“Nobili contraddizioni. Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento” di Francesca Sgorbati Bosi

Nobili contraddizioni. Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento, Francesca Sgorbati BosiDott.ssa Francesca Sgorbati Bosi, Lei è autrice del libro Nobili contraddizioni. Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento, edito da Sellerio: che scontro si combattè, lungo tutto l’arco del XVIII secolo, tra Francia e Inghilterra nei salotti, nei club e sulle pagine dei giornali?
Lo scontro fu unilaterale. I francesi ammiravano molto l’Inghilterra: Voltaire, ad esempio, aveva scritto in termini entusiastici del paese, della società, del suo sistema politico, dei suoi giornali. E nella seconda metà del secolo, tra i francesi si diffuse una marcata anglofilia.

Le ‘ostilità’ furono aperte dagli inglesi, e lo scontro fu combattuto da tutta la nazione su più fronti, senza esclusione di colpi.

Per loro la Francia era e rimaneva l’eterno nemico, con l’aggravante che era un paese cattolico (quindi oscurantista), retto da un sovrano assolutista ma con una popolazione tripla rispetto all’Inghilterra, un esercito imponente e un’economia di tutto rispetto. Insomma, una potenza temibile e minacciosa dall’altra parte della Manica.

Inoltre la Francia esercitava una forte influenza culturale: l’aristocrazia di tutta Europa parlava francese, vestiva secondo la moda francese, si acconciava e si truccava alla francese, adorava i prodotti di lusso che la Francia produceva e, se possibile, mangiava alla francese, perché i trattati di cucina pubblicati dai cuochi più famosi erano avidamente consultati anche all’estero.

Gli autori francesi erano molto apprezzati, i filosofi francesi corrispondevano con i sapienti di tutta Europa, il galateo francese era seguito ovunque e la socialità dei salotti parigini era considerata inarrivabile per grazia, brio e fascino. Anzi, era convinzione diffusa che solo frequentando i salotti francesi una dama e un gentiluomo potessero diventare veramente tali.

Era più che sufficiente per irritare gli inglesi, che si posero una semplice domanda, per tutto il secolo: se gli inglesi erano un popolo superiore a tutti, se avevano il miglior sistema politico al mondo ed erano particolarmente cari a Dio (cosa su cui tutti convenivano), perché farsi influenzare dalla cultura di un popolo straniero, nemico, seguace di una religione oscurantista, e per giunta servo di un despota?

All’inizio del secolo, ad aprire le ostilità fu l’autorevole e seguitissimo quotidiano The Spectator, cui poi si aggiunsero gli altri quotidiani, i trattati di pedagogia, i manuali di galateo, le poesie e i pamphlet politici, i quadri e le stampe satiriche, i romanzi.

I francesi erano sempre dipinti come frivoli, effemminati, falsi, ipocriti, superficiali, vanitosi, viziosi. E le francesi erano accusate di essere bruttine, false e corrotte.

Inutile dire che il popolino e la borghesia non stentavano a crederlo: ritenendo i francesi nemici da sempre, era giusto pensarne tutto il male possibile.

Che funzione doveva svolgere la politeness?
Su questo tema, si discusse per tutto il secolo. E non solo in Inghilterra.

Era idea condivisa che l’Uomo fosse un essere sociale, che cresceva e si sviluppava armoniosamente solo in un continuo rapporto con i suoi simili.

Più raffinato e colto era l’ambiente sociale in cui cresceva, più raffinato e colto sarebbe diventato un individuo.

Un individuo – da solo – non poteva essere né felice né civile né poteva sviluppare le doti che abbellivano la natura umana. Anche da un punto di vista pratico, senza una famiglia alle spalle e un’estesa cerchia di amicizie e conoscenze, sopravvivere era durissimo per chiunque.

Perché i rapporti sociali fossero armoniosi, gli individui dovevano seguire regole precise, condivise da tutti. Queste regole costituivano la politeness, che noi italiani chiameremmo galateo. La politeness poteva definirsi l’arte di piacere, e senza quest’arte un individuo, anche se meritevole, intelligente e colto, non avrebbero potuto farsi apprezzati dagli altri. O addirittura li avrebbero allontanati.

Le regole della politeness non erano solo “i cardini su cui gira la grande macchina della società”, smussando gli inevitabili attriti che si creavano nei rapporti sociali: era anche ciò che poteva e doveva rendere migliore gli esseri umani.

La politeness non consistevano solo nell’esibire maniere cortesi, che facilitavano i rapporti umani e si potevano imparare facilmente. Influiva anche sul carattere e sulle idee, dato che – teoricamente – una persona cortese doveva per forza essere moderata e tollerante, gradevole e amabile, disponibile e generosa, leale e onesta, equilibrata e misurata, aliena da fanatismi, pedantismi, eccessivi entusiasmi.

In questo non si differenziava dalla politesse francese e del galateo italiano.

Ma c’erano altri aspetti che rendevano la politeness inglese unica rispetto a quella francese e italiana.

In cosa il nuovo galateo si differenziava dall’etichetta francese?
Né in Italia, né in Francia le buone maniere furono concepite in senso nazionalistico, e funzionali a una politica di espansione in tutti i continenti.

Al contrario, il galateo inglese fu messo a punto con scopi ben precisi:
– differenziarsi in tutto dai francesi e rigettare ogni loro influenza
– forgiare una nazione di eroi capaci di rendere l’Inghilterra la massima potenza mondiale

Un perfetto gentiluomo inglese non doveva limitarsi a brillare nei salotti e nei club: doveva brillare in Parlamento e dimostrarsi una risorsa concreta per la sua nazione, di cui doveva contribuire a edificare la grandezza e la prosperità. In ogni modo, ovunque.

Questo semplice concetto servì egregiamente ai nobili per giustificare agli occhi della nazione il loro splendido stile di vita: i loro immensi parchi abbellivano il paese, le loro collezioni d’arte lo arricchivano di capolavori, i loro palazzi ne aumentavano il prestigio, la loro dispendiosa eleganza aiutava lo sviluppo del commercio, dell’artigianato e delle manifatture.

La loro guida pilotava la nazione verso un destino di gloria e di ricchezza.

Oltre a questa significativa differenza, la politeness inglese si differenziava da quella francese in molti altri punti

I francesi venivano giudicati troppo cerimoniosi e complimentosi. Gli inglesi preferivano modi più franchi, semplici e diretti, considerando cerimonie e complimenti pericolosamente affini all’ipocrisia, dunque indegni di un popolo per natura onesto, sincero e leale.

I francesi erano giudicati troppo ciarlieri. Gli inglesi erano certi di essere per natura timidi e riservati: parlare senza fare sfoggio di spirito, parlare poco o restare silenziosi non era un peccato o una sgarberia, ma virtuosa modestia.

Per i francesi il cuore della socialità era il salotto, per gli inglesi il cuore della socialità erano il club, gli sport, il Parlamento, ciò ambiti da cui le donne erano escluse.

Per i francesi il piacere supremo della socialità era la buona conversazione, che nasceva quando il brio e la sensibilità femminile incontravano la sagacia e la cultura maschile. Gli inglesi ritenevano le donne inferiori per intelligenza, istruzione e carattere, non cercavano affatto la loro compagnia e volevano che in pubblico si mantenessero il più possibile riservate e silenziose, limitandosi ad ascoltare con interesse i discorsi degli uomini e porre di tanto in tanto domande pertinenti.

Laddove nei salotti francesi uomini e donne parlavano tra loro, nei salotti inglesi i due sessi si dividevano, donne con donne, uomini con uomini.

Un vero francese doveva essere sempre galante con una donna, anche in assenza di coinvolgimento erotico o sentimentale. Gli inglesi ritenevano che quel tipo di galanteria fosse insincera, ipocrita o subdolamente seduttiva, dunque peccaminosa e colpevole. Solo con le donne che si conoscevano bene, possibilmente della propria famiglia, la galanteria era ammessa, perché fondata su sentimenti di affetto reale.

I francesi del Settecento, pur ritenendole inferiori, riconoscevano la competenza delle donne in fatto di bellezza, grazia ed eleganza, e da secoli ritenevano che fossero per gli uomini uno stimolo a dare sempre il meglio di sé. Per gli inglesi la donna rendeva l’uomo infantile, effemminato e debole.

In Francia le donne godevano di grande considerazione, e riuscivano a esercitare una notevole influenza a livello politico, sociale e culturale. Gli inglesi vollero che le donne non dimenticassero mai di essere inferiori, e limitarono la loro sfera di influenza esclusivamente alla casa e alla famiglia.

Nell’ultimo quarto del secolo, si arrivò a considerare la donna degna di venir trattata con gentilezza e cavalleria solo se esprimeva le doti tipiche per natura delle donne inglesi: sensibilità, sentimento, delicatezza e fragilità, che dava occasione ai gentlemen di comportarsi con protettiva cavalleria.

In che modo il nuovo galateo rimodellò e disciplinò la quotidianità della nobiltà inglese?
Nel mettere a punto la politeness, si prese ad esempio il comportamento dell’aristocrazia. E si sostenne che, in Inghilterra, per essere considerati gentlemen bastava comportarsi come tali.

In realtà nacquero due politeness diverse: una per la nobiltà, una per chi non era nobile.

Quest’ultima era molto semplice: imponeva di vivere contenti nella classe e nella situazione in cui Dio aveva fatto nascere, lavorare sodo, vivere con frugalità, ubbidire ai nobili, che in cambio avrebbero protetto il paese dai nemici esterni e dall’anarchia, governando per il bene di tutti.

Molto più complessa la politeness aristocratica.

I nobili inglesi avevano molto più potere dei nobili francesi, ma sapevano di essere un’infima minoranza nel paese. Inoltre, le leggi consentivano di passare solo al primogenito titolo e patrimonio, quindi la buona società era piena di mr X e mrs Y che venivano in realtà da famiglie nobili.

Come si poteva capire se si aveva di fronte un rampollo aristocratico o solo un tizio ben vestito e cortese, ma arricchitosi di recente col lavoro? Grazie alla politeness ci si riusciva a colpo d’occhio,

Le buone maniere, tra i nobili, implicavano anche un certo modo di vestire, di muoversi, di parlare, di guardare, di reagire agli imprevisti. Non c’erano solo le regole: c’erano molte, troppe sfumature impalpabili, impossibili da spiegare, che si potevano assorbire solo nascendo e crescendo negli ambienti migliori.

Quel certo stile di comportamento, così complesso, diventava naturale come respirare e ‘traspirava’ da ogni sguardo, ogni gesto, ogni espressione (compresa l’intonazione delle frasi, la scelta e la pronuncia delle parole), rendendo un vero gentleman e una vera lady riconoscibili immediatamente da tutti, soprattutto da quelli della loro stessa casta.

Tuttora, il termine inglese per ‘buona educazione’ (good breeding) è legato all’idea di ‘bennato’ e ‘buona famiglia’[1], e in alcuni dizionari del secolo scorso lo si collega esplicitamente a classe superiore (upper class) e buon livello sociale (good social background), implicitamente ammettendo che le buone maniere sono caratteristiche della buona società e trasmesse per eredità.

La politeness costituì un muro invisibile che separava l’aristocrazia dal resto del paese, ma non evitò una lunga serie di contraddizioni.

In teoria, i nobili dovevano mostrare comportamenti virtuosi, per mantenere la stima della nazione che essi governavano. Ma le cronache scandalistiche e i pettegolezzi svelavano vite sregolate, passate con prostitute e mantenute.

In teoria, un gentiluomo doveva essere sobrio e controllato. Tuttavia l’alcolismo era diffusissimo e si perdevano fortune colossali col gioco d’azzardo e con le scommesse sportive.

In teoria si doveva essere onesti e leali. Di fatto si cercava solo di mantenere il massimo riserbo sui propri vizi.

In teoria, si doveva mostrare buongusto e raffinatezza in tutto. Però si adoravano gli sport violenti come il pugilato, e divertimenti sanguinari come le lotte tra i cani, tra cani e orsi, tra cani e tori, tra cani e tassi, tra galli.

Il gentleman doveva essere raffinato ma virile, anche se l’omosessualità era diffusa. L’importante era non esibirla ed evitare relazioni stabili, perché solo sporadici ‘colpi di testa’ potevano essere tollerati.

Doveva essere un buon conoscitore dei classici greci e latini, che aveva imparato a forza di frustate a scuola; alieno da ogni specializzazione (cosa da borghesi), doveva (teoricamente) essere capace di tutto.

Complessivamente doveva avere tutti i pregi degli antichi greci e le virtù guerriere dell’antica Roma. Tuttavia le guerre in Europa furono combattute soprattutto dai mercenari tedeschi, e in India dai mercenari indiani assoldati dalla Compagnia delle Indie Orientali.

Le dame, teoricamente, dovevano dedicarsi solo alla famiglia e vivere una vita ritirata. In realtà, seguivano poco sia i figli che le figlie, e vivevano un’intensa vita sociale tra visite, teatri, balli e ricevimenti, garden pleasures, soggiorni nelle località termali o marine.

Teoricamente dovevano essere pie e morigerate, di fatto erano dedite al gioco d’azzardo e non disdegnavano le avventure galanti.

Teoricamente dovevano ricevere una solida educazione morale, di fatto ricevevano un’educazione basata più che altro sugli accomplishments (ballare, suonare, cantare, dipingere, ricamare).

Teoricamente erano libere di seguire il loro cuore, di fatto la famiglia le faceva sposare solo in base ad attenti calcoli di interesse.

Malauguratamente, anche se vivevano come perfetti angeli del focolare, avevano pochissimi diritti. In ogni classe sociale.

Il massimo successo fu che, tranne poche voci contrarie, la nazione continuò a considerare i nobili una guida cui ubbidire, in grado di proteggere dalle prevaricazioni della monarchia e dagli eccessi della plebaglia. La preminenza economica e politica conquistata dalla Gran Bretagna nel corso del secolo non fece che consolidare queste certezze.

Quindi la nazione continuò a imitare anche i comportamenti puramente esteriori degli aristocratici, considerando la politeness inglese la perfetta espressione del carattere nazionale. Ne conseguì una uniformità nei modi e nei costumi che tutti gli stranieri che visitavano il paese notavano.

Francesca Sgorbati Bosi, laureata in lettere moderne con indirizzo linguistico, si dedica da anni allo studio del Settecento francese e inglese, evidenziandone gli aspetti ritenuti – erroneamente – tipici della nostra era: l’importanza del gossip, della moda, della cucina, la nascita dello star-system, dell’Opinione Pubblica, della posta dei lettori, il consumismo sessuale, … Con Sellerio ho pubblicato:

  • Guida pettegola al Settecento francese (2013)
  • Guida pettegola al teatro francese del Settecento (2014)
  • A tavola coi re. La cucina francese ai tempi di Luigi XIV e Luigi XV (2017)
  • Non mi attirano i piaceri innocenti. Costumi scandalosi nella Parigi del Settecento (2019)
  • Nobili contraddizioni. Vizi e virtù dell’aristocrazia inglese del Settecento (2023)

Ho tradotto e curato:

  • Parlando di donne – lettere a un quotidiano inglese del Settecento (J.Addison-R.Steele) Sellerio
  • La donna nel XVIII secolo (J. e E. de Goncourt), Sellerio
  • Storia di Maria Antonietta (J. e E. de Goncourt), Sellerio
  • Acaju e Zirfila (C.P.Duclos), Galaad edizioni
  • Le avventure di un povero aristocratico (L.de Rochechouart), Barbès ed.

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[1] ‘Breed’ significa ‘progenie, origine, famiglia, linea di discendenza’

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