
Il 1419 vide così un Patriarca tedesco, Ludovico di Teck, guidare un esercito composto per la maggior parte di uomini armati inviati da feudi e comunità friulane fedeli al Patriarcato nonché da un massiccio contingente ungherese. Ma la situazione presto degenerò. Il Teck rimase da solo, abbandonato da molte importanti città friulane che preferirono chiedere a Venezia condizioni favorevoli di pace piuttosto che rischiare la sorte di chi, opponendo resistenza, incorreva nella ferocia degli aggressori. Il 9 giugno del 1419 Nicolussio conte di Prata aveva sconfitto a Bannia i Veneziani, uccidendo 200 uomini e catturandone più di 700, ricevendo l’aiuto di uomini armati inviati n suo soccorso dalla comunità di San Daniele. Nel frattempo gli Udinesi avevano catturato quattro fanti veneziani, li avevano ferocemente squartati infilzandone le membra sulle picche che posero sopra gli spalti delle mura cittadine. Per rappresaglia trenta friulani vennero decapitati dai veneziani, e venti donne, che erano state fatte prigioniere, andarono incontro allo stesso terribile destino. Non basta. L’11 luglio la comunità di Cividale, città simbolo dello schieramento filoimperiale e vicinissima politicamente al Patriarca, si dichiara disponibile a trattare con i Veneziani, che forti di questa defezione il 14 agosto cingono d’assedio Sacile con quattro bombarde e costringono la città alla resa. I fatti si susseguono velocemente: il 21 agosto i Signori di Porcia trattano per la difesa del castello; Aviano viene conquistata e bruciata, il suo castello reso del tutto inservibile, in modo tale da impedire alle truppe ungheresi di utilizzarlo come presidio difensivo. Il 23 agosto si arrende anche Caneva. Tra tutte le comunità quella di Prata dimostra una capacità di resistenza straordinaria, tanto che il 23 settembre le truppe del generale veneziano Arcelli vengono fermate dalla strenua resistenza di Prata, il cui castello è difeso dal suo signore Niccolò e dal nipote Guglielmo; dentro le mura si è asserragliata anche una compagnia di ungheresi. Palizzate di legno erette per l’occasione rafforzano il circuito delle mura. Ma le piogge intense di quei giorni permettono a una grossa peata veneziana di accostarsi superando le palizzate e costringendo Prata alla resa. Fatti salvi gli averi e le persone, il luogo viene raso al suolo e i suoi signori costretti all’esilio. Tra il gennaio e il febbraio lo stesso Ludovico di Teck abbandona le terre del Patriarcato, non tanto per scappare quanto piuttosto nell’ultimo, disperato tentativo di mettere insieme un nuovo esercito imperiale e ridiscendere alla sua testa per cacciare in laguna i Veneziani. Ma le truppe della Serenissima nella primavera del 1420 riescono a consolidare le conquiste e si guadagnano la dedizione di quei signori feudali che avevano da sempre appoggiato il Patriarcato. È la fine. Tristano Savorgnan ottenne la resa di Udine il 4 aprile 1420, il giorno del Venerdì santo e due mesi dopo, il 6 giugno, fece il suo ingresso trionfale nella città. La Patria del Friuli era definitivamente caduta in mano veneziana.
Quali timori inquietano Lodovico di Teck, l’ultimo Patriarca in temporalibus protagonista del dramma?
Il Patriarca sente che la Patria è caduta per sempre. Si duole per l’ingratitudine di tutti coloro che hanno goduto della sua generosità e della sua bellezza, e che ora restano indifferenti, quando addirittura non si fanno complici del suo destino. Ricorda il manto di Bertrando, il Patriarca assassinato alla Richinvelda nel 1350, e ora gli pare che le trame oscure del “tristo Tristano, cupo signore dei Savorgnan”, lo insozzino ancora di sangue innocente, dopo aver condannato alla stessa sorte innumerevoli villaggi, borghi, granai, rocche e alte mura. Si immagina che il nobile appartenente alla potentissima famiglia udinese da sempre collusa con Venezia si trasformi in un secondo Attila, pronto a godersi ancora l’incendio di Aquileia. Avverte il silenzio perfino di quel “Dio nel quale noi crediamo, mutus atque absconditus, morto sulla croce e non ancora risorto, in questa notte di tenebra che non accenna a fugare i suoi drappi luttuosi”. Sa bene, Lodovico, che nulla di ciò che è stato potrà più tornare. Eppure quello che più lo tormenta è la consapevolezza che forse la colpa è ben più antica. “Venezia fu come la iena che incide la vena ad un cervo morente”, sussurra. Quali i mali della Patria? L’orgoglio, la brama di ricchezza, la cupidigia “del mercadante”. Condanna con asprezza la distorsione degli antichi valori, il fatto che Marco di Alessandria, primo evangelizzatore della terra Friulana, sia stato sostituito dalla “marca” di Aquileia, ovvero la moneta in circolazione a quel tempo. E continua deprecando il fatto che l’astuzia sia stata coltivata più della saggezza e la bellezza più della virtù: “Non la scuola! Irridemmo il tedio dei precettori, il tempo che impone la ragionata lettura, la fatica dell’imparare, che è lenta e devota. Ci fu sempre più odiosa la severità della voce che ammaestra con l’amorevole fermezza di chi punisce soltanto se ama. Optammo piuttosto per la vivace bottega, il facile guadagno, la scarsella imbottita tintinnante d’argento, sacculum plenum apud culum obscenum. La taverna ci piacque più della biblioteca, il meretricio preferimmo all’amore, lasciando così che languissero in disgraziato esilio tutte le Muse”. E dunque giunge a triste conclusione che se Venezia fu il boia: “quando sferrò il colpo mortale noi eravamo già morti”.
Come si dipana l’omelia del Patriarca agli Aquilegenses?
Chiuso nelle profondità della Cripta, sotto alle radici profondissime della Basilica di Aquileia, avverte il tempo, il mistero della Storia, il senso prodigioso dell’attesa. È la lunga notte che separa il venerdì santo dalla Pasqua di resurrezione. Un tempo fondativo nella liturgia antica aquileiese. Nel buio assoluto di una sospensione estrema attende che il primo lucore, ad oriente, annunci la Resurrezione del Cristo, che da crocifisso era disceso agli Inferi portando in salvo tutte le anime dannate imprigionate in quel carcere osceno, perfino quella del Nemico, il Demonio. Dal momento che non può esserci gioia piena e perfetta se anche uno, uno soltanto, ne viene escluso. È la discesa di Cristo negli inferi, che il Symbolum di Aquileia continuò a professare per secoli, anche in contrapposizione a quello apostolico, il quale espunge proprio tale riferimento alla catabasi. Il Symbolum di Aquileia è giunto fino a noi in virtù del commento che ne fece Rufino vescovo di Concordia (345-411), noto quale autorevole studioso dei padri orientali nonché per aver interpolato la Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea: “Credo in Dio Padre onnipotente e in Gesù Cristo unico Figlio suo nostro Signore, che è nato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine, crocifisso sotto Ponzio Pilato e sepolto, discese agli inferi, il terzo giorno è risorto, e asceso al cielo, siede alla destra del Padre: di lì verrà a giudicare i vivi e i morti; e nello Spirito Santo, la santa Chiesa, la remissione dei peccati, la resurrezione di questa carne”. Mentre i suoi pensieri intridono la terra, avvertono in un vortice panico e cosmico il respiro del Mondo, le sue stagioni, l’alito del tempo; il patriarca invoca i quattro punti cardinali e offre loro i doni della Terra. Benedice il Fuoco e con lui l’Oriente, la regione in cui per prima deflagrò la meraviglia della prima luce. Benedice l’Aria, e con lei il Settentrione, la regione gelida dell’Orsa che rivela “la verità delle strade, la scia liquida di ogni rotta”. Benedice la Terra e in essa il Meridione fecondo, “il pane, la fragranza della farina, l’oro della spiga. Poiché in esso è impastato tutto ciò che è santo: il tepore del forno, l’umore della fonte, il calore del sole, il profumo dell’erba recisa, la sapienza del sale che addomestica il sapore”. E in una commozione che pare una rapsodia rende grazie per l’olio “che nutre la lucerna, conserva gli alimenti, protegge il corpo degli atleti, suggella con il sacro crisma gli occhi e la bocca, il naso, le orecchie, le mani e i piedi, la fronte tanto dei viventi quanto dei morenti”. E con esso anche il vino, “stillato dal legno antico della vite, albero di vita, via di ogni verità, grappolo turgido che fermenta con tutte le sue rugiade, e che restituisce al cuore degli uomini la santità di un’ebbrezza onesta, salvifica e buona”. E da ultima benedice anche l’acqua e con essa l’Occidente, “acqua che monda, stilla che disseta la corolla […] Linfa trasparente del Mondo […] vena che sgorga viva, intride lo stelo, diventa rugiada che la prima luce raccoglie ed inciela. Vapore sottile, alito di preghiera che sale. Salvezza di intatta bellezza. Acqua battesimale”.
Quale vivido parallelismo corre tra il testo e l’attuale emergenza sanitaria?
Questo testo mi è stato commissionato da Massimo Somaglino, grande interprete, attore e autore di questa nostra terra friulana, che mi onoro di conoscere e di stimare. Era l’inizio della terribile pandemia, gli ultimi giorni del febbraio 2020, quando ho cominciato a scriverlo. Il Mondo sembrava rinserrarsi in una specie di incubo fatto di desolazione, solitudine e paura. Avevo la sensazione di essere chiuso dentro ad un chiostro, più che ad una prigione. Mura che mi traevano in salvo dall’orrore del Male. Gli spazi di casa rispondevano ai miei passi in un silenzio surreale. Ma gli scaffali della libreria erano per me infiniti varchi, che promettevano fughe in altrettanti mondi. Dalle finestre si squadernava un Multiverso in attesa della sua Resurrezione, con i primi deboli fremiti della terra al risveglio dal rigore invernale. La scrittura, il suo ritmo lento, mi hanno permesso di scivolare piano dentro ai pensieri di Lodovico di Teck. E un po’ alla volta ho capito che insieme stavamo vivendo un tempo assai simile. Entrambi ci trovavamo sull’orlo delle cose, circondati dall’abisso. Così, la prima cosa che ho fatto, è stata tradurre in latino quelle parole lugubri che i megafoni lasciavano cadere tutt’intorno: “Exortamus populum totum ad praescritionem obtemperandam, ut venenum novum contineatur. Prohibitae sunt turbae. Necesse est omnibus domi manere atque exire tantum ad opus necessarium faciendum vel salutis causa vel ad copiam cibi atque remedia sanitatis conficiendam”. Ce le ricordiamo bene, e difficilmente le dimenticheremo: “Esortiamo la popolazione tutta ad attenersi scrupolosamente alle prescrizioni per il contenimento del nuovo virus. Sono vietati gli assembramenti di persone. È fatto a tutti obbligo di restare a casa, uscendo solamente per motivi strettamente necessari quali la salute, il rifornimento alimentare o di medicinali.” Eppure in latino potevano sembrare la voce di un banditore. E poi, nella estenuante cadenza della loro assurda ripetizione, diventavano invece un pensiero ossessivo: il mio e quello del Patriarca. Ho così provato ad immaginare che la sua prima apparizione nel testo fosse paludata da tutte le sue insegne di potere, spirituale e temporale. Simboli, turiboli, anelli, mitrie, mantelli…che ad uno sguardo più attento potevano anche sembrare saturimetri per l’ossigeno, tute isolanti, guanti di lattice, mascherine chirurgiche. Nel corso della narrazione Lodovico piano si spoglia di ogni orpello. Lascia che cadano in terra. Alla fine rimane quasi nudo, indifeso. Uno come me, ho pensato. Come ciascuno di noi. Preso dalle sue paure, annichilito dall’impotenza di fronte a una realtà immane, troppo grande anche per un Patriarca. Immaginarsi per un uomo.
Quali semi di speranza offre l’allocuzione patriarcale?
Come canta anche l’Ecclesiaste, “c’è un tempo per ogni cosa”. Lodovico sa perfettamente, da straordinario esegeta qual è, che c’è “un tempo per morire e un tempo per vivere”. E dunque anche il male che ci opprime oggi un giorno sarà solamente il ricordo di un dolore. Anche questa notte fredda e buia che ci toglie il respiro lenta si dissiperà. E allora “le campane di ogni villa annunceranno finalmente la nostra Pasqua di resurrezione con voce di bronzo […] E finalmente liberi da questa clausura quadragesimale correremo nelle vie e nelle piazze che ora ci sono precluse, e ci abbracceremo come mai ci siamo abbracciati. Dissipato questo veleno che ora ci uccide, o spaventati ci costringe a restare rinchiusi nei ricetti segreti dei nostri cenacoli, finalmente potremo uscire di nuovo ad incontrare la vita, che già pulsa, palpita e risplende là fuori, aspettando solo noi. E tutti, donne e uomini, saremo come rinnovati nel destino di un’Umanità migliore. La nostra”.