
In che modo le biblioteche possono riaffermare la loro vocazione di conservazione e diffusione della conoscenza?
La custodia della memoria è un fattore determinante per l’identità sociale e per il profilo culturale di una comunità. Le biblioteche, dal canto loro, costituiscono lo specchio culturale e storico della stessa, come aveva già intuito nell’Ottocento il mitico direttore della biblioteca del British Museum, Antonio Panizzi, per il quale esse rappresentano ogni aspetto della vita e del pensiero di una comunità e sono la vetrina della nazione stessa.
La vocazione tradizionale della biblioteca è quindi quella di recuperare il passato del mondo umano, di riproporlo nel presente e di offrire nuove prospettive. Il libro è un veicolo indispensabile a questo scopo, perché costituisce un’eredità per le generazioni successive, che va custodita e salvaguardata dall’incuria e da una possibile distruzione. Dobbiamo essere consapevoli che perdere il libro significa perdere la memoria e la continuità del pensiero umano. Pensiamo alle distruzioni delle biblioteche avvenute nel passato e anche di recente: all’incendio della Biblioteca di Alessandria, alla distruzione dei templi del Nilo, alla distruzione degli antichi papiri di Karnak e Luxor e dei preziosissimi rotoli di Ramesseum; pensiamo alla recente distruzione della Biblioteca di Sarajevo e ai saccheggi recenti di luoghi di cultura nel Medio Oriente. Tutto questo altro non significa che la perdita della memoria e della continuità del pensiero stesso.
Il celebre romanzo di fantascienza Fahrenheit 451 è ambientato in un imprecisato futuro posteriore al 1960 e descrive una società distopica in cui leggere o possedere libri era considerato un reato. Ogni libro, per editto superiore, doveva essere messo al rogo addirittura da un apposito corpo di vigili del fuoco. L’autore del libro che ha ispirato il film, Ray Bradbury, fu inorridito da giovane dal rogo dei libri perpetrato dal regime nazista e dalla campagna politica di repressione messa in atto da Stalin durante le “Grandi purghe” contro poeti e scrittori. Ma c’è sempre una via d’uscita, una “catarsi delle rovine carbonizzate della storia”: nel testo di Bradbury un gruppo di uomini, fuggiti dalla società oppressiva, imparò a memoria numerosi testi letterari andati ormai perduti, cosicché la memoria storica e letteraria dell’umanità poté essere salvata.
Qualcosa di simile lo devono fare le biblioteche.
Le biblioteche sono oggi chiamate a ripensare se stesse: quali sono le principali sfide alle quali rispondere?
Direi che la sfida principale è quella dell’era digitale. L’invenzione dei caratteri mobili e del torchio di stampa per opera di Johannes Gutenberg fu un’autentica rivoluzione, in quanto segnò l’avvio dell’industria editoriale con l’avvento delle prime tipografie italiane nei monasteri benedettini e cistercensi: vere e proprie fucine di copisti e miniaturisti di incunaboli, Aldine e testi vari. Se si osserva l’evoluzione impressionante delle moderne tecnologie: Internet nel 1974, Web nel 1991, Google nel 1998, fino all’esplosione attuale del digitale (ebook, e-text, smartphone, ecc.), ci rendiamo conto che la vita stessa del libro cartaceo è messa seriamente in questione. Le domande che ci dobbiamo porre al riguardo sono suppergiù le seguenti: nell’era digitale il libro resisterà, andrà in crisi o addirittura rinascerà a nuova vita? Internet sarà la nuova biblioteca di Alessandria o un’incarnazione alienante e distopica della biblioteca di Babele?
Dick Brass, già responsabile dell’edizione elettronica di Microsoft, ha predicato che fra trent’anni il libro è destinato a sparire; e con lui altri studiosi. È questo il triste destino che attende il libro?
Certamente il mondo digitale ha travolto le nostre giornate: ci alziamo e apriamo la posta elettronica, consultiamo le previsioni del tempo attraverso la sfera dell’ultimo smartphone alla moda, “chattiamo” e “smssiamo” mentre parliamo, mangiamo, ci muoviamo… Di tutto ciò facciamo fatica a farne a meno. Ma nel contempo più si dilata il cyberspazio, più si ampliano i problemi che esso porta con sé: chi sono io nello spazio digitale? Chi sono gli altri? Che natura hanno le relazioni tra di noi all’interno di questo mondo? Sino a quanto siamo padroni della nostra esistenza, noi “coloni” e “immigrati digitali”, sempre più confrontati con i cosiddetti “nativi digitali”?
Qualche anno fa, lo studioso americano Roy Tennant, propugnatore della biblioteca digitale, scrisse che per ovviare alla scarsa visibilità delle biblioteche, occorre lavorare in cooperazione e trovare delle soluzioni a vantaggio di tutti, esattamente come si è fatto con il sistema MARC che ha risolto il problema dell’interscambiabilità dei dati catalografici fra tutte le biblioteche. In quest’ottica, la biblioteca digitale potrebbe diventare un’infrastruttura essenziale, più ampia di ogni singolo istituto e di ogni singolo sistema, a condizione che si mettano in comune le competenze ovunque esse si trovino e le risorse dovunque siano reperibili. Per questa via, secondo Tennant, sono pure richieste nuove competenze per creare e gestire le raccolte e i servizi della biblioteca, quali la conoscenza delle tecnologie delle immagini, il riconoscimento ottico dei caratteri, i linguaggi di marcatura, la catalogazione con i metadati, le tecnologie di indicizzazione, la progettazione di interfacce per gli utenti, un’adeguata programmazione, le tecnologie del web, la gestione dei progetti. Tutte competenze che sono ben lungi dall’essere evase nelle nostre biblioteche.
Al cospetto delle caratteristiche del mondo contemporaneo più sopra menzionate, diventa inevitabile affrontare la tematica del digitale senza preconcetti, né euforia, ma come una nuova opportunità con cui confrontarsi. Mettiamola così: i contenuti digitali hanno ormai raggiunto una dimensione impressionante come rivelano le pubblicazione dell’OCDE: si parla di cifre da capogiro che si avvicinano al triliardo di byte (1 zettabyte), una cifra che supera ampiamente i contenuti di tutti i libri finora scritti. Una domanda sorge spontanea a questo riguardo: le biblioteche possono fare a meno di questa infinità di dati? Lungi da me dallo sposare le tesi dell’inventore della metafora “nativi digitali”, Marc Prensky, secondo cui grazie al digitale l’uomo può acquisire una saggezza (Visdom) superiore; tuttavia la possibilità di poter accedere a database e algoritmi che raccolgono grandi quantità di dati è un fatto da non trascurare, soprattutto se pensiamo che informazione equivale potere.
Sua è la proposta di una Biblio@rete: di cosa si tratta?
La mia proposta di una nuova denominazione delle biblioteche è un po’ provocatoria. Alla luce di quanto detto più sopra, la denominazione tradizionale di biblioteca, con il significato etimologico di “deposito di documenti”, appare piuttosto superata alla luce dell’evoluzione intercorsa. In Francia, ad esempio, la si è abbandonata sostituendola con “mediateca”, sembra con successo; nel mondo anglosassone ricorrono sempre più nuove terminologie quali: “information commons” e “learning commons”, per sottolineare l’esigenza di integrazione delle convenzionali funzioni bibliotecarie con quelle dell’apprendimento e dell’insegnamento. La mia proposta vuole essere un invito ad approfondire maggiormente l’imprescindibile collegamento delle informazioni nella rete universale. Come sottolineo nella mia nota conclusiva al volume: “Tuffarsi in essa, guidati dalle biblioteche, potrebbe salvarci dal naufragio”.
Quale futuro per le biblioteche?
Condivido l’ottimismo di Darnton: “Le biblioteche sono sempre state e sempre saranno centri di studi e di cultura”. Tuttavia al giorno d’oggi sono apparse alcune questioni che arrischiano di vanificare gli sforzi delle istituzioni; alludo agli aspetti di autenticità, validità e affidabilità dell’informazione; ai grandi monopoli del sapere che si spartiscono quotidianamente il mercato: Amazon per la vendita, Apple per la connessione, Google per la ricerca, Facebook e Whatsapp per la comunicazione; e alle questioni legali sempre dietro l’angolo. Preoccupa inoltre l’accertata tendenza degli studenti di ogni livello di formazione a non considerare la prospettiva complessa e rigorosa insita in ogni ricerca seria, che richiede valutazione ed elaborazione critica delle informazioni e non accettazione senza discernimento di ciò che Internet propone.
Forse, a ben guardare, le biblioteche possono ancora avere un ruolo importante nella nostra società, a condizione che si pongano in una prospettiva di “alfabetizzazione informativa”, perfettamente in linea con la loro tradizione. Esse devono potersi proporre nella funzione di chi possa aiutare, per competenza specifica, a districarsi fra i meandri delle risorse cartacee e digitali disponibili (che sono tante), come stimolo e promozione nei confronti dei cittadini, al fine di consentire loro un accesso equo e senza vincoli alle risorse di Internet, favorendo così un accrescimento delle loro abilità e competenze. La sfida informativa oggigiorno, come afferma nel suo contributo Laura Ballestra, “passa da un lato dal saper riconoscere i documenti nella loro complessità e varietà, per scegliere quelli che sono sufficientemente significativi da consentire un’analisi di un tema non banale; dall’altro dal riuscire a rapportarsi ai testi in modo da considerarli un punto di partenza, non di arrivo, laddove l’arrivo è sempre l’apprendimento che nasce dall’interrogarsi intorno a un testo, dal formulare ipotesi, trovare risposte e produrre un proprio testo, in qualunque forma espressiva”. Questo è il ruolo che io auspico per le biblioteche, non solo verso l’utenza adulta, ma anche e soprattutto nei contesti formativi.
Gerardo Rigozzi, già direttore di liceo, della Biblioteca cantonale di Lugano e del Sistema bibliotecario ticinese.