“Non esisterà più il tempo. Eternità e trama nell’arte del racconto” di Riccardo Antonangeli

Dott. Riccardo Antonangeli, Lei è autore del libro Non esisterà più il tempo. Eternità e trama nell’arte del racconto pubblicato da Edizioni Studium: quale importanza e quali forme narrative assume in letteratura l’intuizione dell’infinito?
Non esisterà più il tempo. Eternità e trama nell’arte del racconto, Riccardo AntonangeliSolitamente, in letteratura, l’infinito viene intuito in momenti d’illuminazione fulminea, attraverso epifanie che lasciano nell’individuo che le vive un sentimento forte quanto vago. Difficile, dunque, restituire in parole una tale esperienza. Ne troviamo traccia, solo per citare alcuni esempi, nelle testimonianze della mistica religiosa, nella letteratura romantica e in quella modernista. Si pensi all’Infinito di Giacomo Leopardi, oppure a T.S Eliot e ai suoi Four Quartets dove l’infinito è quel punto a metà tra la riva più lontana e quella più vicina «mentre il tempo è ritratto…nel momento che non è di azione né di inazione», un istante d’eterno presente, «il punto fermo del mondo che ruota» poiché «ciò che diciamo principio spesso è la fine e finire è cominciare». Ora, se consideriamo che il racconto, il romanzo, ha bisogno di un inizio e di una fine entro le quali svolgere la propria trama, si capisce come il componimento poetico sia più adatto a comunicare il sentimento di un’esperienza che, come abbiamo appena letto, trasporta l’Io in una condizione in cui le coordinate d’inizio e fine perdono tutto il loro senso. È, se vogliamo, lo stesso dilemma compositivo davanti al quale si è trovato Dante: come descrivere a parole, e dunque secondo un ordine temporale, un viaggio che accade fuori dal tempo e che lo porta faccia a faccia con l’essere eterno di Dio, inizio e insieme fine di tutto il creato? Nel Medioevo, accanto a Dante che sceglie la poesia della Commedia per raccontare a tappe ciò che egli ha, in realtà, vissuto in un sol punto, alcuni novellieri, tra i quali il più noto a tutti è sicuramente Boccaccio, hanno tentato d’inserire in trame narrative l’intuizione fulminea di una dimensione che sfugge alla cornice regolatrice del tempo umano, scandito dall’incedere quotidiano delle ore, e poi di giorni, mesi, anni, e di intere epoche storiche. Il mio libro tenta, dunque, di riannodare i fili di una tradizione narrativa che, parallelamente alla poesia, si è posta il problema di come rappresentare l’enigma dell’infinito, una tradizione che lega i novellieri medievali agli esempi più moderni di Dostoevskij e Proust. Ecco, pertanto, vari esempi di racconti popolati da personaggi che sfuggono ai limiti temporali della trama in cui la loro vita è organizzata, pervertono cioè la traiettoria che lega l’inizio e la fine della loro esistenza nella forma di un racconto biografico, nell’ambito del quale ogni evento passato è causa di un evento futuro e ciò che viene prima tende teologicamente verso ciò che viene dopo, verso la fine intesa come coronamento e risultato di un progresso.

Com’è possibile rappresentare, attraverso l’intreccio narrativo, le epifanie dell’infinito?
Affidandosi a quelle modalità del discorso che permettono alla parola di correre in avanti nel tempo oppure saltare indietro, ovvero attraverso memoria e profezia. Grazie al ricordo, un’esperienza, un’emozione, una persona che si credevano morte e sepolte nel passato risorgono all’attenzione del presente, regalandoci l’impressione che la distanza tra allora e ora sia scomparsa. Grazie alla profezia il futuro è compiuto già adesso, e quindi anche l’attesa, la sfasatura tra presente e futuro risultano annullate. Sulla pagina scritta memoria e profezia possono assumere la forma di un vago presentimento che qualcosa di terrificante, o di meraviglioso, si stia per verificare, oppure ecco la sensazione confusa e sublime di un déjà-vu, di un passato che si ripete misteriosamente uguale a distanza di anni. In entrambi i casi, la prospettiva che separa due eventi lontani fra loro nel tempo si appiattisce di colpo, causando lo stordimento d’animo, caratteristica fondamentale del sublime in letteratura, e lo smarrimento del protagonista, per il quale le categorie d’inizio e fine, passato e futuro perdono, in un lampo, tutto il loro significato. Questo più o meno quello che avviene nel romanzo Europeo dall’Ottocento in poi. C’è un’altra via, però, che si apre alla rappresentazione dell’infinito nonostante la trama, anzi, proprio grazie all’intreccio. È la via delle raccolte di racconti racchiuse in una cornice narrativa. L’esempio più evidente sono Le mille e una notte: qui la protagonista racconta storie per posticipare all’infinito il giorno della sua condanna a morte. Ecco che la morte verso cui tende la trama della narrazione-cornice portante è ritardata da una serie potenzialmente infinita di novelle che, come delle matrioske o delle scatole cinesi, contengono al loro interno altre storie e queste sono a loro volta cornice di ancora altri racconti. L’infinito che si raggiunge in questo caso assume la forma di un ‘labirinto di trame’ capace di dare al lettore l’impressione di un racconto che dura, per l’appunto, in eterno e quindi di una storia senza inizio né fine, o meglio, il cui inizio e la cui fine sono impossibili da ricordare o prevedere. Pertanto, il poeta e il mistico non sono i soli ad avere il talento di esistere, per un attimo, nel «punto di intersezione del senza tempo con il tempo», per citare sempre T.S Eliot, anche il narratore sa come illudere chi ascolta che morte e tempo non esistono più. Vogliamo conoscere la fine della storia ma ecco che, prima della fine, comincia subito un’altra trama e poi ancora un’altra, cosicché l’attesa di una conclusione che potrebbe benissimo non arrivare mai ci distrae dall’attesa della nostra di fine, la morte. Chi sa raccontare bene vecchie storie o leggende, favole o novelle, è ‘spia dell’infinito,’ dominatore del tempo come un dio.

Come viene descritto e che ruolo svolge nel mito classico l’infinito temporale?
Ho scelto il mito di Meleagro come punto di partenza della mia indagine per tre motivi. Primo, perché le Metamorfosi di Ovidio sono anch’esse una raccolta di miti, caotica e in trasformazione continua, che non ha fine e che, anzi, vince il tempo, annegandolo in un labirinto di trame. Inoltre, le Metamorfosi sono costellate da gruppi di racconti inseriti in cornici: pensiamo al mito del corvo rovinato dalla sua lingua chiacchierona, alla vicenda delle Minièidi e al resoconto della contesa tra le Muse e le Pièridi. Secondo, perché in questa storia la durata della vita dell’eroe diventa realtà tangibile: Meleagro e tizzone ardente condividono una stessa temporalità. Terzo, perché quello di una vita la cui durata è misurabile tramite il fuoco di una fiamma accesa è motivo narrativo condiviso sia dal mito greco che dalla cornice di raccolte di novelle d’area arabo-semitica-indiana, da cui derivano anche Le mille e una notte. Quando si parla di tempo, e del suo mistero, l’Occidente sembra sempre guardare all’Oriente, come se fossero quelle terre e tradizioni novellistiche lontane a custodire la chiave d’accesso al senza tempo, all’essere libero dalla mortalità. Il motivo del tizzone ardente che contiene in sé la durata di una vita intera arriverà fino a Proust e al passato che, senza volerlo, la memoria recupera e rivive tramite oggetti e dettagli in apparenza del tutto trascurabili: la madeleine, un tovagliolo ben inamidato, un libro, una pietra sconnessa.

Il mito classico costituisce, poi, la grande, maestosa trama del cielo stellato e leggere gli astri, nel Medioevo, significherà riconoscere nelle leggende dei miti antichi dei segni capaci di guidare, prevedere, profetizzare i destini degli uomini sulla terra. Astronomia e astrologia si svilupperanno nell’Occidente cristiano durante la Rinascita del XII-XIII secolo, grazie alla traduzione dall’arabo e dal greco di trattati scientifici fino a quel momento sconosciuti in Europa. Il mito classico, l’astronomia e la scienza arabe, la tradizione novellistica indiana avranno un’influenza decisiva su come, nella letteratura occidentale, verrà rappresentato l’uomo alle prese con l’enigma del tempo.

In che modo le novelle del Decameron testimoniano dell’influenza che l’astrologia e l’astronomia arabe ebbero sul sentimento e sull’intuizione del tempo nell’Occidente cristiano?
Il personaggio nel quale astronomia e astrologia arabe si incarnano è, senza dubbio, il negromante. Secondo la classificazione di Propp, egli è un aiutante dell’eroe. Un aiutante, però, potentissimo: la sua sapienza gli permette, infatti, di dominare le stelle e, tramite esse, il tempo. Il sapere, infatti, che viene tramandato dai trattati scientifici e astronomici che, nel corso del XII secolo, vengono tradotti in Al Andalus (penisola Iberica), concepiva il destino terreno degli uomini come il risultato del movimento dei corpi celesti, di stelle e pianeti. La volontà divina era, così, mediata dal cielo e l’anima dell’uomo assumeva una posizione a metà tra eternità e tempo, come si poteva leggere nel Liber de causis, un testo che ebbe diffusione e successo vastissimi nel corso del Medioevo. La dottrina dell’influenza celeste sugli accadimenti terreni si andò, ovviamente, a scontrare con alcuni cardini teologici del cristianesimo: è chiaro che, se il destino individuale degli uomini può essere previsto grazie all’osservazione dei movimenti degli astri, il libero arbitrio del singolo subisce un forte ridimensionamento e questo non poteva essere accettato. Di qui le condanne delle tesi degli aristotelici radicali a Parigi nel 1270 e il tentativo di mediazione del Tomismo. Queste due visioni contrapposte del cosmo, e quindi anche del tempo, si scontreranno, in particolare, nella novella di Natan e Mitridanes. Il primo, un vecchio saggio che viene da Oriente, insegnerà al più giovane, e più occidentale, come sentire il tempo in maniera stoica: non bisogna agire frettolosamente, cercando di anticipare i tempi e pensando più al futuro che al presente, ma bisogna imparare e capire che l’eternità può essere goduta qui e ora, cogliendo l’attimo, perché, è proprio il caso di dirlo, del domani non c’è certezza.

I negromanti del Decameron leggono i movimenti dei corpi celesti come stessero leggendo un libro, la grande trama del cosmo, e ne possono così prevedere le mosse, le svolte, divenendo essi stessi autori e narratori delle storie degli altri, delle trame dei loro destini che, grazie a loro, possono ora leggersi come una successione di istanti decisivi, di kairoi. È possibile, grazie al negromante che domina le stelle, calcolare il momento opportuno per cogliere un’occasione, il tempo giusto per iniziare o meno un’azione. Il negromante gode di una sorta di onnipotenza sulla trama che lo ospita, del tutto simile a quella che l’autore vero e proprio ha sulla storia. Grazie alla capacità di leggere il cielo, derivata dal sapere astronomico arabo, il negromante può modificare la trama a proprio piacimento, assecondando le richieste dell’eroe, facilitando il compimento della sua missione e l’esaudimento dei suoi desideri, ma soprattutto egli riesce a pervertire il corso del tempo, a viaggiare nel passato e nel futuro. I negromanti sono, così, dei ‘corsari del tempo’, dei pirati che navigano l’infinito come se si trattasse del loro laghetto privato. Li vediamo resuscitare cadaveri, fabbricare tappeti volanti che viaggiano alla velocità della luce e creare giardini rigogliosi in pieno inverno.

In che modo nell’Idiota di Dostoevskij compare il tema dell’atemporalità?
Il cuore ideologico dell’Idiota è rappresentato dalla tortura psicologica e spirituale che il condannato a morte vive prima di salire sul patibolo. La certezza di sapere di stare per morire di lì a qualche giorno, ora, minuto, istante è giudicata dall’autore una sofferenza interiore terribile, più terrificante di qualsiasi male inferto al corpo. Dostoevskij poteva parlarne a buon diritto visto che egli stesso fu condannato a morte, salì sul patibolo, salvo poi essere risparmiato in extremis dalla grazia dello zar. Ecco, questo sentimento di una fine che razionalmente è certa, sicura, inevitabile, spinge l’animo del condannato a cercare vie di fuga possibili nel regno dell’irrazionale, della fede in Dio e nell’aldilà, in una qualche forma di sopravvivenza oltre il tempo, dopo la morte. L’esempio serve a Dostoevskij per dimostrare come la ragione non possa, tramite le sue categorie, i suoi calcoli, risolvere il mistero del tempo, visto che la morte le si staglia davanti come uno scoglio, una certezza matematica insormontabile. Per superare il tempo, e intuire l’eternità che dietro vi si nasconde, bisogna seguire il sentimento, un altro tipo di conoscenza che «il cuore bisbiglia all’anima». Dostoevskij crea così un personaggio, il principe Myškin, che si rapporta al mondo circostante non tramite la ragione, ma attraverso mezzi alternativi. Dopo il suo secondo ritorno a Pietroburgo il principe riesce a capire che Rogožin può essere un assassino, e per di più il suo assassino, indagando le tracce confuse e vaghe di strani presentimenti e ricordi nebulosi. La malattia, l’epilessia, offuscano le sue comuni attività cognitive e proprio grazie a questa memoria, per così dire menomata, le categorie di passato e futuro perdono il loro ordine e senso quotidiani, e Myškin può, così, esistere nell’eternità, può leggere il mondo come se il tempo non esistesse, come se la vita si svolgesse nell’assenza di durata di un eterno presente. La memoria diventa strumento profetico capace di prevedere un evento futuro, non grazie al calcolo della ragione, ma, per assurdo, grazie al proprio sguardo incerto, difettoso, capace, però, di giungere alla meta della propria indagine conoscitiva grazie ai ‘buchi’, agli inciampi, che trova sul suo cammino. L’Idiota è una meravigliosa Recherche ante litteram, un romanzo che anticipa Bergson e Proust grazie a un’originalissima commistione di cronaca, letteratura di genere, quella gotica su tutte, e di letteratura religiosa, la tradizione dei padri del deserto e della kenosi.

Che ruolo svolge la memoria involontaria nella percezione del tempo nel capolavoro proustiano?
La memoria del principe Myškin è uno degli esempi a cui guarda Proust per costruire i meccanismi imprevedibili della memoria involontaria, quella facoltà che permette al soggetto di risalire da un oggetto quotidiano, in apparenza insignificante, a una sensazione, un’emozione vissuta tempo addietro in un passato lontano. In questo modo il protagonista riesce a illudersi che passato e presente siano, in realtà, simultanei, e che la distanza temporale che li separa sia soltanto un inganno prospettico, una distorsione ottica. Perché involontaria? Perché questo miracolo, che annulla il tempo e trasporta il soggetto in un eterno presente, può avverarsi solo senza volerlo, ed è qui che entra di nuovo in gioco l’arte, d’origine araba, del racconto: la memoria del Marcel narratore funziona, infatti, proprio come la lampada di Aladino, capace di dischiudere possibilità infinite, quando, senza volerlo, la madre ne strofina la superficie per lucidarla e, di colpo, ecco uscire il genio. Il modello dell’Idiota funziona anche in un altro tassello della struttura narrativa della Recherche e del Temps retrouvé in particolare. Marcel ritrova la vocazione letteraria e la voglia di scrivere il suo romanzo infinito quando la malattia gli prospetta, con certezza, che il tempo della morte è, ormai, vicino. La memoria involontaria, intesa come chiave d’accesso verso un presente eternizzato, permette, dunque, all’Io del protagonista di ritardare il progresso del tempo che fugge e che avanza verso la fine, ricalcando l’ombra del narratore forse più furbo d’ogni era: Shaharazâd, la cantastorie più irresistibile che la letteratura abbia mai conosciuto. È forse da tutti ingannare un re e, con la sola forza del racconto, ritardare all’infinito la propria esecuzione capitale? Torniamo, così, a quel labirinto di trame senza fine con cui le raccolte di racconti alle origini della nostra letteratura erano riuscite a regalare al lettore un profumo d’infinito. Prima di Borges, un altro grande indagatore dell’eternità, dell’Aleph, del «punto d’intersezione tra tempo e senza tempo», anche Proust aveva trovato l’estasi di una felicità raggiungibile in questa vita nei meandri narrativi delle Mille e una notte. Dostoevskij, Proust, Borges: tutti camminatori moderni felicemente smarriti in quel Giardino dei sentieri che si biforcano che è l’arte del racconto.

Riccardo Antonangeli dopo aver studiato letterature comparate alla Sapienza di Roma e all’USI di Lugano, nel 2018 ha ottenuto il Ph.D in Italian Studies presso la New York University. Ha insegnato letteratura, cinema e lingua italiana negli Stati Uniti a NYU, CUNY e FIT.

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