
Cosa significa essere laici?
Molto spesso quando si parla di “laicità” si tende a contrapporla alla fede. Ma il contrario del laico non è il credente, ma il fondamentalista, ossia quel particolare credente che ritiene che la società debba improntare le proprie norme alla sua fede. Pensiamo a un tema come l’aborto: per il laico (credente o no) lo Stato deve garantire la massima libertà e assistenza alla donna, alla quale sola spetta la decisione finale (che noi possiamo condividere o meno); per il fondamentalista, poiché Dio (naturalmente sempre per il tramite dei suoi interpreti in carne e ossa) ha deciso che l’aborto è un peccato, esso va vietato a prescindere dalla volontà delle donne. Insomma, è la distinzione fra autonomia e eteronomia. È perfettamente pensabile una società completamente laica, in cui vigano leggi molto liberali su temi come l’aborto, il divorzio, l’eutanasia ecc, e dove non ci sia nessuno che ricorra all’aborto, al divorzio, all’eutanasia. Le leggi laiche hanno infatti questo di peculiare. Sono sempre leggi che consentono di fare qualcosa, che mai impongono.
E, si badi, la laicità non ha che fare solo con la religione. È in generale quell’atteggiamento che rifiuta il principio di autorità, da ovunque esso provenga, e si ispira invece al kantiano “Sapere aude!”, abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza.
Perché si può affermare che solo una visione etica e politica radicalmente laica sia oggi in grado di ricomporre disomogeneità culturale e diritti delle persone?
Non c’è alcun dubbio che i diritti umani universali, il cui soggetto è il singolo individuo, entrino spesso e volentieri in conflitto con usi, costumi, tradizioni culturali. Noi abbiamo una visione un po’ naif delle culture, ridotte a folklore culinario, musicale, di abbigliamento. Ma ahimè le culture si portano appresso – da sempre e ovunque nel mondo – una serie di obblighi, divieti, imposizioni che regolano spesso fino a soffocarla la vita delle persone, e delle donne in particolare. E la lotta per il riconoscimento dei diritti individuali è sempre stata una lotta contro le tradizioni. Il matrimonio riparatore era un istituto giuridico che affondava saldamente le radici nella nostra cultura. Nel rifiutarlo, Franca Viola nel 1968 mise in discussione una cultura antica e radicata, e così fanno in tutto il mondo coloro che lottano per i diritti umani. La laicità è l’unica cornice che consente di avere il massimo della diversità possibile in termini culturali nei limiti del rispetto dei diritti umani fondamentali. Il che naturalmente significa che alcuni aspetti delle diverse culture sono, in una prospettiva laica, inaccettabili. È il ben noto paradosso della tolleranza: non si possono tollerare gli intolleranti, pena la morte della democrazia. Allo stesso modo non si possono accettare istituti culturali che negano i diritti umani, pena la rinuncia ai diritti umani. I quali o sono universali, o si chiamano privilegi.
Centrale nella Sua analisi è il concetto di identità: come si declina nella società contemporanea?
Identità è una parola che ormai nel dibattito pubblico è diventato un oggetto contundente, utilizzato per contrapporre un artificioso “noi” a un altrettanto artificioso “gli altri”. Io penso che la parola identità vada usata con grande cautela e vada riferita esclusivamente ai singoli individui. Parlare di “identità” collettive, di gruppi, di comunità è molto rischioso. Ma anche in riferimento all’individuo, l’identità va pensata come un prisma sempre cangiante, mai uguale a se stesso. La “mia” identità è costituita dagli infiniti fili che tessono la mia vita, dalle innumerevoli radici in cui affonda la mia esistenza, dalle diverse esperienze che ho fatto e, cosa centrale, dal mio personalissimo e irreplicabile modo di elaborare e riflettere su quelle radici e quelle esperienze. Un concetto di identità siffatto non è più utile come bandiera politica da brandire contro nemici immaginari.
Quali sono i rischi insiti nel comunitarismo e nel multiculturalismo?
Questi due filoni di filosofia politica, che differiscono per alcuni aspetti ma che possono essere nella sostanza accomunati, si fondano su una fallacia originaria: l’idea che le culture siano degli oggetti identificabili, con dei contorni precisi, sempre uguali a se stessi e che vadano “rispettate” in quanto tali, senza poterle mettere in discussione. Peccato che le culture non siano degli oggetti ma dei processi. Dei processi sociali in costante evoluzione, impossibile da fotografare in un istante. Soprattutto sono contraddittorie al loro interno, e dunque quando si dice che bisogna “rispettare” una cultura, di quali aspetti di quella cultura si sta parlando? La cosa straordinaria delle culture è esattamente la loro capacità di mutare, di cambiare, di evolversi sotto la spinta di movimenti interni (pensiamo di nuovo a Franca Viola) che le mettono in discussione e che consentono alla società di compiere passi avanti in termini di diritti e libertà. Rispettare le culture significa invece, in sostanza, mantenere lo status quo. L’atteggiamento dei multiculturalisti poi è pernicioso e a tratti razzista: le culture che vanno “rispettate”, ossia che non possiamo mettere in discussione, sono sempre quelle “degli altri”, ai quali quindi non si riconosce quella soggettività capace di cambiamento che invece viene riconosciuta alla “nostra” di cultura. Uso le virgolette perché è proprio questa narrazione che ci vuole divisi fra “noi” e “gli altri” che penso vada messa in discussione. Io mi riconosco nella massima di Publio Terenzio Afro: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», sono un essere umano, e in quanto tale niente di ciò che riguarda altri esseri umani mi è estraneo.
Nel libro Lei afferma che una delle sfide principali alla laicità in Europa è rappresentata dall’Islam: in che modo è necessario impegnarsi per non lasciare l’egemonia culturale ai fondamentalisti?
Diretta conseguenza dell’atteggiamento che ho appena descritto, è che siamo perfettamente in grado di vedere il fondamentalista che è in noi ma non quello che proviene da culture a noi più distanti. L’islam è una religione che ormai però è presente in Europa da diverso tempo e non possiamo più permetterci un atteggiamento ingenuo, incapace di vedere i problemi. Così come non esiste un solo modo di essere cristiano, e persino cattolico, non esiste un solo modo di essere musulmano. Anzi, questa pluralità nell’Islam è ancora più radicale perché questa religione non ha una struttura gerarchica come le Chiese cristiane, e quella cattolica in particolare. Insomma, non c’è un papa musulmano, né vescovi, né preti. Il che dovrebbe innanzitutto indurci a non appiattire tutto l’islam in quella che invece è la sua versione più fondamentalista. Prendiamo la questione del velo. I fondamentalisti diranno che è un obbligo di fede e che le donne che non indossano il velo non sono “vere” musulmane. Ma i milioni di donne musulmane che non lo indossano sono la dimostrazione vivente che questo non è vero (senza voler entrare nel merito di cosa dica “davvero” il Corano su questo come su altri punti, cosa che interessa gli esegeti dei testi, ma non deve interessare il dibattito pubblico nel quale conta solo come le persone vivono di fatto la propria fede). E allora, se il Museo egizio di Torino, per promuovere una sua campagna presso la popolazione araba, sceglie una donna col velo sul suo manifesto compie una doppia riduzione: degli arabi sui musulmani (una delle più diffuse confusioni sul tema) e delle musulmane sul velo.
Quello che invece le forze laiche dovrebbe fare è riconoscere il pluralismo nell’ambito dell’islam europeo e cercare al suo interno di valorizzare le forze liberali e laiche, che non mancano ma che molto spesso non trovano sponde.
Quali prospettive, a Suo avviso, per lo Stato democratico e liberale?
Io penso che il futuro della democrazia liberale dipenda da una scelta di campo: stiamo senza se e senza ma dalla parte dei diritti umani che fanno capo ai singoli soggetti o ci inchineremo di fronte alle richieste di diritti speciali di gruppo? In una vecchia ma emblematica vicenda che racconto nel libro, la Corte suprema americana concesse a una famiglia amish di ritirare i propri figli da scuola prima della fine dell’obbligo scolastico. In nome della comunità, si decise di sacrificare il diritto allo studio di quei bambini. Naturalmente, compiere la scelta opposta – cioè tutelare sempre e comunque i diritti umani – potrebbe portare a conflitti con le comunità, ma è una scelta ineludibile perché una cosa è certa: non scegliere significa, sempre, stare dalla parte di chi viola e opprime i diritti degli altri.
Cinzia Sciuto è redattrice di MicroMega. Ha studiato filosofia e scritto La Terra è rotonda. Kant, Kelsen e la prospettiva cosmopolitica (Mimesis, 2015) e Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli , 2018). Il suo blog è animabella.it