
di Marco Pellegrini
Salerno Editrice
«Capita sovente nella nostra quotidianità di sentir invocare l’auspicio di un «nuovo Rinascimento», che dovrebbe sopraggiungere a risollevare una situazione, quella attuale, percepita come afflitta da desolazione e ristagno. Divenuto ormai rituale nei discorsi mediatici, l’augurio di un «nuovo Rinascimento» rappresenta un topos di grande interesse nella comunicazione pubblica, poiché rinvia alle capacità che un individuo o un gruppo sociale possiedono di riprogettarsi e decollare di nuovo, attingendo alla riserva delle proprie risorse».
«Tale svolta ebbe luogo in un contesto ben determinato, che fu l’Italia del Quattrocento.» Come fu possibile? Fu dall’incontro unico e irripetibile di «alcune precondizioni essenziali, presenti unicamente in Italia da tempo immemorabile» che si produsse quella stagione straordinaria: «senza di esse, non si sarebbe mai avuto il Rinascimento per come noi lo conosciamo.» Fu proprio il nostro Paese, «con lo sconfinato repertorio di sollecitazioni percettive che offriva all’immaginazione degli osservatori» a rappresentare «la palestra della creatività rinascimentale.»
In realtà, «nel lanciarsi in quest’avventura, essi non inventarono alcunché di nuovo: il materiale concettuale che rielaborarono era pienamente familiare alla cultura del Medioevo – a cominciare dal paradigma ideologico e lessicale della renovatio, da cui derivò il concetto di renascentia, antico di secoli. Gli effetti di una simile rivisitazione furono in grado di imprimere un moto di risveglio alla creatività umana, presentandole un modo inedito di vedere le stesse cose di prima. Scosso da questa rigenerante discesa nel profondo, operata da una pattuglia di avanguardisti inizialmente piuttosto sparuta, l’intero Occidente si preparò al rimbalzo. Dimenticò le certezze e le interdizioni lasciate da una civiltà in crisi, che aveva ormai esaurito la sua spinta propulsiva, e decollò verso nuovi inebrianti traguardi, non ancora realizzati.»
Pellegrini raffigura magistralmente il complesso clima di «attese di palingenesi che attraversavano la società del tempo». Fu, ad esempio, proprio in quel clima di rinnovamento che maturò e si consolidò la nozione di “rivoluzione” che così tanta eco avrebbe avuto nella storia dei sommovimenti politici e sociali successivi, dalla rivoluzione francese a quella russa sino alla assai meno cruenta contemporanea ‘rivoluzione digitale’. Un termine mutuato dall’astrologia: «A Firenze questo termine circolava già nel Trecento, sebbene fosse applicato solo sporadicamente ai fenomeni politici. Originariamente questo termine era riferito al moto dei corpi celesti – basti ricordare il De revolutionibus di Copernico – ma all’occasione poté essere utilizzato per descrivere i fatti più sconvolgenti della storia umana […]. Imbevuta di fede nell’influsso degli astri sugli eventi del mondo sublunare, la cultura dotta dell’epoca usava ricondurre ogni momento di svolta, positivo o negativo che fosse, al compimento del moto orbitale di uno o più pianeti tra loro interagenti: fenomeno che appunto si definiva una «rivoluzione». Di tali continui rivolgimenti, prodotti da sempre variabili assestamenti planetari, erano ritenuti servirsi Dio stesso e gli angeli, suoi ministri, per governare la vita umana, individuale e collettiva, suscitando le vicissitudini da cui essa è continuamente scossa.»
«Come documentano i contenuti delle opere che autori come Giannozzo Manetti, Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola dedicarono alle ammirevoli manifestazioni del genio umano, qualsiasi indagine volta a esplorare i presupposti della creatività rinascimentale non può prescindere dalla forza della componente religiosa. Occorre tuttavia guardarsi dall’identificare la fede di personaggi come Ficino e Pico con il codice religioso allora dominante, poiché anzi a caratterizzare il cristianesimo dell’avanguardia umanistica fu la propensione a oltrepassare i confini dell’ortodossia, a guardare oltre gli steccati, a cercare frammenti di Verità ovunque fosse dato di captarli, anche in ambiti cronologicamente e geograficamente lontani: i «pagani», i «barbari», gli «infedeli». […] A trainare una simile fuoriuscita dal fondamentalismo fu l’amore incondizionato per gli autori classici: una passione talmente travolgente da spazzar via lo scoglio rappresentato dalla loro appartenenza al paganesimo. […]
Le competenze filologiche consentirono agli umanisti italiani del Quattrocento di arricchire e di migliorare il repertorio dei testi antichi, al punto che essi ritennero possibile, attraverso tale operazione di recupero, procurare la ricomparsa della classicità. Usarono a tal fine la locuzione litterae renascentes, che designò precisamente il potere miracoloso di risorgere a nuova vita che era proprio della cultura umanistica. […]
Carico di tutte le più seducenti meraviglie benché pagano, il passato remoto fu idealizzato a detrimento del passato prossimo, rappresentato dal Medioevo che, per quanto cristiano, fu percepito come un modello di civiltà non più proponibile. […] Ma – come non si ripeterà mai abbastanza – la creatività umanistica si nutrì del ricchissimo retroterra che mutuò dal Medioevo, senza il quale non avrebbe mai preso vita. Vista da vicino, la fioritura rinascimentale fu il prodotto di una riconfigurazione di elementi già conosciuti, e in alcuni casi ampiamente utilizzati, dalla cultura medievale. Uscite dal medesimo sostrato di valori dei loro predecessori, le avanguardie rinascimentali fecero uso di un lessico di parole e di immagini che il Medioevo in massima parte già frequentava. La loro peculiarità fu quella di conferire a questo patrimonio una significazione diversa rispetto a quella dominante in precedenza. Non nova sed noviter.»