È proprio in questo contesto che si situa il celebre libro dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, pubblicato nel 1929 e divenuto manifesto di condanna contro gli orrori della guerra e la sua insensatezza.
Il libro, che al momento dell’uscita sembrava sulla buona strada per diventare un bestseller internazionale, e che nel 1931 fu ricevette una nomination per il Nobel, si scontrò ben presto con il nazismo emergente. La completa assenza di propaganda filotedesca, lo sguardo onesto sulla guerra e la descrizione dei soldati come ragazzi scoraggiati e disillusi ne fecero un bersaglio del regime, fino alla messa al bando.
Romanzo autobiografico (Remarque stesso combatté e fu ferito a Passchendaele, sul medesimo fronte teatro del suo romanzo), Niente di nuovo sul fronte occidentale narra la vita in trincea del giovane soldato Paul Bäumer durante la Prima Guerra Mondiale.
Bäumer, così come i suoi amici Müller, Kropp e Leer, si unisce volontariamente all’esercito, dopo aver ascoltato i discorsi patriottici del suo insegnante, il professor Kantorek: “Nelle ore di ginnastica Kantorek ci teneva tanti e tanti discorsi, finché l’intera classe, sotto la sua guida, si recò compatta al comando di presidio ad arruolarsi come volontari”. Anche se ha soltanto diciannove anni e anche se in realtà il suo sogno è quello di diventare uno scrittore, va incontro alla guerra con decisione, come se si trattasse di una grande avventura, ma anche perché “nessuno poté tirarsi fuori; a quell’epoca persino i genitori avevano la parola “vigliacco” a portata di mano”.
Ma la disillusione per Paul e per i suoi amici arriverà subito: ci sono il freddo e la fame costante dovuta alla cronica carenza di cibo e ci sono le grida ininterrotte dei feriti a segnare le sue giornate in trincea. E ci sono i proiettili e le granate che cadono incessantemente sui soldati “La terra scoppia davanti a noi. Dovunque piovono zolle […] Pronto, mi allungo, stendendomi piatto sulla terra; ma ecco un altro fischio: mi rannicchio, cerco istintivamente di coprirmi, sento qualcosa alla mia sinistra, mi ci avvinghio, essa cede, io gemo, la terra si apre, la pressione dell’aria tuona nelle mie orecchie, io mi appiatto sotto la cosa che cede, è legno, stoffa, copertura: un riparo, un miserabile riparo contro le schegge che schioccano giù. Apro gli occhi: le mie dita hanno avvinghiato una manica, un braccio: un ferito? Gli grido qualcosa; non risponde: un morto.”
La Grande Guerra, per i civili che furono costretti a combattervi, rappresentò appunto in primo luogo questo: un enorme disincanto verso tutto ciò a cui era stato loro insegnato a credere, lo smascheramento delle ipocrisie che erano state loro vendute dalle autorità. Non soltanto Paul e i suoi amici non sono in grado di spiegarsi come i loro insegnanti abbiano potuto credere alle insensatezze nazionalistiche e patriottiche che propinavano loro, ma in più ogni giorno si sentono beffati dai loro superiori, quei generali e colonnelli che al contrario di loro la guerra non la vedono dal buco freddo e umido di una trincea. “Che schifo! Che porco maledetto schifo!” sbotta and un certo punto Kropp, il pensatore del gruppo “Sappiamo bene di cosa si tratta: è la rabbia della trincea: ognuno ci casca, almeno una volta. Müller gli domanda: “Kantorek che cosa ti ha scritto?” Egli ride: “Che noi siamo la gioventù di ferro.” Ridiamo tutti e tre, amaramente, Kropp impreca, lieto di potersi sfogare. Già, la pensano così; così la pensano i centomila Kantorek! Gioventù di ferro. Gioventù! Nessuno di noi ha più di vent’anni. Ma giovani? La nostra gioventù se n’è andata da un pezzo. Noi siamo gente vecchia.”
E in più, a distinguere questo conflitto dai precedenti c’è il modo anonimo di combattere, di uccidere e di morire, nell’ambiente claustrofobico della trincea o in battaglie improvvisate e inutili.
Al contrario di quanto sono stati indotti a credere dai propri insegnanti, Paul e i suoi amici non trovano alcun eroismo nella battaglia, dove è soltanto il caso a decidere chi sopravviverà e chi dovrà morire, e tantomeno c’è una logica nell’uccidere quello che viene loro presentato come il nemico. Quando, durante un pattugliamento, il ragazzo è costretto a rifugiarsi in un fosso e si trova faccia a faccia con un soldato nemico morente, gli si rivolge come a un amico: “Perché non ci hanno detto che voi siete poveri cani al pari di noi, che le vostre mamme sono in angoscia per voi, come per noi le nostre, e che abbiamo lo stesso terrore, e la stessa morte e lo stesso patire … perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico? Se gettiamo via queste armi, e queste uniformi, potresti essere mio fratello”.
Sono bastati pochi mesi di guerra reale per trasformare completamente i ragazzi e farne degli uomini: sono uomini infelici, però, e a renderlo ancora più chiaro sono i pochi giorni di licenza che vengono concessi a Paul. Il mondo degli adulti che lo accoglie è ancora convinto che la guerra sia onore e gloria e non paura e sofferenza, mentre lui fatica anche solo a ricordare “la vita di allora”, quella che lo aveva fatto sentire felice e protetto prima di partire per il fronte. La gente che lo incontra cerca di offrigli sigarette o qualcosa da bere, ma il suo umore è cupo e non trova vi sia alcuna ragione né di festeggiare né di acclamarlo: “Gli uomini qui sono diversi, io non li posso capire, li invidio e insieme li disprezzo”.
La guerra, come il romanzo, prosegue inesorabile. Gli amici di Paul muoiono uno dopo l’altro, chi per una granata chi a seguito di un’infezione successiva all’amputazione della gamba, e il narratore registra queste morti senza dare scampo al lettore, e intervallandole con vivide, e orribili, descrizioni della vita in trincea. Lo stesso Paul, una o due settimane prima dell’armistizio del novembre 1918, è ucciso. Ma anche quel giorno, secondo il bollettino di guerra, non si registra “niente di nuovo sul fronte occidentale”.
La visione di Remarque non lascia scampo: comunque si esca, ammesso che se ne esca, da una guerra, niente da quel momento sarà più lo stesso. Sia che se ne sia miracolosamente usciti illesi, sia che si conservino sul proprio corpo le ferite del conflitto, la guerra rimane un’esperienza incancellabile che vieta a chi ha dovuto subirla ogni possibile felicità futura.
Apolitico, privo di retorica o lirismo, Remarque guarda al conflitto che causò oltre 37 milioni di vittime tra il 1914-18 nell’unico modo possibile: come un orribile massacro completamente privo di senso.
Silvia Maina