
Che metodo adottano e di quali strumenti si servono i futures studies per prevedere e anticipare il mondo di domani?
L’aspetto quantitativo non è del tutto scomparso, ma oggi c’è la consapevolezza che di per sé non è in grado di fornire previsioni più affidabili. Lo sviluppo della big data analysis, per esempio, permette ai decisori di avere un quadro molto più preciso dei fenomeni studiati grazie al fatto che si possono estrapolare dei pattern, ossia degli schemi o tendenze, da grandi quantità di dati, che in virtù di ciò costituiscono un solido punto di partenza. Ma l’analisi dei trend richiede anche metodi qualitativi, che riguardano la ricerca di segnali deboli tra le informazioni di cui siamo quotidianamente bombardati, e di fenomeni emergenti: questo lo si può fare con il classico metodo Delphi che coinvolge esperti di determinati settori, oppure con metodi partecipativi come la “ruota dei futuri” per identificare potenziali impatti secondari di eventi o fenomeni; ma ci sono anche molte tecniche più raffinate, come il Megatrend Impact Assessment sviluppato dalla Commissione europea. Il Millennium Project ha sviluppato un indicatore composito, lo State of the Future Index, che sintetizza periodicamente l’evoluzione di 15 sfide globali rispetto alla capacità della governance mondiale di affrontarle- Dopodiché si tratta di elaborare scenari, e per questo esistono molteplici metodi sviluppati da diverse scuole di pensiero. Gli scenari non sono previsioni, ma “immagini” di futuri possibili attraverso i quali è possibile assumere decisioni informate e sviluppare strategie di lungo termine.
In che modo i futures studies possono contribuire a trasformare il mondo?
Mentre la prima parte del libro, “occuparsi del futuro”, è una storia dei futures studies e della loro evoluzione, la seconda, “preoccuparsi del futuro”, si concentra sul grande sforzo del Club di Roma che, nel 1972, portò al rapporto The Limits to Growth, che per primo indicò i rischi di una crescita economica continua in un mondo di risorse finite. Quello studio, ancora oggi validissimo, mostrava già la necessità di passare da un’analisi avalutativa dei futuri possibili a un nuovo approccio più normativo, il cui fine è l’individuazione del cosiddetto “futuro preferibile”, lo scenario migliore che vogliamo realizzare. Questa parte del libro affronta anche tutto il recente filone dello studio dei rischi esistenziali, che ci fanno riflettere su quanto l’umanità stia rischiando oggi principalmente a causa di un’accelerazione non governata: rischiamo la catastrofe non tanto per motivi indipendenti da noi (l’esempio più tipico è quello messo di nuovo in scena di recente dal film Don’t Look Up, ossia essere colpiti da un asteroide), ma per cause “antropogeniche”, ossia prodotte dall’Uomo. La sesta estinzione di massa è già in corso e le sue implicazioni per la nostra sopravvivenza sono inquietanti; il cambiamento climatico minaccia la tenuta stessa della civiltà; a questo si aggiungono altri temi, come i rischi legati all’avvento di una superintelligenza artificiale non allineata ai nostri fini e valori. Questi sono i temi su cui si concentra molta della ricerca moderna nei futures studies.
Ma è nella terza parte del libro, “occupare il futuro”, che cerco più precisamente di rispondere alla domanda su come i futures studies possono contribuire a trasformare il mondo.
Quali megatrend, a Suo avviso, sono destinati a caratterizzare e condizionare in misura maggiore il futuro del mondo?
L’Italian Institute for the Future, l’organizzazione che dirigo da quasi dieci anni, monitora costantemente 20 megatrend globali, oltre a una serie di fenomeni emergenti ogni anno. In Occupare il futuro mi sono concentrato su quelli che ritengo più determinanti. Il primo è l’Antropocene, l’insieme delle trasformazioni della biosfera prodotte dall’Uomo, di cui i cambiamenti climatici sono l’aspetto più evidente, ma non l’unico: il tema comprende l’ipertrofico aumento del “peso” della nostra civiltà sulla biomassa terrestre, che produce una pressione selettiva tale da condurre all’estinzione migliaia di specie, così come l’esaurimento delle risorse e la devastazione ambientale. In Occupare il futuro sostengo che per affrontare l’insieme di questi problemi occorra quello che alcuni hanno chiamato “conversione ecologica”, che parte da un ripensamento completo dei rapporti tra mondo umano e non-umano, in cui la Terra non assume significato solo in termini utilitaristici per la specie umana, ma in quanto habitat dove convivono specie diverse (animali e vegetali) ciascuna con finalità diverse dalle nostre, nei cui confronti dobbiamo mostrare più rispetto.
C’è poi tutto il tema della digitalizzazione, in particolare la concentrazione di potere da parte dei GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) e dei BATX (Baidu, Alibaba, Tencent, Xiaomi), che attraverso ideologie distorte stanno di fatto arrivando a controllare l’universo digitale. Ciò costituirà un problema ancora più grande quando si avvererà la prospettiva del metaverso, la next big thing del digitale, l’evoluzione prossima ventura di Internet. A quel punto i margini di manovra dell’utente saranno quasi nulli. A ciò si associa la corsa all’intelligenza artificiale, anch’essa sempre più oligopolistica. Qui il discorso è ancor più prospettico, perché a prestar fede alle narrazioni futuristiche dei titani tecnologici e dei loro guru saremmo vicini alla cosiddetta “singolarità tecnologica”, il momento in cui l’intelligenza artificiale supererà in capacità l’intelligenza umana: a quel punto diventa impossibile fare previsioni su questo futuro post-umano. È chiaramente insito qui il pericolo di una disumanizzazione, ciò che C.S. Lewis chiamava “l’abolizione dell’Uomo”, che potrebbe avere per esito finale l’estinzione stessa della nostra specie: se non a causa di una superintelligenza artificiale non allineata con i nostri valori, sicuramente a causa di una pressione selettiva dell’evoluzione dell’intelligenza che vedrà l’Homo sapiens cedere il passo a una nuova specie postumana così come i Neanderthal cedettero il passo alla nostra specie. Anche in questo caso dobbiamo immaginare soluzioni che, senza sfociare nel luddismo, mettano questi progressi al servizio del benessere umano e non di pochi.
È la prospettiva dell’accelerazionismo, che sposo nel mio libro. Ciò risulterà evidente ai lettori soprattutto nel capitolo intitolato “Come lasceremo Fordlandia”, dove analizzo uno dei megatrend più rilevanti per il nostro presente: l’automazione del lavoro e la conseguente disoccupazione tecnologica. La mia ipotesi, in linea con quella di molti studiosi del settore, è che di fronte alla crescita dell’automazione la vera sfida non sia creare nuovi lavori, ma immaginare un futuro post-lavoro in cui la condizione umana venga completamente ripensata, poiché – come già profetizzava John Maynard Keynes – saranno le macchine a lavorare per noi. È una sfida per il XXI secolo che dobbiamo abbracciare se davvero vogliamo assumere una prospettiva lungimirante.
Infine, nell’ultimo capitolo affronto due megatrend che mi sembrano implicitamente uniti: quello del declino demografico e quello dell’espansione umana nello spazio. A lungo i futures studies si sono occupati dei pericoli della sovrappopolazione, potremmo persino dire che siano in parte nati per affrontare questo problema. Oggi, anche se è evidente ancora a pochi, il vero problema sul lungo termine è il declino demografico: le nostre società non sono attrezzate per una popolazione in calo, l’economia di mercato si bassa sul presupposto che la popolazione non possa che aumentare. Come ripensare il nostro futuro in una fase di calo demografico sempre più marcato? Questo riguarda anche il tema dello spazio: all’epoca si parlava della colonizzazione spaziale come un imperativo, perché occorreva nuovo “spazio vitale” per una popolazione in crescita esponenziale. Oggi, venuto meno questo bisogno, come possiamo giustificare l’impresa umana nello spazio? Come possiamo ripensarla senza caricarla di quegli stessi concetti negativi che stanno distruggendo il nostro pianeta, ossia sfruttamento, estrazione, colonizzazione?
Occupare il futuro è in conclusione un invito a cercare soluzioni nuove a questi megatrend e ai problemi che comportano, attraverso un radicale ripensamento del ruolo dell’essere umano nel futuro che ci attende.
Roberto Paura è presidente dell’Italian Institute for the Future, co-fondatore dell’Associazione dei Futuristi Italiani, direttore di Futuri. Rivista italiana di futures studies. Come giornalista scientifico e culturale collabora con diverse testate ed è vicedirettore di Quaderni d’Altri Tempi e membro del comitato di direzione di Futura Network.