
Wilma Montesi era una giovane donna di 21 anni, una delle tante ragazze della piccola borghesia romana (suo padre aveva una falegnameria, sua madre, così come sua sorella, erano casalinghe. Wilma svolgeva lavoretti saltuari: quando capitava lavorava come comparsa a Cinecittà, dove era ripresa (siamo agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso) la produzione cinematografica.
Amava andare a ballare in una sala vicino casa la domenica pomeriggio, abitudine molto comune nella Roma di quegli anni. Era fidanzata con un agente della Polizia di Stato ma, a quanto emerse successivamente, non sembrava entusiasta della cosa. Non aveva molte amicizie: era molto legata a sua sorella Wanda, che però non fu in grado di raccontare molto su di lei.
Non aveva vizi, o almeno vizi conosciuti, aveva scarse disponibilità di denaro, anche se ogni tanto mostrava di possedere un oggetto costoso, magari una borsa. Era, in poche parole, una ragazza come tante altre: forse proprio per questo dopo la sua scomparsa, molte giovani donne della sua età, a Roma ma non solo a Roma, si immedesimarono in lei.
Quali vicende segnarono il caso che da lei prende nome?
Wilma si allontanò da casa il pomeriggio del 9 aprile 1953 e da quel momento nessuno sa ancora oggi cosa le sia accaduto nei due giorni che trascorsero prima che il suo cadavere venisse trovato sulla spiaggia di Torvajanica, una località marina a quel tempo desolata distante circa 30 chilometri da Roma. Nei polmoni fu trovata sabbia: segno che la ragazza era ancora viva quando fu abbandonata sulla spiaggia, dove durante l’alta marea giungevano le onde.
Chi ne furono i protagonisti?
La polizia iniziò le indagini sulla base di alcune testimonianze.
Una impiegata del Ministero della Difesa dichiarò di avere viaggiato con lei sul trenino per Ostia (località marina alla estrema propaggine di Roma) il pomeriggio stesso della scomparsa. Un testimone affermò di averle venduto un gelato a Ostia quel pomeriggio. La proprietaria della rivendita di giornali alla stazione di Ostia del trenino affermò di averle venduto una cartolina che la ragazza si sarebbe riproposta di inviare al suo fidanzato lontano da Roma. La sorella Wanda confermò il proposito di Wilma di recarsi ad Ostia per immergere i piedi nell’acqua salata del mare.
La conclusione fu che la ragazza aveva avuto un malore mentre immergeva i talloni irritati nell’acqua marina ad Ostia, poco distante da Torvajanica, era caduta in mare, era annegata e le correnti marine l’avevano poi trascinata sulla spiaggia dove era stato poi rinvenuto il suo cadavere. Come avesse fatto il cadavere a scavalcare le reti poste in mare per evitare la fuga dei cinghiali dalla tenuta di Capocotta restò un mistero. Il Questore di Roma Saverio Polito in una conferenza stampa diede questa versione dei fatti che fu convalidata dalla Procura della Repubblica di Roma ma non convinse molti lettori dei giornali.
Quale enorme attenzione suscitò nell’opinione pubblica l’assassinio della giovane ragazza?
È da premettere anzitutto che nessuno fino ad oggi ha ritenuto che si sia trattato di un assassinio, che vi sia stata cioè da parte di qualcuno la deliberata volontà di uccidere Wilma. Le conclusioni giudiziarie oscillano infatti, come vedremo, tra la disgrazia e l’omicidio colposo: l’emozione suscitata nell’opinione pubblica dipese proprio dal fatto che si trattava di una morte assolutamente inspiegabile. I giornali quotidiani e settimanali iniziarono a raccontare storie nebulose di cui sarebbero stati protagonisti quei personaggi più o meno noti che Fellini rappresentò nel film “La dolce vita”. Il primo ad essere chiamato in causa fu Piero Piccioni, un musicista figlio del Vice Presidente del Consiglio Attilio, un esponente di primo piano della Democrazia cristiana. A Piero Piccioni venne collegato Ugo Montagna, un uomo dal passato quanto meno controverso, amministratore della tenuta (a quel tempo) reale di Capocotta, accusato di aver procurato protezioni al musicista da parte di alti esponenti della Polizia per nascondere fatti collegati alla morte di Wilma.
Anna Maria Moneta Caglio, appartenente ad una ricca e nobile famiglia milanese, in un memoriale che fu consegnato da un gesuita al Ministro degli interni Fanfani formulò una serie di accuse nei confronti di Montagna con il quale aveva avuto una relazione sentimentale. Il memoriale fu pubblicato dai giornali, emersero via via molti personaggi minori, si parlò di festini a luci rosse, di droga, di personaggi famosi coinvolti a vario titolo nella vicenda.
L’avvenimento di cronaca nera divenne un fatto oggetto di vivaci polemiche politiche che portarono fra l’altro alle dimissioni del Vice Presidente del Consiglio Piccioni ed alla sostituzione del Capo della Polizia. Il Ministro Fanfani, Ministro degli interni, affidò all’Arma dei Carabinieri lo svolgimento di ulteriori indagini sulla vicenda: il fatto contribuì a far dilagare nell’opinione pubblica la convinzione che i risultati ai quali erano pervenuti polizia e magistratura non potevano essere accettati a scatola chiusa. Fu il terreno di cultura per la nascita di pettegolezzi e false verità di ogni tipo: a rileggere le cronache del tempo balza evidente l’immagine di una Italia provinciale disposta a credere a tutto e tutti perché non crede più a niente e a nessuno. Al centro della questione non ci fu la morte misteriosa di una giovane donna ma il comportamento di persone potenti e danarose che sembravano esser in grado di ignorare le leggi e decidere esse stesse ciò che era lecito e ciò che non lo era ponendosi al di sopra di ogni regola giuridica e morale.
L’opposizione di sinistra (comunisti e socialisti) e quella di destra (monarchici e neofascisti) scelsero di dare battaglia: più volte la questione Montesi fu all’esame del Parlamento, con una Democrazia cristiana bersagliata da molte critiche ed un Ministro degli interni, che era divenuto Mario Scelba, un uomo della destra democristiana, intenzionato a non lasciare spazio politico alle opposizioni ma al tempo stesso di non consentire comportamenti illeciti da parte della Polizia.
Fu coniato il termine “capocottari” per indicare coloro che frequentavano la tenuta di Capocotta o località in cui si tenevano allegri festini in barba non solo alla morale ma anche al codice penale.
Quotidiani e settimanali pagavano grosse somme per pubblicare interviste con rivelazioni più o meno interessanti, più o meno fantasiose. Per quattro anni l’Italia dimenticò i suoi problemi (ed erano tanti): la questione principale divenne come e perché era morta Wilma Montesi.
Quali strascichi ebbe la vicenda?
Raffaele Sepe, capo della sezione istruttoria della Procura della Repubblica di Roma iniziò una nuova indagine e dispose una seconda autopsia del cadavere di Wilma, peraltro senza grandi risultati.
L’attenzione dell’opinione pubblica aumentò: ormai i giornali parlavano di uno scandalo che si voleva celare dati i personaggi che vi sarebbero stati coinvolti. Una rivista diretta da un giovane, Silvano Muto pubblicava notizie ed interviste a getto continuo di personaggi coinvolti nella vicenda, dalla Caglio ad Adriana Bisaccia, una giovane donna che non si capì mai come era entrata nella vicenda e perché. Mitomani, maghi, drogati, strani ed inclassificabili personaggi comparvero e scomparvero dalla scena. Giuseppe Montesi, fratello del padre della ragazza, fece anche lui la sua entrata nel caso per un legame che appariva troppo stretto con sua nipote Wilma: sarà processato per falsa testimonianza ma il processo nei suoi confronti si estinguerà per sopraggiunta amnistia. Giuseppe Sotgiu, avvocato di Silvano Muto, risultò coinvolto in una squallida storia a sfondo sessuale. Era un noto esponente comunista: il suo caso servì per sostenere che certe propensioni non erano una esclusività dei democristiani.
Sepe concluse le indagini rinviando a giudizio per omicidio colposo Piero Piccioni e per reati connessi Ugo Montagna e l’ormai ex questore di Roma Saverio Polito.
Come si articolò la vicenda giudiziaria?
Il processo si svolse presso il Tribunale di Venezia affinché gli imputati fossero giudicati da magistrati lontani da quelli che avevano ritenuto si fosse trattato di una morte dovuta ad un malaugurato pediluvio.
Il Tribunale assolse tutti gli imputati, pur ritenendo che si era trattato di un omicidio colposo e non di una morte per disgrazia. Fondamentale importanza per l’assoluzione di Piero Piccioni fu l’alibi fornitogli da Alida Valli, una famosa attrice del tempo che aveva con lui una relazione sentimentale.
Riprese presso il Tribunale di Roma il processo contro Silvano Muto e Anna Maria Moneta Caglio per quanto affermato e pubblicato sul fatto. Il Pubblico Ministero insistette sulla morte per pediluvio ed ottenne la condanna dei due imputati per calunnia.
A distanza di oltre mezzo secolo, qual è l’eco di quella triste vicenda?
Tutti i protagonisti della vicenda sono oggi deceduti: resta l’eco di un fatto nato come avvenimento di cronaca e divenuto poi per motivi ancora oggi non ben chiari strumento di lotta politica.
Piero Piccioni era colpevole o innocente? La sentenza di assoluzione passata in giudicato impedisce di dare qualunque risposta in proposito: le sentenze si rispettano anche se non si condividono.
Il memoriale della Caglio aveva un contenuto veritiero o si trattava solo di una vendetta di una donna abbandonata? La Caglio insistette fino a quando morì sulla sua versione di fatti.
Da chi partì l’idea di trasformare un fatto di cronaca in uno strumento di lotta politica? A distanza di più di 60 anni ognuno può farsi un’idea in proposito attraverso la lettura del libro. Forse nemmeno Poirot sarebbe riuscito a dipanare una matassa tanto intricata.
Mario Pacelli è stato a lungo funzionario della Camera dei Deputati. Docente di diritto pubblico, è autore di numerosi saggi di storia parlamentare tra i quali Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Cattivi esempi (2001), Il Colle più alto con Giorgio Giovannetti (2018). Per Graphofeel ha pubblicato Cantiere Italia (2011), Dossier Andreotti (2013) e Gianni Caproni (2014).