“Non ti muovere” di Margaret Mazzantini: riassunto trama e recensione

Non ti muovere, Margaret Mazzantini, riassunto, trama, recensione«Il libro che ha vinto l’edizione 2002 del premio Strega, Non ti muovere di Margaret Mazzantini (Mondadori 2001), è stato uno dei fenomeni editoriali più rilevanti degli ultimi dieci anni: grazie anche al film che ne è stato tratto nel 2004, ha venduto più di due milioni di copie. Il romanzo, ancor prima della vittoria dello Strega, è stato accolto da recensioni positive, spesso entusiastiche. Da molti critici è stata magnificata l’originalità della vicenda narrata, incentrata sull’attrazione morbosa provata dal protagonista per Italia, una donna priva di qualsiasi grazia e anzi quasi animalesca, con la quale intesse una relazione sordida e non priva di violenza, fino alla tragedia conclusiva (la donna muore in seguito a un aborto clandestino). Come termine di paragone per la cupezza delle atmosfere e la rappresentazione di alcuni aspetti repulsivi dei personaggi, è stato evocato finanche il nome di Dostoevskij. Si rimane interdetti di fronte ai toni enfatici spesi per un romanzo che non si saprebbe come definire se non ridicolo. […]

In Non ti muovere […] manca un reale scavo nell’interiorità del personaggio, che pure dovrebbe costituire l’asse portante del testo: delle pulsioni che lo muovono a comportamenti apparentemente immotivati non viene offerta alcuna chiave di lettura che abbia un senso. O meglio, una spiegazione è adombrata: durante il primo incontro con Italia al protagonista viene in mente la madre, costretta a una vita squallida e misera proprio come la donna che ha di fronte. Inserito meccanicamente nella pagina, un tale riferimento sembra dovuto alla volontà di richiamare le categorie freudiane, assunte però in modo assai semplicistico […]. La complessità dei sentimenti e dei rapporti umani è banalizzata oltre misura, ridotta a formulette da posta del cuore: “Questa morte senza dolore, a sorpresa, nei mesi successivi mi aveva tormentato più del previsto” (p. 56); “quella donna che non conoscevo troppo bene, e che pure sentivo così intima” (p. 108); “Sta sfoderando una zona di sé che teneva ben nascosta, forse ha capito di avermi perso” (p. 163); “Lei è nel mio sangue” (p. 211).

Su questo genere di riflessioni è basato l’intero romanzo; Mazzantini indulge spesso e volentieri all’enunciazione di massime sull’amore e in generale sulla vita, che nelle sue intenzioni costituiscono probabilmente il nocciolo dei profondi messaggi da affidare ai lettori, ma che in realtà, data la loro pochezza e banalità, appesantiscono il testo fino a renderlo intollerabile: “Com’è subdolo il dolore, come corre” (p. 20); “Il coraggio, Angela, appartiene agli amori nuovi, gli amori vecchi sono sempre un po’ vili” (p. 43); “La fedeltà non è un valore degli anni ragionati. L’infedeltà sì, perché richiede precauzione, parsimonia, discrezione, e ogni sorta di qualità senili” (p. 44); “la verità degli uomini è spesso ridicola” (p. 48); “niente può salvarci da noi stessi, […] l’indulgenza è un frutto che cade a terra già cariato” (p. 53); “la vita è soffice perché si dipana nel tempo, e ci lascia il tempo per tutto” (p. 68); “la vita è una carta adesiva piuttosto ingannevole, la colla sembra resistente, sembra che debbano resistere molte cose. Poi la srotoli, e ti accorgi che manca un sacco di roba, restano giusto quattro stronzate” (p. 78); “Gli amori nuovi sono pieni di paure, Angela, non hanno un posto nel mondo e non hanno capolinea” (p. 108); “Non si può spiegare l’amore. È solo, s’inganna e fatica in se stesso” (p. 251); “Chi ti ama c’è sempre, Angela, c’è prima di conoscerti, c’è prima di te” (p. 264). […]

Le cose non vanno meglio se si guarda allo stile messo in opera da Mazzantini, ricalcato fedelmente sul più vieto letteraturese. La voce narrante (quella del protagonista) è ricostruita in un modo completamente inverosimile, sia per quello che dice (ad esempio ricorda ogni minimo particolare visivo di scene di decine d’anni prima), sia per come si esprime. Quest’uomo del Duemila usa normalmente, cioè senza alcuna particolare intenzione stilistica, forme da romanzo ottocentesco come ad esempio il ricorrente frescura (“una frescura protratta e intensa”, p. 32; “distesi le piante per aderire meglio a quella frescura”, p. 41; “un brivido di frescura che s’infilava sotto la camicia”, p. 66; “Rimasi all’aperto in attesa di quella frescura che forse si avvicinava”, p. 80), immota (“l’ho vista immota di emozioni”, p. 11; “quella faccia immota”, p. 191), o persino un incredibile a guisa di (p. 29). […]

La tendenza ad attingere un registro elevato è particolarmente visibile all’inizio del romanzo, nel monologo che il protagonista incomincia a improvvisare mentre la figlia viene operata dopo un’incidente stradale. L’autrice deve aver pensato che nelle pagine iniziali bisogna sparare tutte le cartucce stilistiche disponibili, per impressionare il lettore; così, vediamo un padre che ha appena scoperto che la figlia è in condizioni gravi e potrebbe morire esercitarsi nella ricerca del più alto numero possibile di immagini figurate (da sottolineare che le prime tre similitudini sono inserite nella descrizione dell’incidente): “Il casco è rimbalzato sulla strada come una testa vuota” (p. 8); “L’asfalto ti era entrato nella pelle, punteggiandoti le guance come la barba di un uomo” (p. 8); “Eri ferma dentro la tua giacca di pelo come un uccello senza vento” (p. 8); “ha avuto bisogno di respirare e ha faticato a farlo, come se un boccone sgarbato le strozzasse il cammino dell’aria” (pp. 9-10); “In un attimo sono polvere che cammina” (p. 13); “quel pub all’angolo, quel budello fumoso sotto il livello della strada” (p. 17); “Resterà la piazza deserta della sua vita” (p. 19); “sbatterà contro quella parete di cielo come una bestia scaraventata da un’alluvione” (p. 19); “È come se un acido stesse svolgendo il suo mestiere corrosivo in profondità” (p. 20); “Mi chiedo se è possibile sconfinare oltre il carcere di questa distanza” (p. 20); “ho accettato il modello che mi avete ritagliato nella carta velina dei vostri bisogni” (p. 21); “Ti è bastato sapere che c’ero, guardarmi in lontananza, come un viaggiatore appeso al finestrino di un altro treno, scialbato da un vetro” (p. 22); “Voglio raggiungerti, Angela, in quel limbo di tubi dove ti sei coricata” (p. 23).

Come si vede, si tratta di una sequela di figure in alcuni casi banali, in altri senza senso (chi ha mai visto una testa vuota rimbalzare sulla strada? e che cosa significa che un’alluvione scaraventa una bestia?). La sensazione che accompagna la lettura del romanzo (nel seguito del testo, la temperatura stilistica si abbassa un po’, ma il tipo di figuralità rimane identico) è quella di un uso ben poco consapevole degli strumenti espressivi. Viene in mente la scrittura di molti studenti, i quali inzeppano gli elaborati di elementi che alle loro orecchie suonano bene, ma che in realtà sono privi di un qualsiasi significato. A un tema liceale fa pensare ad esempio un’espressione come “le macchine sfrecciavano veloci” (p. 28), in cui l’aggettivo è evidentemente pleonastico.

Guasta irrimediabilmente lo stile del romanzo anche la presenza non sporadica di espressioni stereotipate, degne del linguaggio giornalistico più corrivo: “hanno scavalcato il traffico con le sirene spiegate” (p. 8); “sotto il sole cocente” (p. 25); “L’asfalto cedeva molle sotto le mie scarpe” (p. 32); “quella vita che vedevo brulicare in basso” (p. 35); “il viso serrato dalla morte” (p. 36); “il lungo viale alberato dove si stagliavano figure mercenarie” (p. 88). Si potrebbe continuare ad libitum.

Nell’ultimo esempio citato è evidente un intento eufemistico che stona non poco in un romanzo che cerca di
fare della crudezza delle situazioni descritte il suo punto di forza. Non si tratta peraltro di un caso isolato; si legga per esempio la soave perifrasi utilizzata per indicare il menarca: “Il sangue suggellava la fine dell’infanzia” (p. 127). E più in generale, è evidente l’orrore provato da Mazzantini per qualsiasi cosa suoni come troppo quotidiana, che porta a goffi tentativi di nobilitazione: “si spostò lasciando libera la teoria di bottiglie dietro la sua testa” (p. 32); “avevo aggredito l’antipasto con una forchettata violenta” (p. 86).

I passi riportati mi paiono sufficienti a dare un’idea piuttosto precisa del livello della prosa di Non ti muovere; ma si potrebbe continuare a lungo con citazioni che dimostrano l’imperizia nella scrittura di quella che è certo una delle figure più sopravvalutate della narrativa italiana contemporanea.»

tratto da Narratori italiani del Duemila. Scritti di stilistica militante di Luigi Matt, Meltemi editore

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