
Quale retaggio etico è possibile rinvenire all’interno dell’opera del massimo storico greco, Tucidide?
Per formazione e per principi metodologici Tucidide è, già per la sua epoca, uno storico moderno, attento cioè alla ricostruzione oggettiva e scientifica dei fatti e alla loro rigorosa interpretazione in chiave antropologica e politica. Perciò egli non esterna quasi mai giudizi morali intorno alle vicende che narra, tranne che in rare ma significative circostanze. Una di queste è la famosa guerra civile (stàsis) di Corcira tra aristocrazia e demos, scoppiata nell’ambito del più ampio conflitto tra l’aristocratica Sparta e la democratica (“borghese”) Atene. Di questa guerra civile Tucidide analizza la genesi e il decorso, soffermandosi in particolare sulla varia fenomenologia che accompagna il rapido e drammatico disfacimento della compagine sociale: disprezzo di ogni legalità, lotta violenta senza esclusione di colpi fra le fazioni contrapposte, degradazione e mutazione del linguaggio etico e politico messo al servizio della menzogna e della sopraffazione di parte anziché della verità e del bene superiore della città. La stasis di Corcira viene insomma sottoposta ad una osservazione analitica e complessa, degna di un sociologo e di un politologo moderno. E tuttavia i mali della guerra civile che questa analisi evidenzia assomigliano sensibilmente a quelli che il poeta arcaico Esiodo aveva già elencato a proposito della discordia e del conflitto, fisico e verbale, interno ad una comunità. Inoltre la riflessione intorno alla guerra come maestra violenta (bìaios didàscalos), cioè come circostanza che impoverisce e imbarbarisce l’uomo e lo costringe, come un maestro che ricorra a metodi maneschi e coercitivi, a comportamenti immorali e spietati, rimanda a passi della poesia elegiaca, vale a dire al Corpus Theognideum. Questi richiami alla poesia arcaica di stampo didascalico, gnomico e moraleggiante sorprendono in Tucidide: sia perché contrastano con il suo esplicito disprezzo verso la poesia greca arcaica in quanto ricettacolo di tradizioni, miti e leggende inservibili sul piano storico; sia soprattutto perché dimostrano quanto la spregiudicata modernità storiografica di Tucidide trovi per così dire un limite per lui non superabile nella morale aristocratica tradizionale alla quale egli mostra ancora di aderire convintamente. Non per caso, a conclusione della narrazione della stasis di Corcira, egli deplora apertamente – fra le conseguenze deleterie di quella sanguinosa vicenda – proprio la scomparsa della antica semplicità dei costumi, quella custodita e tramandata di generazione in generazione, specialmente dalla classe aristocratica cui egli apparteneva.
Quali analogie e quali differenze, rispetto alla tradizione epica, emergono dalla lettura della Teogonia di Esiodo? E quale concezione della guerra emerge dalla narrazione bellica esiodea?
Esiodo, a differenza di Omero, non narra mai la guerra umana. Nella Teogonia le scene di battaglia sono esclusivamente teomachie, cioè battaglie fra Zeus e le divinità sue nemiche, come avviene nella Titanomachia (lo scontro tra Zeus e i Titani) o nella Tifonomachia (il duello di Zeus contro il mostro Tifone, un episodio per altro sospetto di essere una aggiunta tardiva). Come rilevo in uno dei miei tre contributi esiodei presenti nel libro (l’articolo dedicato alla Titanomachia), queste battaglie sono narrate con piglio pienamente eroico e con dovizia di ingredienti e di particolari tipici della tradizione epica quale è rispecchiata nell’Iliade: si situano perciò, per il linguaggio e la tipologia delle scene, nel solco di quella tradizione, se non fosse che le teomachie hanno da un lato una grandiosità scenografica ed effettistica maggiore, ma dall’altro sono prive della componente tragica (il sangue e la morte) che è invece – et pour cause – dominante nella guerra umana. Ma se non descrive mai scene umane di battaglia, Esiodo parla spesso della guerra degli uomini, e sempre (soprattutto ne Le opere e i giorni) in termini di condanna morale netta ed esplicita. Questo è uno dei punti di sostanziale distanza da Omero e dalla tradizione epica ionica con cui pure Esiodo condivide la lingua e il metro. Mentre nel mondo divino della Teogonia le battaglie di Zeus sono, oltre che momenti di glorificazione del sommo dio, anche strumenti necessari alla costruzione e al consolidamento del suo regno (che è il regno dell’ordine e della giustizia), nel mondo umano cantato ne Le opere e i giorni la guerra e il conflitto sono, al contrario, sempre nefasti compagni della degradazione etica e del disordine sociale. Nel mondo degli uomini il conflitto e la violenza sono sempre figli della Eris (la ‘Contesa’) malvagia. Esiodo, da contadino/rapsodo qual era, aborrisce, direi naturalmente, la guerra come nemica del lavoro dei campi e della giustizia sociale. Ma non sarebbe appropriato definirlo modernamente un ‘pacifista’. Esiodo crede infatti che alla base di un giusto ed ordinato vivere civile ci sia comunque una forma di conflittualità, seppure positiva e costruttiva: è quella che egli chiama la buona Eris, cioè la ‘Contesa virtuosa’ che stimola alla sana competizione nel lavoro, al procacciamento legittimo della ricchezza e alla sua giusta distribuzione.
Qual è la concezione dell’eros in Lucrezio e in Orazio?
Entrambi i poeti sono, anche se in diversa misura, epicurei, e questa comune matrice filosofica si riflette senz’altro sul loro modo di concepire e rappresentare l’eros. Ma anche qui tra ciò che un poeta professa consapevolmente e ciò che un poeta intimamente è (e sente nel profondo) si apre talora uno iato, se non una dicotomia o una tensione. Lucrezio è (vuole essere) un epicureo ortodosso e perciò condanna senza riserve, sulla scorta del maestro, l’amore come innamoramento per il semplice motivo che esso, in quanto tale, travolge nella follia le difese razionali dell’individuo e lo rende infelice e schiavo della passione. Perciò l’innamoramento va evitato e fuggito in tutti i modi e l’eros va fruito solo come puro piacere sessuale avulso da coinvolgimenti emotivi intensi e duraturi: rivolgendosi, insomma, soltanto a rapporti occasionali con prostitute. Detta così, come Lucrezio fino a un certo punto si esprime, egli si muove dentro i confini dottrinari – molto discutibili nella fattispecie, sul piano filosofico, ma inequivocabili – dell’epicureismo. Ma poi Lucrezio si mette, in celebri versi del finale del IV libro del De rerum natura, a descrivere direttamente (e icasticamente) la passione d’amore: prima nei momenti più incandescenti del desiderio e della sua fruizione fisica, poi in quelli psicologicamente tormentosi della dissipazione esistenziale e della gelosia. E quello che ne emerge è, visibilmente, un senso di attrazione-repulsione personale verso questa esperienza fondamentale della vita umana, come se egli l’avesse vissuta patendone una delusione cocente e una frustrazione irrimediabile. Se ne ricava insomma la netta impressione che gli argomenti epicurei che Lucrezio sviluppa contro l’eros non siano altro che la razionalizzazione filosofica di un profondo trauma personale: con ragione il grande latinista Concetto Marchesi diceva in proposito che, per come descrive l’amore, Lucrezio pare sia passato “attraverso le braccia di una donna e ne sia uscito come intossicato”.
Per Orazio il discorso è ancora più complesso. In superficie Orazio sembra seguire il comandamento epicureo del distacco dalla passione e della fruizione serena e disimpegnata dell’eros. In effetti non esiste in lui testimonianza di un amore esclusivo e coinvolgente (come per esempio in Catullo o in Properzio). Le figure femminili che compaiono nella sua poesia (nelle Odi in particolare) sono molteplici, quasi interscambiabili, e portano significativamente i nomi (greci) tipici delle etère dell’epoca: escort, per capirci, donne di bassa estrazione sociale anche se spesso molto raffinate ed affascinanti con cui Orazio (single per scelta) mostra di aver intrattenuto rapporti instabili e passeggeri. Eppure non sempre queste esperienze sembrano essere state scevre di implicazioni sentimentali più profonde e sofferte (penso soprattutto al rapporto con Lidia), anche se Orazio tende a distanziarsene, a relativizzarne la portata dall’alto di una equilibrata (ma non sempre imperturbabile) saggezza. Ma anche ammesso che l’amore non sia mai stato per lui una esperienza fatale ma solo un gioco galante e sensuale, la sua poesia erotica si lega comunque spesso ai temi, per lui serissimi (e ricorrenti), del sentimento del tempo e del carpe diem. E questo complica e arricchisce notevolmente la visione oraziana dell’eros rispetto ad Epicuro e a Lucrezio. Il pensiero costante, quasi assillante, che i piaceri e i giochi d’amore sono effimeri e soggetti alla legge inesorabile del tempo impedisce infatti ad Orazio di guardare loro con l’autentica e piena serenità del saggio epicureo. All’ironia di cui fa oggetto i personaggi stoltamente inconsapevoli di quella legge si accompagna infatti frequentemente la malinconia: una malinconia profonda e invincibile, sottilmente angosciosa, perché non v’è saggezza capace di risarcire la perdita della giovinezza e del suo frutto più ambito.
Quali elementi caratterizzano la traduzione leopardiana della Titanomachia esiodea?
Leopardi si cimentò a diciannove anni con la traduzione del pezzo epico (lui lo chiama aulicamente il gherone) più famoso della Teogonia esiodea: la Titanomachia. Lo fece non perché provasse una grande attrazione per la poesia di Esiodo o avesse con essa una grande familiarità, ma perché riteneva quel pezzo un sommo esemplare di “sublime terribile” della poesia greca arcaica. Una poesia (Omero in primis) che egli venerava, in quel momento, come ‘poesia di immaginazione’, di una semplicità e di una naturalezza, secondo lui, mai eguagliata dai moderni. Si trattava quindi, per Leopardi, di una gran bella sfida traduttiva che per altro, con un pizzico di disinvoltura, egli spacciò per nuova e intentata. In realtà c’erano già stati altri traduttori italiani della Teogonia (e quindi della Titanomachia) tra il seicento e il settecento. Ma Leopardi non li cita, anche se con ogni probabilità se ne servì (anche perché li possedeva nella sua biblioteca). Il risultato artistico di questo esercizio di traduzione poetica resta comunque notevole: intanto perché Leopardi si emancipa dal grado letterario medio e un po’ incolore delle traduzioni settecentesche che egli aveva a disposizione, per riprodurre in forme e tonalità espressive forti, a tratti molto incisive e pregnanti, lo spirito, più che la lettera, dell’originale; e poi perché nel tentativo, spesso riuscito, di rendere la sublimità terribile del testo greco egli si affida a una aggettivazione (in particolar modo a quella relativa alla grandiosità degli spazi cosmici in cui imperversa la teomachia) che anticipa la poesia maggiore, in particolare l’Infinito che sarà composto due anni dopo.
In un articolo del suo libro Lei sfata la diffusa convinzione di un rapporto di diretta derivazione tra Leopardi e Lucrezio: come bisogna dunque interpretare le convergenze tra i due poeti?
Resto convinto, a distanza di molti anni dalla pubblicazione di quell’articolo (Lucrezio in Leopardi: ulteriori note ed osservazioni) che Leopardi abbia letto pochissimo e male Lucrezio: pochissimo, perché le non molte risonanze o citazioni lucreziane che affiorano nella sua opera risultano, alla prova filologica dei fatti, ingannevoli o insignificanti; male, perché quel poco che ha letto sembra averlo letto ‘scolasticamente’ (limitandosi cioè a brevi e isolati passi arcinoti del poema lucreziano, come qualche proemio e qualche finale) o strumentalmente, cioè recuperandolo – spesso attraverso citazioni frammentarie o rimandi che trovava presso altri autori – per interessi eruditi, estetici o filosofici contingenti. Insomma: una lettura diretta, ampia e meditata del De rerum natura con ogni probabilità non è mai avvenuta. Eppure la critica novecentesca, non a torto, ha spesso rilevato affinità profonde di pensiero e di sensibilità poetica fra i due: dal materialismo edonistico alla polemica antireligiosa e antiprovvidenzialistica, dal sentimento dell’infinito al gusto delle grandi rappresentazioni cosmiche, tanto per ricordare solo i più evidenti punti di tangenza. Si tratta evidentemente di convergenze, per quanto macroscopiche, casuali. Molto del materialismo leopardiano, per esempio, non deriva dall’atomismo antico ma attinge al pensiero settecentesco. Inoltre la scarsa simpatia leopardiana per la filosofia epicurea in sé deve aver costituito un robusto ostacolo pregiudiziale alla lettura di Lucrezio.
Paolo Mazzocchini è ex insegnante di lettere e studioso di letteratura classica e leopardiana, autore di testi scolastici e scrittore. Ha prodotto numerosi articoli raccolti in gran parte nella miscellanea Noctes vigilare serenas (Aracne, 2010); una monografia sulla rappresentazione virgiliana della guerra (Forme e Significati della narrazione bellica nell’epos virgiliano, Schena 2000); una edizione critica commentata della Titanomachia di Esiodo di Giacomo Leopardi (Salerno 2005); e due antologie tematiche scolastiche di letteratura latina (Canova 2004-05). Ultimamente ha pubblicato due pamphlet sulla scuola superiore italiana (La scuola del P(L)OF, Aracne 2008; Studenti nel paese dei balocchi – Lettera di un insegnante a un genitore, Aracne 2007). È inoltre autore di due raccolte di racconti (L’anello che non tiene, Aracne 2013; Nota di addebito, Ensemble 2018) e di tre raccolte di poesie (Zero termico, Italic Pequod 2014; Chiasmo apparente, Lietocolle 2015; Pietra e farfalla, Ladolfi 2017). Ha pubblicato anche due brevi sillogi di aforismi: La domestica di Einstein. Aforismi (2017) e Motti (neo)latini. Aforismi (2021), entrambi con l’editore FuocoFuochino. Cura il blog Saturalanx.