“Niente di vero” di Veronica Raimo

Niente di vero, Veronica Raimo, riassunto, tramaUna bambina, un diario dei segreti pieno di disegni e racconti della propria vita, proprio come tantissime altre bambine, ma il diario di Veronica non è come quello delle altre: non c’è scritto niente di vero. Veronica – Verika, come la chiama la madre – sa che la madre lo leggerà e costruisce di sé l’immagine che lei vorrebbe trovarvi. È in questo momento che Veronica muove i primi passi nell’impostura, che la porteranno poi a diventare la scrittrice che sarà da grande.

Niente di vero (Einaudi, Premio Strega Giovani 2022) illumina attraverso lo strumento del comico le vicende familiari e personali di Veronica, voce narrante e alter ego dell’autrice, dall’infanzia al presente, ma senza utilizzare come principio compositivo alcun ordine cronologico, procedendo invece per episodi più o meno lontani nella linea del tempo, che sono attratti dalla forza gravitazionale di alcuni temi, i quali a loro volta si rincorrono tra loro lungo tutto il romanzo. Questo procedere per piccoli quadri comici, senza lo sviluppo vero e proprio di una storia e di una trama per come essi sono concepiti tradizionalmente nel romanzo, avvicina il testo agli schizzi familiari di Natalia Ginzburg, ma con un patina che dà al lettore l’impressione di essere di fronte alle versione letteraria delle scene irriverenti di Fleabag, serie televisiva con cui, come ci ricorda la quarta di copertina, Niente di vero condivide «lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri familiari in commedia».

Trama

Veronica cresce in un’eccentrica famiglia che vive nella periferia nord-est di Roma: la madre è un’insegnante delle medie iper-apprensiva e spesso depressa; il padre, il dirigente di un’azienda ipocondriaco che conosce come unica modalità espressiva l’urlo, sembrando perennemente arrabbiato, costruisce muri dentro casa e costringe i figli alla reclusione casalinga per preservarli da malattie o incidenti mortali; il fratello, Christian, di tre anni più grande, è il piccolo genio di casa. Veronica e Christian, non potendo fare quelle «cose spericolate» come praticare sport o giocare, passano l’infanzia ad annoiarsi, e nella noia Veronica inizia il suo apprendistato all’impostura e all’invenzione di sé stessa, che la porterà poi a diventare una scrittrice. Niente di vero, niente di Veronica e niente di reale: è questo il filo conduttore che accompagnerà la crescita della protagonista, attraverso le fughe (reali e metaforiche) dalla costrizione della casa familiare, attraverso l’amicizia, la scoperta del sesso e dell’amore, il legame tenero e forse morboso con il nonno paterno, quello con il fratello, che diventerà anche lui scrittore e come lei scriverà un romanzo sulla famiglia, con il padre, che si ammalerà e morirà, e con la madre, che continuerà a vivere nella stessa casa di Roma e a sperare che Veronica le dia dei nipoti, ignara del fatto che da due anni Veronica si è separata da A., con cui aveva convissuto per quattordici anni.

Recensione

Andando a ritroso nella propria vita, Veronica si sofferma sugli episodi e sugli aspetti più imbarazzanti di sé e della propria famiglia, facendo della vergogna lo strumento d’indagine nella memoria, come annuncia fin dalla citazione in epigrafe, strumento che, combinato con una voce ironica e tagliente, è all’origine della comicità del romanzo. È il caso del problema di Veronica con la stitichezza, che l’affligge fin da quando da bambina la costringeva a trascorrere ore interminabili sulla tazza del cesso in uno stato di stallo esasperante, e che si fa metafora del bilico esistenziale e dell’incapacità di uscirvi: «C’è una parte di te che non riesce a lasciarti, eppure non ti appartiene già più».

Un filo rosso tra gli episodi imbarazzanti della vita è tracciato da Veronica attraverso alcune frasi del lessico famigliare dei genitori che, proprio come nel romanzo di Ginzburg (ma in modo meno assiduo: si tratta qui di un paio di esempi soltanto), si presentano come tessere dotate di un senso specifico per la cerchia familiare e che, quando ripetute, creano un ulteriore livello di significato e di comicità. Così la celebre frase «C’è Francesca al telefono», nata da episodi adolescenziali in cui la madre, Francesca, governata dall’unico principio morale della propria ansia, non si è fatta scrupoli a chiamare a qualsiasi ora del giorno e della notte gli amici dei figli, ma anche conoscenti e sconosciuti, per rintracciarli quando non rispondevano al telefono, veniva ripetuta tra Veronica e le sue amiche per mandare il segnale che qualcuna di loro stava «facendo una cazzata»:

Era la battuta per bollare fidanzati che ci sembravano inadatti («Hmm… di viso è carino ma c’è Francesca al telefono»), jeans che sembravano eccessivamente stretti («Ti fanno un bel culo ma c’è Francesca al telefono»), la spia che qualcuna di noi stava per collassare («Dài, ripassami la canna che c’è Francesca al telefono»). Se volevamo affittarci una videocassetta porno, si diceva: «Ma un bel filmetto che c’è Francesca al telefono?»

Il padre invece ripeteva «siamo arrivati al paradosso» ogni volta che si trovava di fronte a una situazione che minava la sua quiete o la sua paranoia ipocondriaca, ad esempio quando Veronica si è ritrovata un pezzo di vetro conficcato nella scarpa e nel piede, episodio in seguito al quale il padre l’ha costretta a indossare solo scarpe di cuoio, anche d’estate in spiaggia. Quella frase porta con sé però un tono più drammatico quando Veronica la richiama mentre il padre è sul punto di morte o dopo che se n’è già andato, e grazie a quella tessera lessicale il tragico assume una profondità insieme intima e familiare:

– Oca, non ci credo, ancora non hai imparato?
Quella volta non lo sentii dire: «Siamo arrivati al paradosso». Forse con l’avvicinarsi della fine le cose sembravano meno irragionevoli, forse smettere di esistere faceva impallidire gli altri paradossi.

Nell’assurdità e nella noia di quella stravagante infanzia, Veronica ha trovato una via di fuga preziosa, che sarà la chiave di lettura della sua vita e della sua scrittura – del romanzo stesso che stiamo leggendo. Durante le giornate di noia costretti in casa, il fratello di Veronica aveva inventato un gioco zen che consisteva nel tirare un dado e segnare il numero che usciva; non era un gioco competitivo ma, avendo una passione per il numero cinque, speravano entrambi che uscisse quel numero, e Veronica ingannava il fratello riportando sempre quello nel proprio quadernino:

è quello che ho sempre fatto nella mia vita. Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci. Fino a pensare che un dado può sempre dare cinque, benché non serva assolutamente a nulla.

È una sorta di «pensiero magico», lo stesso che la porterà ad inventare molti dei suoi ricordi. Da adolescente si scambiava moltissime lettere con l’amica Cecilia, nascoste sotto un sasso nel parco e firmate con un nome fittizio, e quello pseudonimo ha creato «il primo meccanismo di autofiction», il primo distanziamento da sé stessa, tanto che, quando Cecilia partì per frequentare in Germania il quarto anno di liceo, Veronica iniziò a inventare nelle lettere che le scriveva, e di quel quarto anno le restano due versioni: quella vera di cui non ricorda niente, e quella inventata per Cecilia, che può essere letta come il suo primo romanzo.

Con uno stile ironico, sagace, tagliente ed estremamente preciso, Veronica Raimo in Niente di vero riflette sul significato della scrittura e della memoria: nella sua famiglia, racconta – ma in fondo in ogni famiglia –, hanno sempre manipolato la verità come un esercizio di stile, dimenticando spesso la menzogna iniziale o il fatto stesso che si tratti di una menzogna.

Se la memoria stessa è un’impostura, la scrittura non può che esserlo a sua volta. Raimo gioca infatti con l’autofiction impedendoci di distinguere ciò che nel romanzo è un dato di realtà e ciò che non lo è, e in fondo non ha neppure senso porsi la domanda perché l’autrice stessa sembra suggerirci di non sapere ciò che è reale o meno nei suoi ricordi, avendo finito per credere alle bugie che lei o la sua famiglia hanno creato.

Attraverso questo romanzo, Raimo oltrepassa quindi le categorie di autofiction – che perde di senso dal momento che la stessa memoria è finzione, la stessa vita è autofiction, prima ancora della scrittura –, di romanzo di formazione – l’arco di crescita è qui volutamente ignorato, e l’autrice si concentra invece sui difetti e sulle inadeguatezze che dall’infanzia sono rimaste immutate fino all’età adulta – e, in realtà, la categoria stessa di romanzo: in Niente di vero non è possibile ricostruire una storia, una fabula, proprio perché il testo è formato da tanti piccoli quadri legati però tra loro con grande acutezza. Raimo, chiusa dentro la cameretta del romanzo, inquina le regole del gioco, le oltrepassa, e concepisce un testo che elude dall’interno i vincoli del genere cui appartiene. Niente di vero si conclude infatti con queste parole:

Ho ripensato alle parole di Rosa: «Una storia è un concetto ambiguo».
Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti. Anche le poche favole che scrivevo da bambina erano cosí. C’era una spiga che era cresciuta in un bosco.
– E com’è successo? – mi chiedeva mio nonno.
– Non ne ho idea.
La storia finiva lí. A mio nonno stava bene. A me pure.

Ginevra Lagasio Pesenti

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