
«La filosofia di Gómez Dávila risulta scandalosa agli occhi del contemporaneo e indifferenziato “politicamente corretto”». Nel ritratto che ne traccia Marcello Veneziani nel suo Imperdonabili, Gómez Dávila viene definito «metafisicamente scorretto, con eleganza.»
Il filosofo colombiano dedicò la sua intera vita a leggere e scrivere: oltre 40mila volumi arricchivano la sua biblioteca, nella quale si ritirava ogni sera a leggere fino a notte fonda. Quando si ammalò volle che il suo letto fosse collocato proprio nella biblioteca. Quando morì stava studiando il danese per leggere Kierkegaard.
Come scrive Luigi Iannone, Gómez Dávila «fu da tutti considerato una sorta di eremita. Come i suoi aforismi, amava stare da solo e apparire slegato da ogni connessione sociale. [Egli] non guardava la tv e raramente leggeva i giornali» anche se «dovette occuparsi della sua azienda tessile, della tenuta agricola fondata dal padre e curare anche gli interessi della Banca fondata dal nonno. Tuttavia la sua vita fu sempre dedita alla lettura da cui partoriva queste brillanti annotazioni».
Gómez Dávila visse una sorta di contemptu mundi di un mondo il cui futuro, come scrive egli stesso, «appartiene alla Coca-Cola e alla pornografia».
«Nella storia della letteratura e del pensiero del XX secolo la sua opera è un caso più unico che raro: una vasta raccolta di aforismi alla quale lavorò durante tutta la vita, Escolios a un texto implícito (Instituto Colombiano de Cultura, Bogotá, 1977, 2 vol.), alla quale aggiunse più tardi i Nuevos escolios a un texto implícito (Procultura. Presidencia de la República, Nueva Biblioteca Colombiana de Cultura, Bogotá, 1986, 2 vol.) e i Sucesivos escolios a un texto implícito (Instituto Caro y Cuervo, Bogotá, 1992). Fortunatamente disponiamo di un appoggio ermeneutico che lo stesso Gómez Dávila, senza volerlo, ci ha lasciato: un volume che si pubblicò negli anni Cinquanta, per iniziativa del fratello Ignacio, anch’egli scrittore, con il semplice titolo di Notas. Tomo I (México, 1954).»
Come osserva nella sua introduzione all’edizione italiana Franco Volpi, «si tratta di un’opera molto particolare: un testo sperimentale, composto da appunti, massime, osservazioni, frasi e giudizi che più tardi egli selezionò ed integrò alla sua opera maggiore, Escolios, della quale Notas è la prima proposta. Per questo Notas restò fuori commercio, non fu ripubblicata e il secondo tomo previsto non vide mai la luce. In sintesi, dal punto di vista dell’autore, un esercizio preparatorio da dimenticare.»
«Nelle Notas, soprattutto, troviamo la spiegazione all’enigmatico titolo dietro il quale Gómez Dávila ha velato l’intuizione fondamentale sulla quale ha basato la sua opera. Perché limitarsi a scrivere “note” o “scolii”? Qual è il “testo implicito” al quale si riferiscono?
“Scolio” – dal greco schólion, commento – indica una nota nei manoscritti antichi e negli incunaboli aggiunta dallo scoliaste nell’interlinea o in margine per spiegare i passaggi oscuri del testo da un punto di vista grammaticale, stilistico o esegetico. […] Nell’assumere l’atteggiamento di scoliaste, cioè limitarsi ad annotare scolii in margine a un testo implicito, si rende evidente una scelta di vita e di pensiero prima ancora che di scrittura e di stile. È una decisione che privilegia l’ethos dell’umiltà, del riserbo, della modestia. Lo stile della scrittura significa per Gómez Dávila disciplina di vita: «Queste note non aspirano ad insegnare niente a nessuno, bensì a mantenere la mia vita in un certo stato di tensione» (Notas, 439). Fino all’estremo: «Se ve ne è bisogno, che la lucidità dell’orgoglio ci conduca all’umiltà, e che l’amore per le parole ci consegni al silenzio» (Notas, 47).
«Il «testo implicito» al quale alludono gli Escolios è quello ideale, l’opera perfetta, soltanto immaginata, nella quale trovano prolungamento e si completano le proposizioni di Gómez Dávila.»
«Al principio delle Notas si trova una spiegazione a questa alternativa di discrezione: «L’esposizione didattica, il trattato, il libro, solo convengono a chi è arrivato a delle conclusioni che lo soddisfano. Un pensiero vacillante, pieno di contraddizioni, che viaggia senza comodità nel vagone di una dialettica disorientata, a malapena tollera la nota, affinché gli serva da punto d’appoggio transitorio» (Notas, 51). È lo stesso autore ad affermare dunque: «Le proclamo di importanza nulla, e per questo sono delle note, delle chiose, degli scolii, vale a dire l’espressione verbale più discreta e più vicina al silenzio» (Notas, 50).
Con un vantaggio per il lettore ma anche per lo scrittore: «La nota breve non abusa della pazienza del lettore, e simultaneamente permette che quello che desideriamo scrivere si trovi concluso prima che la coscienza della sua mediocrità non impedisca di continuarlo» (Notas, 316).
«Gómez Dávila sa quanto è ridicola la condizione di uno «scrittore senza talento», che non è altro che un «eunuco innamorato» (Notas, 433); ed è cosciente della sua precarietà come pensatore e scrittore: «Io sono carente di opinioni, ho solo idee brevi, transitorie e fugaci, più somiglianti alle locande malandate dove riposiamo una notte piuttosto che alle splendide mansioni dove non sappiamo bene se dimoriamo, o se siamo prigionieri delle loro stessa magnificenza» (Notas, 173).
E così, «infrangere l’opera in aforismi è solo la strategia espressiva di un pensiero che cerca di raggiungere il tutto: «Le mie brevi frasi sono i tocchi cromatici di una composizione pointilliste» (Escolios I, 11).»
Gómez Dávila visse «in lotta costante con la banalità del quotidiano […] Da qui la sua infrangibile coscienza di appartenere a un’aristocrazia molto speciale: l’aristocrazia dell’intelligenza.»
«L’intelligenza è una patria» (Notas, 391).
Per il filosofo esiste però «un correttivo, un contrappeso: la carne con il suo appetito insaziabile»: «l’intelligenza che dimentica o disprezza i gesti voluttuosi, misconosce la densità che presta al mondo l’oscura presenza della carne» (Notas, 54).
Quando però «raggiungono il perfetto equilibrio, intelligenza e sensualità coincidono: «In un’anima perfetta, il piacere perfetto non è altro che la conoscenza perfetta» (Notas, 249)
«Questo vale anche per la tensione polare fra intelligenza e sensualità, come confessa: «Sento che la mia esistenza ha solo due punti di pienezza e di equilibrio. […] Il mio essere si compie solo nella rigida vetta dell’idea o nella bassa e soffocante valle dell’erotismo.» (Notas, 171)
La donna «è più il pretesto che l’oggetto della sensualità»: «Davanti al corpo della donna i maggiori eccessi sono insufficienti. […] Ah! Perdersi in una densa selva tenebrosa e carnale. Aspiriamo a una possessione demoniaca, ma facciamo semplicemente l’amore» (Notas, 71).
La sessualità «proferisce un’accusa teologica e pone un problema di rivalità religiosa. […] La sessualità è il rifugio dell’uomo spossessato di Dio, l’ultimo luogo dove la sua disperazione si contrappone alla divinità che lo abbandona» (Notas, 434).
Gómez Dávila «attacca con furore iconoclasta – con la denuncia, la satira, il paradosso – la modernità intera, tutti i suoi ideali e tutti i suoi princìpi fondamentali. Prima di tutto le sue idee e le sue presunte conquiste sociali e politiche, come per esempio il convincimento che la democrazia sia il miglior sistema di governo. Per Gómez Dávila quest’ultima parte da un punto di vista sbagliato» da cui non possono che derivare errate conseguenze: «La democrazia è il sistema per il quale il giusto e l’ingiusto, il razionale e l’assurdo, l’umano e il bestiale sono determinati non dalla natura delle cose, ma da un processo elettorale» (Notas, 416).
Gómez Dávila si scaglia anche contro le ideologie, specialmente quella comunista: «Il comunismo è diventato chiesa, la sua dottrina dogmi, i suoi congressi concili, scomuniche le sue espulsioni, eretici i suoi dissidenti e assolutismo papale il suo governo» (Notas, 277).
«Meno evidente, ma non meno decisa, è la sua critica alla scienza e alla tecnica: «L’uomo sta creando un mondo permeabile alla sua azione. Sembra già che nulla resista alla volontà umana, e come nelle vecchie profezie millenarie forse vedremo fiorire i deserti. […] La scienza si è rivelata miracolosamente capace di insegnarci come si fanno le cose, ma radicalmente incapace di dirci quello che dobbiamo fare.» (Notas, 285)
«L’unica oasi che sopravvive nel deserto lasciato dalla modernità è la lettura. «Ciò che desta lo spirito da quel sonno dogmatico del vivere comune, ciò che lo getta nel mare ignoto dei propri pensieri, dei sentimenti originali, è la lettura» (Notas, 59).
La disillusione gomezdaviliana che accompagna le sue pagine si manifesta talora icasticamente: «Trascorriamo la nostra vita battendo sempre alla stessa porta chiusa» (Notas, 341) fino a fargli confessare: «Ho accettato la mia vita con la passività di una pietra, perché tutto nella vita mi seduce in egual modo. Non potendo escludere, non ho potuto scegliere, e mi sono accontentato della mediocre esistenza concessa» (Notas, 173).
La conclusione di Volpi è, oseremmo dire, apodittica: «La filosofia gomezdaviliana è praticamente appena nata. Non solo non è preferibile, ma è del tutto impossibile cercare di incasellarla perché i suoi frutti sono ancora acerbi. Il compito primario è quello di far risuonare le sue parole, la sua voce inconfondibile e pura».