
Quando e come nasce il Suo interesse per Socrate?
Durante gli anni dell’università, a Venezia, quando un grande filosofo poco conosciuto e scomparso troppo presto, Alessandro Biral, mi aprì gli occhi sui dialoghi di Platone facendomi scoprire la vita che fluisce di continuo in quei testi: la si scorge quando si abbandona il punto di vista “classificatorio” che nei Dialoghi cerca una “filosofia di Platone” da fissare sulla carta una volta per tutte. Capii allora che l’esercizio di lettura “vivificante” dei Dialoghi, intesi appunto come dialoghi e non come monologhi drammatizzati, poteva sciogliere un nodo per me critico: la filosofia, mi chiedevo con inquietudine, ha oppure no a che fare con la vita, con le mie più intime aspirazioni, con i desideri, con i rapporti che allaccio o che abbandono e con le azioni concrete che compio ogni giorno? Oppure è un esercizio intellettuale astratto, un’attività di ricerca che prescinde dalle peculiarità del ricercatore e dalla concretezza della sua vita? Socrate, scoprii con gioia, è l’enigmatica e vertiginosa coincidenza di pensiero e vita, di conoscenza e azione, di rigore della ricerca e piacere dell’abbandonarsi all’imprevedibilità della vita. Imprevedibile, sì, perché imprevedibile, spiega Socrate nel Teagete, è l’esito di ogni nuova relazione in cui si immerge anima e corpo.
Da cosa nascono le nostre infelicità?
Dalla separazione, interiore ed esteriore. Il mio libro si apre con la figura del giovane Ippocrate nel Protagora e di quello che definisco il “muro invisibile” che separa le sue azioni nel mondo e i suoi rapporti con gli altri da un nucleo intimo di sogni e desideri profondi: il “vero Ippocrate” (così pensa il ragazzo amico di Socrate), va tenuto al riparo, al di qua del muro, nascosto agli occhi del mondo esterno, mentre con gli altri Ippocrate vuole avere rapporti superficiali, temporanei, strumentali ad obiettivi che solo lui conosce. Si mette in gioco, certo, ma solo per un po’, solo finché gli va: tutto è reversibile, sembra dirci, “e smetto quando voglio”. Ippocrate, dunque, non è mai tutto se stesso nelle azioni che compie: una parte di sé la tiene nascosta, dietro le quinte della scena del mondo. Ebbene, tutti noi ci possiamo riconoscere, almeno in parte, in questa descrizione: il muro invisibile di Ippocrate attraversa l’intimità di ciascuno di noi, ovviamente anche di me che pure ora dico questo cose. Oggi, poi, la dimensione primaria dell’agire, cioè il lavoro che occupa gran parte del nostro tempo, sempre più precario, sfuggente, eterodiretto, sembra quasi obbligarci a vivere “come Ippocrate”, senza mai essere “tutti interi” nelle cose che facciamo, senza mai raggiungere una piena manifestazione di noi stessi, un pieno riconoscimento di quel che siamo davvero grazie alle nostre azioni. Questo lamentano molti giovani lavoratori precari (le cui storie ascolto spesso durante la trasmissione che conduco su Radio3 Rai, Tutta la città ne parla): non chiedono solo contratti stabili e compensi decenti per costruire un progetto di vita a lungo termine, ma anche, e forse soprattutto, dignità e riconoscimento, cioè la possibilità di riconoscersi davvero nelle azioni che sono chiamati a compiere. Questo chiedeva ad esempio, in una lettera straziante lasciata ai genitori, Michele, trentenne precario friulano suicidatosi nel 2017. Io, nel mio libro, evidenzio un’assonanza tra le sue parole, e i commenti apparsi in rete di tanti suoi coetanei che nel suo dolore si sono rispecchiati, e l’infelicità prodotta dal “muro invisibile” di Ippocrate, su cui Socrate ci invita a riflettere.
Da questo muro, poi, derivano tutti gli altri muri, cioè tutte le altre radici della nostra infelicità: l’individualismo esacerbato e la conseguente, dilagante solitudine (una piaga nazionale in ogni paese) che fa soffrire persino chi vive circondato da amici, parenti, amanti; la competizione sfrenata che fin da bambini ci spinge a vivere la vita come una gara e la felicità come una vittoria sugli altri; la sfiducia nel prossimo e nella politica; la paura degli altri, dei diversi, e la conseguente ossessione identitaria che ci fornisce un riparo fasullo, una sicurezza “tra simili” che è solo una caricatura distorta della felicità politica incarnata da Socrate.
Qual è il valore della conoscenza?
La conoscenza è la via che conduce a superare il muro invisibile di cui ho parlato e tutte le altre declinazioni del muro che ci rendono separati, scissi, dunque infelici. La conoscenza è per Socrate ciò che consente di uscire dalla peggiore delle condizioni, nella quale si trovano molti suoi interlocutori, anche quelli in apparenza più sapienti e colmi di conoscenze: il disaccordo con se stessi, “l’essere sdoppiati e incapaci di costituire un’unità”, o, altra immagine meravigliosa dell’ignoranza, l’essere incapaci di dare armonia alle tanti voci del coro che cantano dentro ciascuno di noi. “Conoscenza di sé” è l’espressione chiave per nominare il sapere di Socrate. Ma attenzione: non si tratta di una conoscenza “intimistica”, di uno psicologismo che bada solo ai moti interiori e non si cura del mondo esterno. Al contrario, ogni cosa è “conosciuta” dal logos del sapiente, che tutto dunque vuole sapere, allorché è ricondotta nell’orizzonte del dialogo, discussa, affrontata e riportata a noi stessi. Nessuna forma del sapere è dunque esclusa dalla conoscenza di sé. Al contrario, in essa ogni sapere particolare, ogni scienza trova la propria vera natura, il proprio posto come momento del dialogo che è tutt’uno con la vita. E qui si rivela l’enigma di Socrate, quella contraddizione che si può solo vivere ma che non si riesce a dire o a comprendere “in teoria”: la conoscenza è azione. Il mito della caverna raccontato da Socrate nella Repubblica, la celebre narrazione dell’uomo che si libera dai ceppi che lo incatenano al fondo oscuro ove gli uomini scambiano per cose vere delle ombre proiettate su una parete, e che risale all’esterno, scopre la conoscenza vera e poi scende di nuovo al fondo della caverna per i liberare i concittadini ancora schiavi dell’inganno, questa narrazione, dicevo, sembra alludere a due momenti separati: la conoscenza che viene prima, raggiunta dai “migliori” in solitudine, e poi la discesa, l’impegno pratico e concreto per gli altri. La lettura, forse “scandalosa”, che nel mio libro offro di questo mito allude invece ad una paradossale coincidenza dei due momenti, l’ascesa e la discesa, che nel testo di Platone vengono l’uno dopo l’altro. Non: prima il sapere e poi l’agire; non: prima la conoscenza e poi la relazione. La scrittura ce le offre così, in successione, una dopo l’altra, solo perché di più non può fare senza cadere in contraddizione. Ma il testo scritto rinvia oltre se stesso, oltre i limiti logici della scrittura, verso una contraddittoria coincidenza dei due momenti che si può solo vivere ma non descrivere: i due sono uno.
Quali contraddizioni caratterizzano la democrazia?
La democrazia contemporanea, che poco o nulla a che fare con la democrazia greca e ancor più con la democrazia un po’ caricaturale che Socrate descrive nella Repubblica, presenta oggi tuttavia alcune criticità di fondo che, con l’aiuto di Socrate, emergono più chiaramente. È una forma politica basata sulla libertà e sull’uguaglianza, lo sappiamo: non più i divieti e non più le gerarchie insuperabili del passato, dell’ancien regime. Ciascuno è libero di agire come gli pare, di cambiare volto e identità a seconda “del desiderio che prevale”, e in massima stima, dice Socrate, “sono i comandanti che si atteggiano a subalterni e i subalterni che si atteggiano a comandanti”. Fluidità, massima elasticità, desideri individuali liberi di esprimersi: queste le parole d’ordine in democrazia.
Tuttavia, ci mette sull’avviso Socrate, anche il democratico è scisso, “sdoppiato e incapace di costituire un’unità”, esattamente come gli uomini sottomessi ai regimi illiberali che hanno preceduto l’avvento della democrazia. La vita troppo fluida dell’uomo democratico gli impedisce di immedesimarsi con i ruoli sociali che di volta in volta ricopre e con i rapporti che costruisce: rimane “come sdoppiato” tra quei ruoli e quei rapporti, da una parte, e il flusso dei suoi desideri che lo trascinano sempre altrove. Questa scissione intima e profonda dell’uomo democratico si riflette a livello politico nella più terribile minaccia per la democrazia: la disuguaglianza, la negazione del suo principio costitutivo. Tutti sono uguali, infatti, nelle nostre democrazie, ma purtroppo lo sono solo de iure, solo nella dimensione astratta dei diritti, delle carte costituzionali: poi, de facto, una minoranza di privilegiati ha sempre di più, mentre gli altri hanno sempre di meno. Ogni giorno si allarga, irreversibilmente, la forbice tra gli have e gli have not. Fatalmente, nel cuore della democrazia del XXI secolo si ripropone proprio quella lacerazione che, nella Repubblica di Platone, aveva fatto crollare il regime che la precede secondo la narrazione di Socrate, cioè l’oligarchia: il popolo, carico di rabbia repressa, si sfoga contro la minoranza dei pochi, oligoi, ricchi, monta l’astio contro l’elite, e con tutto l’odio che ha in corpo, aizzato dai tribuni del popolo, la maggioranza si abbatte contro l’establishment facendo vacillare dalle fondamenta quel regime contraddittorio che ha nome democrazia. Questo è Socrate, 2500 anni fa. Ma, pensiamoci bene, quanto ha da dirci sulla politica di questi anni, di questi mesi?
Quale amore per la nostra società?
L’amore è per noi oggi, per lo più, una dimensione intima: uno spazio protetto, da coltivare al riparo dal mondo esterno. In esso gli amanti coltivano come un fiore delicato la propria felicità voltando le spalle al mondo esterno. Mentre amo, inevitabilmente, lascio ai margini la mia condizione di cittadino. Questa è la declinazione privatistica dell’amore che oggi prevale: è per molti il luogo di compensazione delle tante frustrazioni prodotto dallo stare al mondo, al lavoro e in tutte le altre sfere “pubbliche”. Ma in questa privatizzazione dell’amore intimo ed esclusivo si nasconde anche il germe della sua degenerazione ad amore possessivo, chiuso, talvolta (in troppi casi spesso taciuti) violento. L’amore incarnato da Socrate, al contrario, è amore che apre, che alimenta la carica con la quale egli si immerge nella città, nelle piazze, nelle palestre, nelle case degli ateniesi. Un amore diverso dal nostro, certo, su cui però vale la pena di soffermarsi e pensare: potremo mai essere davvero felici, infatti, inseguendo un amore che invece volta le spalle alla società e al nostro essere, dal primo all’ultimo respiro, politici? L’armonia del coro che canta molteplice dentro ciascuno di noi è, a sua volta, parte dell’armonia di un coro più grande: la prima armonia non si dà senza l’altra, i due cori sono lo stesso coro. La nostra felicità, e la via di eros che l’avvicina, non può che percorrere le vie della polis.