
Se riusciamo a farci una idea del metodo di lavoro e delle pratiche compositive delle opere letterarie degli scrittori antichi, greci e latini, calandole nella loro realtà concreta e tenendo conto delle peculiarità specifiche ai singoli autori, saremo in grado di meglio capire e spiegare anche determinati fenomeni della trasmissione di quei testi nel corso dei secoli.
Per giungere a questi risultati bisogna porsi dietro le spalle degli scrittori antichi e osservarli attraverso le differenti che vanno dalla redazione di brogliacci fino alla stesura finale della propria produzione letteraria.
Le fonti antiche sul soggetto sono assai scarse e spesso di non limpida e immediata comprensione. Tuttavia, una analisi attenta e mirata delle testimonianze scritte confrontate, là dove possibile, con parallele testimonianze materiali, e cioè rari frammenti di papiri che conservano non una copia di un’opera già nella sua redazione finale, ma uno schizzo ancora informale e preparatorio, consente talora di avere una idea abbastanza chiara delle pratiche di composizione comuni a determinati scrittori antichi.
Come redigevano i loro testi gli autori dell’antichità greca e latina? Quali fasi caratterizzavano la redazione di un testo nell’antichità?
È difficile stabile regole che possano valere in assoluto per tutti gli autori e per tutte le opere della letteratura greca e latina per le ragioni che ho appena sottolineato.
Grosso modo, le fasi preliminari alla composizione di un testo letterario nell’Antichità prevedevano più fasi. Un autore leggeva le proprie fonti, prendeva appunti, preparava raccolte di materiali; cominciava poi la redazione dell’opera: spesso egli dettava il suo testo o, meno di frequente, lo scriveva di propria mano. Elaborava un brogliaccio, una prima stesura di un’opera che poteva presentarsi sotto forme diverse: canovacci o schizzi, note o promemoria. Conviene notare, fin da ora, che tali redazioni potevano già rappresentare agli occhi del loro autore una stesura conveniente di un testo, che egli riservava a una diffusione limitata a uno o pochi amici o discepoli che gliela avevano richiesta, e non destinava ancora a una vera e propria circolazione in pubblico. Il più delle volte, un autore aveva comunque interesse a che i suoi libri fossero pubblicati, circolassero e divenissero accessibili a un pubblico più largo. Riprendeva allora i suoi brogliacci o le sue redazioni preliminari per rimaneggiarne l’insieme, mettervi ordine, correggerle là dove necessario, farle trascrivere in bella copia. Queste redazioni riviste e rielaborate divenivano versioni definitive destinata a una forma di vera e propria pubblicazione.
Nel corso delle mie ricerche sono riuscito a ricostruire con un buon margine di sicurezza le fasi di composizione di almeno un testo letterario, la Storia dell’Accademia del filosofo epicureo Filodemo di Gadara (I sec. a.C.). Questo è stato possibile perché un rotolo carbonizzato della sua biblioteca scoperta a Ercolano sotto la lava dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. ha conservato, caso più unico che raro, il brogliaccio di quel libro.
Detto questo, mi sia consentito insistere con forza contro la tendenza a generalizzare tali risultati e a immaginare cioè che questi fossero comuni a tutti gli autori antichi. Il papiro di Filodemo consente di avere una buona idea dei metodi di composizione di un testo letterario in un momento specifico della storia plurisecolare delle letterature greca e latina. Altri autori poterono senza dubbio seguire un cammino simile, ma anche variarlo, integrarlo e modificarlo in conseguenza delle loro specifiche esigenze e delle mutate condizioni socio-culturali in cui vissero.
Quanto era comune la pratica di riservare una parte almeno della propria produzione letteraria a una circolazione limitata?
Il grande medico Galeno di Pergamo (II/III s. d.C.) testimonia a più riprese dell’esistenza di due livelli di circolazione non solo dei suoi scritti, ma anche di quelli di altri autori: riservare certi libri a pochi allievi e amici oppure renderli disponibili a un pubblico più vasto.
Qualche ulteriore dettaglio di grande importanza si ritrova poi nelle pagine introduttive dei commenti alle Categorie di Aristotele redatti dai Neoplatonici del V e VI secolo d.C. Ritroviamo qui una distinzione degli scritti di Aristotele in trattati che vengono rispettivamente definiti hypomnematiká e syntagmatiká. Gli ultimi si differenziavano dai primi in particolare per il fatto di essere stati opportunamente rivisti e corretti, condizione preliminare e necessaria alla loro messa in circolazione tra un pubblico più vasto.
Dal tutto si ricava che la qualificazione di uno scritto come hypomnematikón indicava vuoi una redazione che non era stata ancora completamente rivista dal suo autore vuoi una stesura per così dire provvisoria destinata in quanto tale a una diffusione limitata e pertanto né completamente elaborata né troppo curata dal punto di vista formale.
Tale distinzione risale molto più indietro di Galeno e poi dei commentatori di Aristotele e apparve probabilmente già alla tarda epoca ellenistica come conferma lo studio delle soscrizioni dei primi tre libri della Retorica di Filodemo. Nel caso di questa opera, siamo inoltre in grado di provare che già la prima redazione di tre libri iniziali era in sé e per sé considerata dal loro autore come compiuta e, in larga misura, definitiva. Le due redazioni, pur in larga misura identiche quanto nella struttura e nei contenuti, erano tuttavia destinate a fini e pubblici diversi: una era riservata a una circolazione limitata, l’altra era invece a una vera e propria pubblicazione.
Come avveniva la pubblicazione delle opere?
Se i passi di Galeno e le soscrizioni dei papiri della Retorica di Filodemo mettono bene in evidenza la pratica comune a diversi autori dell’Antichità di riservare una parte almeno della loro produzione letteraria a una diffusione limitata a uno o più amici o compagni di studio, il fine principale di un autore antico era quello di pubblicare i propri libri.
Una volta presa questa decisione, l’autore rielaborava le proprie redazioni, che le avesse dettate o scritte di sua mano, le correggeva con cura, rileggeva il suo testo, faceva cancellature, apportava modifiche, tagli e aggiunte.
Un metodo assai antico e ben attestato di diffondere un testo letterario, quindi di pubblicarlo, era quello di leggerlo davanti a un pubblico di ascoltatori: poeti, oratori, storici, filosofi, letterati della Grecia avevano in comune questa pratica.
Il sistema più comune di pubblicazione di un’opera restava tuttavia (almeno nel mondo romano, per il quale siamo meglio documentati, a partire dall’epoca imperiale) il ricorso a un editore che si incaricava della copia dei libri e della loro diffusione. Con o senza la mediazione di un editore, la circolazione di un libro comprendeva due fasi: la sua copia in diversi esemplari e la sua diffusione tra un pubblico più o meno vasto.
Le sorti di un libro una volta pubblicato
Nella prima fase che seguiva la pubblicazione, la distribuzione e la diffusione dell’opera dipendeva ancora dalla volontà dell’autore. Le tappe successive non avevano niente di sistematico. Ogni copia di un libro poteva essere a sua volta riprodotta e moltiplicata da chiunque lo desiderasse in maniera più o meno corretta e fedele. Non possiamo paragonare questo fenomeno alle edizioni moderne in numerosi esemplari. Gli Antichi non disponevano di una tecnica che consentiva la fabbricazione di libri del tutto identici. Chiunque era libero di copiare tutto quello che gli capitava tra le mani e, una volta messo in circolazione, un testo era a disposizione di chiunque ne possedeva un esemplare.
Nell’Antichità non esistevano né diritti di autore né diritti di editore, nel senso che non c’era nessuna legge che poteva dare luogo a un ricorso in giustizia da parte dell’autore o dei suoi aventi diritto per quanto concerneva la propria opera letteraria una volta che questa era stata pubblicata. L’editore stesso non aveva l’esclusività della diffusione di un testo che si era impegnato a pubblicare. Finché restava nelle mani del suo autore, un’opera era considerava proprietà privata di quest’ultimo che aveva il diritto di offrirla o di venderla, di autorizzare un privato o un editore a occuparsi della sua pubblicazione o farlo lui stesso.
Sembra che a Roma, finché un autore rimaneva dominus (padrone) della sua opera, poteva intentare una actio iniuriarum (azione per danni) se qualcuno ne plagiava il testo. Per quanto riguarda la Grecia, abbiamo una documentazione ancora meno chiara, a eccezione di una testimonianza relativa alla consultazione dell’esemplare dei dialoghi di Platone custodito a Atene nell’Accademia sotto la tutela dei successori del filosofo. La lettura di questo testo potrebbe eventualmente far presupporre l’esistenza di una forma embrionale di diritto d’autore nell’ambito delle scuole filosofiche ateniesi.
Tiziano Dorandi è Dirigente di ricerca al CNRS, Centre Jean Pépin (Villejuif/Paris). I suoi interessi includono la papirologia ercolanese, le pratiche di composizione letteraria nel mondo antico, l’edizione di testi filosofici. Tra le sue pubblicazioni, la nuova edizione critica Diogenes Laertius’ Lives of Eminent Philosophers, Cambridge 2013 preceduta dal volume Laertiana. Capitoli sulla tradizione manoscritta e sulla storia del testo delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, Berlin-New York 2009.