“Nessuno è rimasto ozioso. La prigionia in Italia durante la Grande Guerra” di Sonia Residori

Dott.ssa Sonia Residori, Lei è autrice del libro Nessuno è rimasto ozioso. La prigionia in Italia durante la Grande ­­Guerra edito da FrancoAngeli: in che modo, nel corso del primo conflitto mondiale, i prigionieri di guerra divennero una risorsa economica fondamentale per gli Stati impegnati nello sforzo bellico?
Nessuno è rimasto ozioso. La prigionia in Italia durante la Grande Guerra, Sonia ResidoriLa Grande Guerra mostrò fin da subito caratteri inediti, rispetto ai conflitti dei secoli precedenti. Il teatro delle operazioni, infatti, si dilatò a dismisura, e i Paesi belligeranti ri­chiamarono alle armi milioni di uomini, ma la mobilitazione di massa non poteva essere mantenuta per un certo numero di anni senza una moderna economia industrializzata ad alta produttività che andava pianificata e centralizzata. In una guerra, diventata totale, i generali degli eserciti non controllavano solamente le forze armate, ma anche il potenziale economico con la relativa riorganizzazione dell’industria e della società.

Le battaglie con masse enormi di soldati, la guerra di trincea e gli assedi alle città, con un consumo spropositato di materiale e armamenti, oltre che di vite umane, necessitavano di una mobilitazione sempre maggiore dell’economia. Se all’inizio del conflitto i prigionieri erano considerati alla stregua di ostaggi, di garanzia per il rispetto di accordi, oggetto di scambio o strumento di ricatto, come lo erano stati per il passato, ben presto il loro numero divenne strumento di pressione diplomatica da un lato per il loro carico di sofferenza e angoscia, dall’altra strumento bellico utilizzato per un tipo di guerra diverso, economico, come forza lavoro. I prigionieri non do­vevano più essere alloggiati e nutriti senza far nulla, ma rimpiazzando i contadini e gli operai inviati al fronte, i feriti, gli uccisi, gli stessi prigionieri del nemico, essi potevano diventare per lo Stato che ne aveva in maggior numero, un grande vantaggio. I prigionieri di guerra nemici, quindi, come ha giustamente rilevato la storica tedesca Uta Hinz, a partire dal 1916 furono considerati la risorsa principale per condurre la guerra, che si era trasformata nella «gestione economica degli uomini», in un sistema di sfruttamento economico dell’uomo realizzato attraverso il lavoro coatto. Strutturati in compagnie di lavoro, i prigionieri venivano impiegati all’interno dei Paesi, nei campi o nell’industria, in sostituzione dei propri contadini e operai, ma anche in zona di guerra a costruire difese, trincee, strade e ferrovie, al punto di diventare, per usare le parole del gen. Ba­doglio, «vere e proprie truppe di seconda linea», in altre parole soldati nemici della propria stessa Patria.

Come si articolava il sistema concentrazionario nel nostro Paese?
Inizialmente, nel giugno del 1915, il Ministero della guerra, fissò le località di concentramento dei prigionieri di guerra nelle città di Novara, Alessandria, Cremona, Pistoia. Ben presto, però, il loro numero crebbe in misura larga­mente superiore alle previsioni e fu necessario trasferirli in altre fortezze e caserme sparse in tutto il territorio ita­liano, come l’imponente fortezza di Savona, la fortezza di Priamàr dove fu rinchiuso Giuseppe Mazzini, o il forte di Vinadio, in val Stura (CN) un capolavoro di ingegne­ria e tecnica militare voluto dal re Carlo Alberto.

Oltre ai manufatti di carattere militare vennero impiegati strutture decisamente monumentali: ad esempio a Melfi, l’antico castello del principe Doria; a Firenze il forte di Belvedere, il rifugio fortifi­cato costruito dai Medici sul colle di Boboli per ospitare la famiglia ducale e la corte in caso di tumulti interni; all’isola d’Elba, a Porto Ferraio, la casa con giardino che Napoleone Bonaparte costruì per sé, la villa dei Mulini. Inoltre, furono utilizzate costruzioni religiose re­quisite il secolo precedente e modificate nel corso degli anni, oppure edifici religiosi che lo Stato italiano affittò per le necessità della guerra.

Ben presto però, ci si accorse, che il numero ingente dei prigionieri e la loro dispersione nel Regno in gruppi ridotti dentro antiche strutture poco adatte allo scopo, com­portava un considerevole dispendio di energie economiche ed umane, e il ministero dell’Interno avviò la costru­zione di campi di concentramento nuovi, capaci di accogliere migliaia di prigionieri in strutture razionali e consone allo scopo. Il primo gennaio 1917 venne aperto in Sicilia il campo di concentramento di Vittoria, uno dei più grandi del Paese, attrezzato per accogliere 15.000 prigionieri. A quella data vi erano in Italia quasi 80.000 prigionieri di guerra, distribuiti in oltre cento tra campi ed ospedali.

Come era organizzato il lavoro dei prigionieri?
La Convenzione dell’Aja del 1907, all’art. 6 dell’allegato, prevedeva che lo Stato che deteneva i prigionieri potesse impiegarli in lavori che non dovevano però essere eccessivi e non dovevano avere nessun rapporto con le operazioni di guerra. Per i prigionieri era previsto un salario che avrebbe dovuto contribuire a sollevare la situazione personale, ma che doveva essere loro pagato al momento della liberazione, defalcate le spese di mantenimento.

Mentre presso gli altri Paesi belligeranti già nel 1915, i prigionieri di guerra validi erano stati organizzati in distaccamenti di lavoro, e tutti inviati, chi nelle campagne, chi nelle fabbriche, chi nelle miniere, chi nei laboratori, il Governo italiano era contrario al loro utilizzo nei lavori esterni ai campi per timore della concorrenza che il lavoro dei prigionieri poteva portare a quello libero. Pertanto i prigionieri di guerra potevano lavorare, ma solo all’interno, svolgendo lavori di sarto e calzo­laio per i rammendi al corredo di vestiario e le riparazioni delle calzature degli al­tri prigionieri, e quelli di muratore, fabbro e falegname per la sistemazione dei lo­cali da loro occupati. La paga non poteva superare quella di picchetto stabilita per i soldati del Regio Esercito, ovvero 5 centesimi l’ora.

La svolta avvenne un anno esatto dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 25 maggio 1916, quando il ministro Giannetto Cavasola inviò una circolare ai prefetti delle città italiane contenente le norme per il loro im­piego «in lavori agricoli o industriali da eseguire per conto di privati o di enti lo­cali». La circolare sottolineava in premessa che l’utilizzo della manodopera dei prigionieri di guerra doveva essere considerata soltanto un espediente di carattere eccezionale nei casi in cui non fosse possibile provvedere altrimenti.

La mercede dei prigionieri consisteva in cinque centesimi all’ora, nel caso di lavori per conto di pubbliche amministrazioni, eseguiti in economia, mentre quando si trattava di lavoro per conto di privati, teoricamente la paga doveva essere stabilita nella stessa misura di quella degli operai liberi della zona, decurtata però degli elementi negativi che tendevano a diminuire il rendimento dei prigionieri, quali la necessità della sor­veglianza, il minore spirito di collaborazione e, soprattutto, la mancanza nei pri­gionieri di interesse per il lavoro. Tutti insieme questi elementi negativi venivano calcolati in un 30% in meno della remunerazione della manodopera libera.

Qualunque fosse la paga oraria pattuita, i prigionieri però non potevano ricevere che la mercede di picchetto, cinque centesimi all’ora, la differenza andava all’amministrazione dello Stato.

Quali erano le condizioni di lavoro dei prigionieri?
Durante la Grande Guerra la prigionia in Italia conobbe grosso modo due fasi. La prima ebbe la durata del conflitto in quanto la guerra statica di trincea del fronte meridionale produsse fino a settembre del 1918 un numero piuttosto limitato di prigionieri catturati. Alla fine di luglio del 1917 in mano italiana si trovavano 101.568 pri­gionieri austro-ungarici di truppa, che divennero circa 170.000 nel settembre 1918, cifre contenute se si pensa che la fine del conflitto vedeva 2.400.000 e 900.000 prigionieri rispettivamente in mano tedesca e austriaca.

In questa prima fase la condizione materiale dei prigionieri, a parte alcune eccezioni, può essere considerata discreta, anche se non sempre rispettosa degli accordi internazionali. La maggior parte dei prigionieri era stata suddivisa in oltre duemila distaccamenti, sparsi nelle campagne italiane e utilizzati per i lavori agricoli, spe­cie di fienatura e mietitura. Alcune migliaia di prigionieri erano addetti a lavori stradali, a lavori ferroviari, di rimboschimento od altri. Solo un numero esiguo rispetto al totale (tra i 7 e i 9 mila) veniva impiegato nell’industria del munizionamento.

La Convenzione dell’Aja del 1907, all’art. 6 dell’allegato, con il quale concedeva allo Stato detentore di impiegare i prigionieri di guerra come lavoratori, precisava però che i lavori non dovevano avere alcun rapporto con le operazioni militari.

In realtà con circolare n.24112 del 24 novembre 1916 la Commissione prigionieri di guerra emanò le norme per l’impiego dei prigionieri anche nei lavori inerenti al munizionamento nazionale, e pertanto anche l’Italia si allineò con quanto veniva attuato negli altri Paesi belligeranti e impiegò ben presto i prigionieri in alcune industrie chiave per l’armamento del nostro esercito.

Inoltre, nonostante il ministro Cavasola avesse ribadito che l’impiego dei prigionieri di guerra come manodopera doveva avere carattere eccezionale per non arrecare danno al lavoro libero, non solo fu generalizzato, ma i prigionieri furono usati come calmiere dei salari dei liberi lavoratori come denunciato più volte, tra l’estate del 1917 e la primavera del 1918, dai socialisti del Vercellese e del Novarese.

Risulta evidente da molte fonti documentarie che gli agrari, al di là delle reali carenze della manodopera in alcune zone, erano preoccupati soprattutto per il rialzo dei salari dovuto all’inflazione e premevano affinché l’autorità pubblica intervenisse a loro favore, per mezzo dei prigionieri di guerra e dei soldati territoriali con lo scopo di calmierare le richieste dei lavoratori.

Quali problemi sorsero in relazione ai prigionieri e allo sviluppo del conflitto?
Con la sconfitta di Caporetto del 24 ottobre 1917, la situazione cambiò radicalmente: non si ebbe solo la so­stituzione del gen. Cadorna con il gen. Diaz, ma anche il passaggio da una strate­gia offensiva ad una difensiva. Uno dei primi provvedimenti del Comando supremo nei confronti dei prigionieri di guerra fu quello di dividerli secondo la nazionalità nel tentativo da un lato di incrinare la coesione delle truppe austro-ungariche e dall’altro di creare legioni e squadre di avvicinamento da affiancare all’esercito italiano.

Inoltre, la mutata situazione del fronte esigeva nuovi ed urgenti lavori militari, al punto che il ricorso alla manodopera dei prigionieri di guerra appariva l’unica via rimasta. Il problema, però, non era tanto il rispetto da parte del Governo italiano della normativa della Convenzione dell’Aja – ormai tutti i paesi belligeranti utilizzavano i prigionieri nelle retrovie delle proprie armate – ma togliere un numero significativo di braccia impiegate nel settore agricolo o del combustibile nazionale. Il nuovo sistema di inserire i prigionieri di guerra quali combattenti in legioni o di formare squadre di avvicinamento, aveva ridotto la massa dei prigionieri disponibili, mentre il Paese aveva un sempre maggiore bisogno di braccia per l’agricoltura e l’industria.

Nel luglio del 1918, il Comando Supremo decise, quindi, di avocare a sé la gestione dei prigionieri di guerra che appena catturati non sarebbero più stati inviati verso i campi di concentramento del Paese, ma dovevano rimanere a disposizione del Comando, per essere impiegati immediatamente nei lavori militari in zona di guerra.

L’offensiva della fine di ottobre del 1918 si concluse con la vittoria italiana a Vittorio Veneto, che vide l’afflusso di circa 300.000 prigionieri dalle varie zone del fronte. Proprio la gestione dei prigionieri di guerra di nuova cattura, per i quali era indispensabile impiantare nuovi campi di concentramento, mise a nudo i limiti della recente riorganizzazione militare. Il problema dell’alloggiamento di decine e decine di migliaia di prigionieri fu aggravato dalle condizioni atmosferiche dell’autunno inoltrato, tipiche comunque della pianura padana. Pertanto, se la località scelta per costituire un campo prigionieri a Castel d’Azzano (VR) poteva risultare ottima per la sicurezza e la custodia dal momento che si trattava di un castello cinto da un ampio muro, risultava però alquanto inadatto per alloggiare in tenda i militari prigionieri, poiché il terreno scelto per l’accampamento risultava in molti punti acquitrinoso. Allo stesso modo a Grezzano (VR), nel castello del marchese di Canossa, i prigionieri furono alloggiati tutti in tende Bucciantini, ma piantate in ampie praterie, circondate da fossati d’acqua corrente e reticolati, con gravi problemi di scolo delle acque piovane. Inoltre, il numero dei prigionieri risultò nettamente superiore alle disponibilità dei teli da tenda, pertanto una parte dovette “serenare”, ovvero rimanere completamente all’addiaccio per oltre un mese. Nonostante la dotazione di un numero maggiore di coperte e il permesso di tenere i fuochi accesi nella notte, la stagione rigida, piovosa, e con le classiche nebbie padane, produsse inevitabilmente congelamenti e malattie correlate, acutizzate da una grave sottoalimentazione. Si trattava di uomini già denutriti e deperiti da lunghi giorni di scontri armati, ma nei primi giorni della loro cattura non furono disponibili le casse di cottura e le marmitte da campo, perciò non fu possibile fornire subito cibo caldo. Furono distribuiti viveri a secco, prelevati dai magazzini viveri di Verona e Villafranca, che in taluni momenti però rimasero vuoti e la fame spinse i prigionieri a disertare per cercare cibo e a raccogliere da terra bucce e residui di alimenti.

Come avvenne il rimpatrio alla fine della guerra?
Alla fine della guerra, il rimpatrio dei prigionieri si rivelò un’operazione davvero difficile perché la Patria, per la quale quegli uomini avevano combattuto e subito la prigionia, non esisteva più. Si trattava di un ritorno alla propria casa in una situazione politica ed economica del tutto sconosciuta e talora pericolosa.

Gli armistizi firmati nel novembre 1918 tra gli Imperi Centrali e le potenze Alleate, non portarono la pace, tanto desiderata, nell’Europa Centrale dove, invece, la guerra continuò ancora per lunghissimi mesi. La nascita e l’affermazione delle singole nazionalità scatenarono accesi conflitti per stabilire i confini territoriali di ognuna. Ad esempio, dopo il crollo dell’Impero d’Austria-Ungheria e di quello tedesco, al momento di definire il confine fra i due nuovi Stati, Polonia e Cecoslovacchia, le tensioni sfociarono in violenze interetniche e scontri armati. La Polonia chiedeva la regione della Slesia sulla base del criterio etnico, la Cecoslovacchia sulla base di quello storico. I tentativi di organizzare un plebiscito per stabilire il futuro della regione fallirono e la Slesia venne grossolanamente divisa fra i due Stati da una commissione internazionale nel 1920.

Secondo il ministro della guerra, Alberico Albricci, al 24 ottobre 1919 su 460 mila prigionieri nemici, ne rimanevano in Italia 145 mila. Nonostante il persistere di gravi malattie tra i prigionieri, come il dermotifo, la dissenteria e le infezioni malariche, già da tempo era stato predisposto il ritiro generale di tutti i prigionieri dai lavori e il loro concentramento in grandi campi, operazione che era stata ostacolata in ogni modo dalla forte opposizione del Ministero dell’Agricoltura e del Ministero dei Trasporti che accampavano “stringenti necessità”, mentre in realtà erano riluttanti a privarsi di una forza lavoro così a buon mercato, una risorsa così preziosa tanto che agricoltura e industria, enti pubblici e aziende private facevano a gara per ottenere le concessioni e talvolta con irregolarità e subappalti, come se il prigioniero di guerra avesse perduto la sua fisionomia umana e i suoi diritti e fosse diventato una merce.

A quali fonti si è rivolta per il Suo lavoro?
Le fonti privilegiate in questo lavoro sono essenzialmente archivistiche. Ho condotto ricerche principalmente presso l’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito, nel fondo Ufficio prigionieri di guerra; l’Archivio Centrale dello Stato nelle serie diverse contenute nei fondi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell’Interno, del Ministero della guerra, del Ministero per le Armi e munizioni, del Ministero della Sanità; l’Archivio segreto Vaticano nel fondo Segreteria di Stato guerra 1914-1918. Fondamentale è stato senz’altro lo studio presso l’Archivio del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra del fondo denominato C G1 A che, in circa 170 unità archivistiche, conserva gli incartamenti sui prigionieri di guerra di tutte le nazionalità, e la corrispondenza con le autorità politiche e militari nazionali dei belligeranti, con le Società nazionali della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, con gli altri organismi umanitari, note, rapporti, rassegna stampa.

Sonia Residori, bibliotecaria e dottore di ricerca in Storia economica presso l’Università degli Studi di Verona. Tra le sue principali pubblicazioni: Il coraggio dell’altruismo. Spettatori e atrocità collettive nel Vicentino 1943’45, Centro Studi Berici 2004; Il massacro del Grappa: vittime e carnefici del rastrellamento (21 – 27 settembre 1944), Cierre 2007; Il “Guerrieri giusto” e l “Anima Bella”: l’identità femminile nella Resistenza vicentina, Centro Studi Berici, 2008; Una legione in armi. La Tagliamento tra onore, fedeltà e sangue, Cierre 2013; L’ultima valle. La Resistenza in val d’Astico e il massacro di Pedescala e Settecà (30 aprile – 2 maggio 1945), Cierre 2015.

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