“Non è solo questione di classe. Il “popolo” nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991)” di Giulia Bassi

Prof.ssa Giulia Bassi, Lei è autrice del libro Non è solo questione di classe. Il “popolo” nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991) edito da Viella nel settembre 2019. Quale rilevanza ha assunto per il PCI, nel corso della sua storia, la dialettica tra politica e popolo?
Non è solo questione di classe. Il “popolo” nel discorso del Partito comunista italiano (1921-1991), Giulia BassiSoprattutto durante l’epoca contemporanea, con le rivoluzioni atlantiche del XVIII secolo, il “popolo” fu messo al centro della retorica politica, ricevendo al contempo legittimazione. Durante il XIX secolo la retorica sul popolo ricevette nuovo impulso con il socialismo utopico e, per altri aspetti, con l’idea romantica dello spirito del popolo. Anche i moti del 1848, non a caso definiti successivamente la “Primavera dei popoli”, e la Comune di Parigi del 1871 avevano dato un nuovo significato al discorso sulla collettività e le sue forme.

Per questo, il discorso sul popolo acquisì una dimensione sempre più ampia nel pensiero filosofico, teorico-politico e sociologico, divenendo narrazione egemonica con l’irruzione delle masse nella vita politica nel XX secolo. La retorica comunista del XX secolo e soprattutto del secondo dopoguerra, da una parte all’altra della “cortina”, non fece eccezione in questo senso.

Nello specifico, il volume si pone come obiettivo principale quello di comprendere l’impiego del popolo nel discorso politico comunista italiano.

È facile presumere, cadendo in errore, che interlocutore privilegiato del partito, in quanto partito marxista, fosse la classe operaia, il proletariato. Tuttavia, come mostra il lavoro, a partire dalla seconda metà degli anni ’30 e ancor più dalla metà del decennio successivo la dialettica “partito-classe” fu sostituita in massima parte da una dialettica “partito-popolo”. Del resto, il discorso sul “popolo” sarebbe servito parimenti a costruire il discorso sulla leadership, costituendone il presupposto legittimante: quella di Antonio Gramsci, definito “primo bolscevico e figlio del popolo”, e quella di Palmiro Togliatti, come palesa la continua reiterazione del lemma “popolo” sulla stampa in occasione dei suoi funerali.

Quale riflessione sull’accezione del termine “popolo” si sviluppa nel PCI?
Più che come riflessione sviluppatasi in seno al Partito comunista, che può essere invece condotta ora, a posteriori e in sede analitica, la questione assunse nel PCI un connotato importante a livello retorico e dialettico. L’utilizzo della nozione di “popolo” all’interno del discorso pubblico del partito, infatti, rispose a una strategia politica ben precisa, ma non per questo sempre consapevole: quella di mobilitare le forze eversive che retroagivano nel movimento, modulandole, normandole, e incanalandole entro i binari regolamentativi della democrazia parlamentare.

Quando il “popolo” si è imposto nella comunicazione del PCI?
Per rispondere a questa domanda deve essere fatta una breve premessa. Il lemma “popolo” si era imposto nel lessico comunista in primo luogo in Unione Sovietica, con la stabilizzazione del sistema sovietico.

Il popolo venne così soggettivato come insieme organico delle nuove classi della società sovietica; non a caso, la nuova Costituzione del 1936 faceva strategicamente coincidere “popolo sovietico” e “Stato rivoluzionario”. Il discorso sul popolo si affermò quindi nel movimento comunista internazionale come narrativa dell’unità delle forze progressiste, prima con la stagione dei “fronti popolari” nella seconda metà degli anni ’30, poi con la “Grande guerra patriottica” tra 1941 e 1945.

Non stupisce che un tale slittamento lessicale e narrativo si sia consolidato negli stessi anni anche nella retorica del comunismo italiano, riorganizzatosi (cosa tutt’altro che esclusivamente nominale) in Partito comunista italiano, abbandonate le vesti di Partito comunista d’Italia sezione della Terza Internazionale, sciolta nel maggio del 1943.

Il volume intende mostrare proprio questo importante passaggio, politico, propagandistico, culturale, dalla “classe” al “popolo”, attraverso un’analisi storica della stampa e dei discorsi dei maggiori dirigenti. Ovviamente, questo trasferimento non sarebbe stato totalizzante, dato che la retorica particolaristica della classe sarebbe sopravvissuta, in parallelo (ma in ruolo subalterno) al discorso universalistico sul popolo.

Se prendiamo la prima produzione di Palmiro Togliatti, articoli, discorsi e scritti prodotti tra il 1919 e il 1927, lemmi come “popolo” e “popolare” compaiono in misura ristretta. Tuttavia, tra gli anni ’30 e gli anni ’40, il vocabolario togliattiano subì variazioni consistenti, mutando e a tratti rovesciando la tradizionale gerarchia dell’utilizzo dei termini. Parole importanti come “classe” o “compagni”, di sapore settario e internazionalista, diminuirono progressivamente, mentre si imponeva su tutte il popolo, connotato nazionalmente come “popolo italiano” e poi imbrigliato, dalla metà degli anni ’40, entro il reticolo concettuale del “partito nuovo” e della “democrazia progressiva”, che presupponeva un sistema politico plurale e pluralista.

Questo cambiamento rifletteva una precisa scelta politica, che rispondeva alla svolta che avrebbe preso il nome dalla città in cui si era insediato il nuovo governo Badoglio. La svolta di Salerno prevedeva infatti l’accantonamento della pregiudiziale monarchica e la collaborazione tra i partiti con l’obiettivo prioritario della distruzione del nazi-fascismo.

Sebbene il posizionamento togliattiano si inserisse nella nuova politica sovietica nei confronti dell’Italia sconfitta, la concezione di un popolo omogeneo, universalizzante, “monadico” era parte di una politica anche nazionale del PCI, rivolta alla propria militanza, recalcitrante ad abbandonare la prospettiva rivoluzionaria e ad allearsi alle forze “borghesi” dello spettro politico. Così come l’operaio aveva assunto nella dottrina marxista tratti epici, il popolo comunista idealizzato degli anni ’40 serviva a rifondare su nuove basi la nazione italiana, purificandola dalle colpe di cui si era macchiato il regime.

In che modo il PCI ha fondato sul “popolo” la propria politica culturale, la via italiana al socialismo, l’interpretazione dei movimenti di liberazione nazionale?
Il “popolo” rimase al cuore della narrazione comunista per tutto il ventennio compreso tra la fine degli anni ’40 e la fine degli anni ’60.

Gli anni ’50, in particolare, furono gli anni di maggior cementazione dell’ideologia e dell’organizzazione comunista sul territorio nazionale. Alla base di questo rafforzamento vi erano alcune operazioni fondamentali nelle quali il discorso sul “popolo” giocò un ruolo di primaria importanza. Il partito diede infatti impulso alla politica di “popolarizzazione” e si adoperò per diffondere i propri modelli ideali, popolari, nella vita dei singoli militanti.

“Popolarizzare” la linea del partito, per usare le parole del rotocalco comunista, significava “mobilitare il popolo”, “raccoglierlo e orientarlo verso il socialismo”, per la qual cosa occorreva “essere costantemente in mezzo al popolo con la parola, con l’esempio e con le azioni“ («Vie nuove», 27 giugno 1948). La popolarizzazione, non una parola d’ordine ufficiale ma una vera e propria direttiva costantemente riproposta su stampa, discorsi pubblici o a congresso, doveva essere portata avanti in prima istanza tramite il complesso sistema delle scuole di partito. Ma anche tramite la stampa e l’editoria, che subivano un profondo processo di ristrutturazione e un’esponenziale crescita delle testate; si guardò a diversi target sociali (bambini, ragazzi, donne, operai, agricoltori, intellettuali, gente comune) quindi a diversi ambiti di interesse con uscite dedicate (varietà e cultura, economia, infanzia, arte, letteratura, mondo e cultura sovietica, scienza, scuola, e così via). Poi attraverso la diffusione di materiale propagandistico tramite il sempre meglio organizzato lavoro nelle sezioni e nelle federazioni. Tramite l’organizzazione del tempo libero grazie alle case del popolo, alle feste de l’Unità, e alle tante altre iniziative sociali. Attraverso la Fondazione Antonio Gramsci di Roma e, più tardi, la rete degli Istituti Gramsci, nati per la popolarizzazione del pensiero e delle opere del leader scomparso.

Anche la politica culturale fu incentrata retoricamente sul “popolo”. L’arte, spiegava Togliatti, non poteva essere arte se non era espressione del “popolo” e “al servizio del popolo”. Questa concettualizzazione riecheggiava consapevolmente l’idea gramsciana dell’intellettuale “organico”, il quale, abbandonata l’eloquenza, avrebbe dovuto calarsi “attivamente” nella vita pratica delle masse.

Popolarizzare la linea del partito significava in fondo diffondere il marxismo-leninismo, fidelizzare i simpatizzanti, coinvolgere la cittadinanza nelle iniziative del partito, capillarizzare i canali di comunicazione politica secondo l’adagio “una sezione per ogni campanile”. Significava, in ultima istanza, creare un’egemonia.

Tuttavia, dalla seconda metà degli anni ’50, il discorso del PCI subì una progressiva idiomatizzazione, ossia un’eccessiva reiterazione di elementi che ne comportarono una perdita di efficacia politica.

Oltretutto, con il XX Congresso del PCUS nel febbraio del 1956, la destalinizzazione e la denuncia del culto della personalità di Stalin, il cui mito, propagandisticamente, si era enormemente basato sul parallelismo tra i popoli italiano e sovietico, avevano posto il partito in una situazione complicata. L’uscita dall’impasse, dopo mesi di silenzio-stampa squarciati dall’intervista togliattiana su «Nuovi argomenti» del maggio-giugno 1956, fu risolta ancora una volta con una narrativa che metteva al centro il “popolo”.

L’unico schermo contro ogni tipo di “burocratizzazione”, “violazione della legalità”, e “degenerazione”, aveva chiarito Togliatti, era proprio lo “stretto contatto con le masse popolari”, venuto meno nell’URSS stalinista. Per questo, il partito sarebbe dovuto arrivare al socialismo con strategie proprie, specifiche, e nazionali. La “via italiana al socialismo”, sancita nel dicembre con l’VIII Congresso, venne inserita (forzosamente) entro una tradizione comunista che (altrettanto forzosamente) si presentava come “naturalmente” incentrata sulla narrazione del popolo: il “blocco sociale” del pensiero gramsciano, i fronti popolari, l’unità popolare della Resistenza, il “partito nuovo” di massa e la “democrazia progressiva” togliattiani, la svolta di Salerno.

Del resto, anche le agitazioni operaie del luglio 1960 sarebbero state inserite entro una narrazione resistenziale basata sull’unità popolare.

Inoltre, negli stessi anni la categoria di “popolo”, standardizzata secondo modelli statici di riferimento, forniva una chiave di lettura interpretativa di fenomeni e realtà socio-politiche e culturali internazionali. Sulla stampa comunista, infatti, la rivoluzione cubana, l’opposizione ai regimi autoritari europei di António de Oliveira Salazar in Portogallo o di Francisco Franco in Spagna, le vicende del popolo greco, le lotte di liberazione nazionale in Africa o in Asia, la lotta degli indiani e degli afro-americani per i diritti civili negli Stati Uniti erano tutti compresi entro una medesima cornice di senso e tutti espressione di una medesima battaglia per la libertà e la giustizia.

Quale ruolo assume il “popolo” nella nascita del compromesso storico?
Negli anni ’70, Berlinguer recuperò il discorso sul “popolo” come base narrativa della concettualizzazione del “compromesso storico”. Ancora una volta, il neo-segretario inseriva la nuova politica entro il fil rouge della tradizione comunista, nella filiera politica che aveva unito il pensiero gramsciano a quello togliattiano.

Prima espressione pubblica del “compromesso stoico” furono i tre articoli usciti su «Rinascita» nell’ottobre del 1973 col titolo Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile.

Nell’Italia sconvolta dal terrorismo di matrice rossa e nera, vi spiegava, era realistico immaginare un potenziale rovesciamento delle conquiste democratiche per mano di forze reazionarie. I recenti avvenimenti cileni, dove l’11 settembre le forze del generale Augusto Pinochet avevano deposto con un colpo di Stato il legittimo governo democratico di Salvador Allende, fornivano in tal senso una importante lezione.

Berlinguer postulava allora la necessità di recuperare quel processo di rinnovamento iniziato con la Resistenza, che aveva messo al centro del discorso proprio il “popolo” e che era stato interrotto, spiegava, con la rottura dell’unità nel 1948 a causa del prevalere dei gruppi conservatori nella DC. A garanzia della democrazia doveva quindi essere creato un “blocco di forze sociali”: non una “alternativa di sinistra”, chiariva, ma una “alternativa democratica”, cioè la prospettiva politica di una collaborazione tra forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica.

In che modo il “popolo” ha caratterizzato la politica degli ultimi anni della storia del PCI?
Forse sarebbe meglio parlare di come il popolo non abbia caratterizzato l’ultimo discorso del partito. Infatti, dopo una stagione di forte riattualizzazione discorsiva durante gli anni ’70, che avevano visto il “popolo” al centro della narrazione come “compromesso storico”, revival propagandistico della Resistenza, retorica sulla lotta vietcong, e come utilizzo dell’aggettivazione “popolare” per ogni iniziativa del partito, il lemma conobbe un lungo e freddo inverno.

Dalla metà degli anni ’80, il PCI smise di parlare del popolo, e quindi anche al popolo. Un caso eclatante è costituito dalla quasi totale assenza della parola nella descrizione dei funerali di Berlinguer su «l’Unità» del 14 giugno 1984, che sceglieva termini ben più generici e meno politicamente orientati come “tutti”, “gente”, “piazza”, “folla”, “marea”, “città”.

In quegli stessi anni, in concomitanza con la pluralizzazione delle istanze politiche determinata anche dall’atomizzazione della lotta alla fine degli anni ’70, cambiava il target stesso della politica del partito: dal “popolo” alla “società civile” colta e intellettuale, espressione di una fetta sociale più esigua, quella che Paul A. Ginsborg ha chiamato il «ceto medio riflessivo».

Il discorso del partito finiva così per perdere quella componente populista che aveva caratterizzato da decenni la sua retorica politica. E alla restante parte del popolo, abbandonato prima dalla retorica comunista e poi dalla sinistra democratica, avrebbero cominciato a parlare i populismi con sempre maggior efficacia comunicativa.

Giulia Bassi è dottore di ricerca presso l’Università di Trieste e la University of Reading, docente di Storia contemporanea all’Università di Parma e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale. Si occupa di storia politica e storia della storiografia del XX secolo in riferimento alla tradizione marxista e comunista. Su questi argomenti ha scritto articoli e saggi ed è curatrice del volume Words of Power, the Power of Words. The Twentieth-Century Communist Discourse in International Perspective (EUT, 2019).

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