap per il libro. Per fortuna un editore, a cui erano state mandate le bozze e che rifiutò la sua pubblicazione, aveva suggerito di chiamarlo Nudge. Il libro venne accettato dalla Yale University Press che, però, lo trattò come un qualsiasi libro accademico. Come ci racconta Thaler nella sua autobiografia (2015), alla sua uscita nel 2008 fino al 2009 ne furono vendute poche copie, fino al passaggio alla Penguin Books che ne fece un successo internazionale. La fortuna del libro aumentò quando divenne la lettura preferita e consigliata da Primo Ministro britannico David Cameron ai deputati Tory per l’estate 2008. Con la formazione del governo di coalizione con i liberali, nel 2010, Cameron decise di mettere in pratica le tesi del libro creando il Behavioral Insight Team affidato a David Halpern e Owain Service, con la consulenza di Richard Thaler. Contemporaneamente una vecchia conoscenza di Cass Sunstein, ai tempi dell’università ad Harvard, Barach Obama vince, in maniera inaspettata, nel 2008, le elezioni di Presidente degli Stati Uniti e nel 2009 chiama Sunstein a dirigere l’”Office of Information and Regulatory Affairs” della Casa Bianca. L’obbiettivo è usare questo importante ufficio, dove tutte le proposte di legge vengono filtrate, per introdurre un po’ di sensibilità comportamentale nella loro stesura finale. All’inizio del secondo mandato di Obama, Sunstein ritorna ad Harvard, dove crea insieme a Max Bazerman, il Behavioral Insights Group (BIG). Obama istituisce alla Casa Bianca, sulla falsa riga del BIT di Londra, il Social and Behavioral Sciences Team (SBST). Insieme a questa iniziativa egli promulga due “Executive Orders” (l’ultimo nel 2015) per introdurre le scienze comportamentali nella organizzazione e nelle attività di policy della amministrazione federale americana. Il SBST, più piccolo del BIT, sotto la direzione di Maya Shankar, ha svolto, in ogni caso, un lavoro egregio, fino al Febbraio 2017, quando con l’arrivo di Donald Trump, la sua attività è stata sospesa.
Quali fattori intervengono a limitare la razionalità delle nostre scelte?
L’economia comportamentale ha preso il modello di razionalità economica come riferimento normativo e si sono confrontate le performance comportamentali umane, in vari contesti di scelta. Rispetto a quel “benchmark”, si è messa in luce una serie di errori, bias (definibile come errore cognitivo sistematico), pregiudizi ed effetti, soprattutto nel giudizio statistico e nel calcolo della probabilità. Questi errori si sono sommati a quelli rilevati in modo separato da altri psicologi nel ragionamento deduttivo, come il “pregiudizio di conferma”, ed a vari fenomeni di disturbo decisionale legati alla sfera emozionale ed affettiva. Ciò ha dato una rappresentazione a tinte fosche della razionalità umana. Si è constatato in questo modo una regolarità, legata alla attivazione di meccanismi naturali di decisione semplificata, chiamati euristiche, responsabili, il più delle volte, di risposte sub ottimali da parte dell’individuo. I risultati empirici sono stati ottenuti in test sperimentali, prevalentemente astratti, su campioni rappresentati soprattutto da studenti dei college americani. Una delle regolarità più importanti è stata la scoperta di come l’individuo tratta il rischio in rapporto a situazioni di guadagno e perdita e di come vengono pesate le probabilità estreme rispetto a quelle medie. La Teoria del Prospetto è il risultato più importante di questo lavoro e l’alternativa più forte alla teoria della utilità, di stampo neoclassico. Con questi risultati si sono messi in luce vari “pattern” comportamentali stabili, di tipo automatico, legati al contesto. Il più significativo sembra l’effetto “framing” (incorniciamento) che dimostra come l’individuo sia influenzato in modo evidente da come vengono presentate le informazioni ed in base a questa cornice la sua decisione sarà più o meno propensa al rischio.
Quali modifiche hanno apportato le più recenti scoperte delle scienze comportamentali alla teoria del «nudge»?
A riguardo si possono fare tre riflessioni sulle basi concettuali della teoria del nudge. Quella di fondo ha a che fare con il concetto stesso di razionalità limitata. Come è espresso bene dalla metafora delle forbici di Simon (1955), la limitazione non deve essere vista in astratto rispetto a norme formali della probabilità, della logica e della teoria dell’utilità, ma rispetto alla capacità di soluzione di problemi all’interno dello spazio del problema ambientale. Cioè, la razionalità limitata nasce dalla convergenza della prima lama, quella delle caratteristiche cognitive della mente umana, nella sua attività di giudizio e decisione, con la seconda lama, quella caratterizzata dall’ambiente di decisione, con tutte le sue incertezze e complessità. Limitato non significa però inadeguato nella sua capacità di “tagliare-decidere”, come sembrerebbe dalla tesi dell’economia comportamentale. L’economia comportamentale, a cui fanno riferimento Thaler e Sunstein, non si pone il problema della capacità di problem solving adattivo caratteristico invece della tesi iniziale di Simon. Ci possono essere, infatti, decisioni che sono scorrette da un punto di vista formale normativo, ma che funzionano in un dato ambiente e che quindi sono adattive ed ecologiche. La psicologia evoluzionista (Cosmides and Tooby, 1996) ci mostra molte di queste situazioni, in cui l’uomo primitivo commetteva errori di tipo normativo, come il negare la legge dei grandi numeri od il principio di verità, a vantaggio però della sua capacità di sopravvivenza. E il lavoro del gruppo di Gerd Gigerenzer e dei suoi colleghi del Max Planck Institut di Berlino, sulla capacità adattiva di una serie di euristiche semplici, frugali e veloci lo sta a dimostrare (Gigerenzer, Todd, et al., 1999).
La seconda riflessione collegata è che, quando gli economisti comportamentali parlano di razionalità od irrazionalità, tendono a riferirsi a norme che possono essere efficaci in situazioni di rischio, cioè quando sono chiare le alternative e la relativa stima di probabilità da attribuire loro. Pensiamo, ad esempio, al lancio di un dado o alla roulette di un casinò. In questi casi le leggi della statistica e del calcolo della probabilità sono applicabili e, quando le alternative non sono molte, una mente ben educata ha la possibilità di elaborare decisioni cosiddette razionali. Il problema però è che la maggior parte dei casi, in cui l’individuo sceglie, non sono in condizioni di rischio, ma di incertezza. In queste situazioni non possiamo prevedere tutte le opzioni e le alternative future. È verosimile, infatti, che ci possano essere sorprese, non prese in considerazione. Inoltre, anche se pensiamo di potere enumerare le alternative verosimili, non saremo in grado di attribuire loro delle stime di probabilità, in quanto non abbiamo dati passati od un adeguata frequenza di base di riferimento che ci permettano di fare stime di probabilità posteriore. In queste situazioni, che sono la maggior parte della nostra vita reale, sembra poco razionale applicare gli algoritmi della razionalità. Sembra più razionale, invece, a livello adattivo, rispondere con la decisione euristica, cioè con procedure non analitiche ed imprecise, ma veloci e semplificate (Gigerenzer and Gaissmaier, 2011; Gigerenzer, 2015). Perciò quando gli economisti comportamentali stigmatizzano come irrazionale il mancato adeguamento ai canoni probabilistici e logici della decisione, in situazioni di incertezza, non considerano, in primo luogo, l’impossibilità del giudizio canonico in queste situazioni ed in secondo luogo la scarsa capacità predittiva degli algoritmi razionali quando si cerca di applicarli in questi contesti. Paradigmatico è il caso del premio Nobel per l’economia Harry Markowitz, famoso per avere elaborato il “mean-variance portfolio” per gli investimenti finanziari. Markowitz, nel momento di scegliere quale investimento per il suo “Trattamento di Fine Rapporto”, invece di applicare il suo algoritmo, si basò, con successo, sulla molto più elementare euristica 1/N. Essa divide un investimento in modo uguale per tutte le opzioni finanziarie ed azionarie a disposizione.
Il terzo punto ha a che fare con alcuni dei principali bias automatici che gli economisti comportamentali pongono come prova della necessità di venire in soccorso paternalistico attraverso opportuni nudge ed architetture delle scelte. Molti di questi bias si producono in situazioni sperimentali, spesso svuotate del significato pragmatico che si riscontra nella vita reale. In questi contesti artificiali, con domande prive di significato reale, spesso i soggetti tendono a commettere errori ed inesattezze formali. Gli stessi ambiti di ragionamento riscontrati in una dimensione decisionale reale non portano alla stessa sistematica irrazionalità formale.