“Nella mente dell’astronauta. Psicologia delle missioni spaziali” di Nicola Mammarella

Prof. Nicola Mammarella, Lei è autore del libro Nella mente dell’astronauta. Psicologia delle missioni spaziali edito da Carocci: qual è l’impatto psicologico di una missione spaziale?
Nella mente dell’astronauta. Psicologia delle missioni spaziali, Nicola MammarellaUna missione spaziale investe un astronauta/cosmonauta a più livelli da un punto di vista psicologico, da quello cognitivo a quello emotivo e sociale. L’impatto però è modulato da fattori distali, come la grande esperienza e un massiccio addestramento a cui vengono sottoposti gli astronauti, e dalla capacità di gestire fattori prossimali, come ad esempio, l’ansia in una situazione emergenziale. L’ambiente spazio, che è sinonimo di una molteplicità di situazioni cosiddette “estreme” come la microgravità, il periodo di isolamento e confinamento, le radiazioni cosmiche per citarne alcune, mette a dura prova le abilità cognitive, emotive e sociali di un individuo.

Come si sono evoluti gli studi di psicologia delle missioni spaziali?
Fino a quando non è stato possibile condurre studi comportamentali più controllati sulla Stazione Spaziale Internazionale, la maggior parte delle ricerche ha adottato due approcci. Quello del bed rest (o riposo a testa in giù) e quello dei voli parabolici. Nel primo, i partecipanti vengono tenuti su un letto a testa in giù con un’inclinazione del corpo di 6° per periodi variabili che possono andare da giorni ai più di due mesi. Questa tecnica permette di simulare gli effetti della microgravità sul corpo umano in quanto determina uno spostamento dei liquidi verso il cervello. Nella seconda, un volo raggiunge una certa altitudine e poi scende rapidamente ricreando una situazione di microgravità per circa 20-25 secondi, situazione che assomiglia a quella che proviamo sulle torri di lancio dei più famosi parchi di divertimento. In entrambi i casi è possibile impegnare i partecipanti in svariati compiti cognitivi e studiare anche le loro risposte alle situazioni stressanti. Oggi queste tecniche vengono ancora usate come complementari agli studi svolti sulla Stazione Spaziale e vengono chiamate “analoghi”. Tuttavia, l’attenzione recente, anche dal punto di vista psicologico, si è spostata sullo sviluppo delle cosiddette “contromisure” che possono garantire all’astronauta la permanenza nello spazio per lunghi periodi. Tra queste, c’è un grande interesse per i simulatori di gravità artificiale e varie tipologie di esercizio fisico. Entrambe hanno un impatto sulle funzioni cognitive.

Quali effetti produce la microgravità sui processi cognitivi?
Un approccio generale alla cognizione evidenzia un pattern di dati allo stesso tempo complesso e interessante in quanto è stato visto come l’ambiente spazio possa diminuire, ma anche incrementare le abilità cognitive. Inoltre ci sono studi che non evidenziano alcun effetto. Purtroppo, un aspetto importante che si sta cercando di risolvere è quello della grande eterogeneità degli studi (dovuta alle diverse metodologie: voli parabolici, riposo a testa in giù, studi sulla Stazione), per cui è ancora difficile arrivare a dei dati robusti e conclusivi.

Un approccio più specifico, ovvero un’analisi più dettagliata per singoli processi e che si focalizza sulla variabilità interindividuale, evidenzia un pattern più coerente di dati, perché è possibile vedere come certi compiti soffrono più di altri. In particolar modo, gli aspetti percettivi, motori e visuo-spaziali sono stati quelli più studiati. Ad esempio, nei compiti di rotazione mentale, che consistono nel chiedere al partecipante di ruotare mentalmente (a diversi gradi di rotazione, per esempio 90°, 180°, etc.) un oggetto, è stata riscontrata maggior difficoltà quando gli stimoli riguardano parti del corpo (e.g., mano, braccia) rispetto alla rotazione di oggetti comuni. Questo perché l’ambiente di microgravità cambia il sistema di riferimento del proprio corpo, in quanto, in assenza di peso, si perde la verticalità, un indizio fondamentale per l’orientamento visuo-spaziale. Altre difficoltà si riscontrano nei compiti cognitivi più complessi, come quelli che richiedono il coinvolgimento delle funzioni esecutive ma, in generale, in situazioni di doppio compito che richiedono dunque la necessità di svolgere due compiti contemporaneamente.

In che modo le condizioni di assenza di gravità influenzano le emozioni di un astronauta?
Lo studio delle emozioni è molto complesso in quanto la risposta emotiva (e.g., umore, stress, ansia) coinvolge diversi sistemi, da quello fisiologico a quello cognitivo. Non tutte le risposte emotive sono state studiate in maniera approfondita e mi auguro che nei prossimi anni ci sia un incremento delle ricerche a riguardo. In letteratura di parla spesso del “fenomeno dei tre quarti” riferendosi alla frazione del periodo di una missione in cui avvengono i maggiori cambiamenti emotivi. Durante questo periodo, gli astronauti hanno maggiori probabilità di sviluppare disturbi emotivi e problemi interpersonali. Questo fenomeno sembra essere dovuto al fatto che gli astronauti tenderebbero a segmentare la missione dal punto di vista temporale con un inizio, una metà, e una fine. Quando poi arrivano verso la metà, si rendono conto che un periodo altrettanto lungo di isolamento li attende e, dunque, tendono a mostrare un aumento delle emozioni negative. Non ci sono, tuttavia, evidenze, che il fenomeno si sia verificato sulla Stazione Spaziale Internazionale. In generale, la maggior parte degli studi concordano che lo Spazio sia, di sua natura, un ambiente estremo in quanto gli stressors sono numerosi (e.g., l’isolamento e il confinamento, le radiazioni, la perdita delle ore di sonno, il rumore etc.). Data la molteplicità dei fattori stressanti, oggi la ricerca ha spostato l’attenzione, da una parte, sulle capacità di coping degli astronauti, ovvero sulle capacità funzionali di adattamento all’ambiente stressante, dall’altra sulle emozioni positive. L’essere nello spazio, infatti, viene riferito dagli astronauti come un’esperienza ricca e benefica. Tale esperienza viene spesso declinata con l’apprezzare di più la vita, il darsi nuove possibilità, il sentirsi più “forte”, l’importanza delle relazioni, il cambiamento spirituale, etc. Dunque lavorare sulle emozioni positive sembra essere una strada importante da percorrere in termini di promozione e risoluzione di eventuali disturbi dell’umore.

Come cambia il cervello durante un’esplorazione spaziale?
La maggior parte delle conoscenze che abbiamo sulla relazione tra cervello e microgravità derivano dagli studi di fisiologia che, per primi, hanno indagato gli effetti dell’assenza di gravità sul corpo umano (ossa, muscoli e circolazione). Successivamente, la ricerca ha concentrato la sua attenzione sul sistema vestibolare, evidenziando come la vita sullo Spazio determini la perdita dell’informazione della gravità portando ad immediate conseguenze non soltanto a livello periferico (orecchio interno), ma anche centrale (per le proiezioni del sistema vestibolare verso la regione parietale-insulare, il talamo e le regioni temporali). Le altre regioni più colpite sono poi le aree somotosensoriali e il cervelletto. Nel 1998 una missione spaziale di 16 giorni è stata chiamata Neurolab (STS-90) proprio perché sono stati condotti molti esperimenti dedicati allo studio del sistema nervoso centrale in condizioni di microgravità. Gli studi, in generale, sottolineano come il cervello sia plastico e vada incontro ad un processo di ristrutturazione, una sorta di riorganizzazione corticale che garantirebbe l’adattamento alla microgravità.

Molti studi hanno descritto il cervello degli astronauti come “fluttuante” o galleggiante in assenza di gravità (the “floating” brain). Sottoponendo gli astronauti ad una risonanza magnetica prima della missione e dopo una settimana dal rientro, è stato osservato uno spostamento del cervello verso la parte superiore dello scalpo soprattutto negli astronauti di lunga missione con una diminuzione degli spazi per il fluido cerebrospinale. Questi dati sarebbero responsabili della compressione del flusso venoso e dell’aumento della pressione intracranica. A sua volta, un aumento della pressione intracranica è stato descritto alla base di una sindrome chiamata VIIP (Visual Impairment Intracranical Pressure) caratterizzata da una serie di disturbi visivi proprio dovuti all’aumento della pressione all’interno del cranio. Tali disturbi possono persistere anche al ritorno sulla Terra e sono oggetto di grande studio da parte della NASA.

Quali training cognitivi ed emotivi sono previsti per chi partecipa ad una missione spaziale?
Al fine di raggiungere un livello elevato di compatibilità uomo-vita nello Spazio, grande importanza è stata data, nel corso degli anni, allo studio dei fattori umani ed ergonomici per garantire, ad esempio, una buona abitabilità all’interno della ISS e lo sviluppo di una strumentazione e di interfacce sempre più intuitive e rispondenti alle esigenze emergenziali. Accanto a questo tipo di studi centrati sull’ambiente, si sono sviluppati una serie di programmi di addestramento che hanno posto l’attenzione sull’uomo. Tali programmi, che all’inizio erano prettamente di natura motoria, successivamente hanno ricompreso anche la possibilità di “esercitare” le variabili psicologiche su diversi piani: dall’individuale al gruppo. Sono stati dunque sviluppati vari programmi e percorsi di addestramento che mirano all’esercizio della performance cognitiva e allo sviluppo di strategie di coping in situazioni di stress, le cosiddette “contromisure” psicologiche.

Nell’ambito della psicologia delle missioni spaziali, al momento, la maggior parte dei training cognitivi specifici riguarda soprattutto quelli di natura percettivo-motoria. Invece, più numerosi sembrano essere i programmi di addestramento verso la prevenzione e gestione di eventuali disturbi della sfera emotiva, in particolar modo, ansia e stress. Tuttavia, non conosciamo ancora eventuali effetti a lungo-termini di questi programmi. Purtroppo, il concetto di training stesso richiede l’impegno su più prove e in più sessioni che spesso non sono semplici da organizzare a bordo della Stazione Spaziale, a fronte di un maggior impegno verso l’allenamento fisico. Sicuramente, tutti gli esperimenti, anche quelli di natura comportamentale che vengono svolti sulla ISS e il processo stesso di selezione di un astronauta, possono rappresentare essi stessi dei momenti di training. Oggi c’è grande attenzione verso la strutturazione di programmi di training specifici anche per le importanti implicazioni dirette allo sviluppo dei voli spaziali per turisti.

Nicola Mammarella è Professore Ordinario di Psicologia Generale presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara. Si occupa da anni dello studio dell’interazione tra processi cognitivi ed emotivi in diverse fasce di età, ed in particolar modo, dell’interazione tra memoria ed emozioni anche attraverso l’analisi dei correlati neurobiologici. Recentemente ha pubblicato una serie di lavori sull’importanza dello studio dei fattori psicologici nei processi di adattamento allo spazio.

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