“Nel silenzio del diritto. Risonanze canonistiche” di Salvatore Berlingò

Prof. Salvatore Berlingò, Lei è autore del libro Nel silenzio del diritto. Risonanze canonistiche pubblicato dal Mulino: cosa si intende per «diritto silente» in ambito canonico?
Nel silenzio del diritto. Risonanze canonistiche Salvatore BerlingòLa problematica del «diritto silente» ricorre in tutte le esperienze giuridiche, e non solo nell’ordinamento canonico, perché si innesta su ciò che può essere definito l’enigma o il paradosso del diritto. Il diritto, infatti, proprio per la sua tipica positività, pretende di orientare ed indurre ciascun uomo ad essere coerente, nella sua vita di relazione, tra quel che dice e quel che fa. Tuttavia non sempre il diritto riesce a farsi universalmente osservare nella pratica della vita societaria, evidenziando una grave disfunzione delle sue virtù comunicative. Questa crisi risulta oggi accentuata da un fenomeno sociale di carattere più ampio, che Giuseppe De Rita, richiamando una efficace espressione di Carlo Emilio Gadda, connette al processo di “imbagasciamento” del linguaggio, da considerare «un atto socialmente eversivo», perché un tempo «il linguaggio modellava il corpo sociale mentre oggi sembra avvenire il contrario». Per converso, è possibile tuttora affrontare e vincere la sfida di «risemantizzare il linguaggio», facendogli recuperare il suo intrinseco valore silenziosamente custodito nell’uso che ogni uomo ne fa nella sua dimensione quotidiana ed esistenziale. Siffatto valore consiste nel «saper nominare la diversità», il che significa, per quanto riguarda il linguaggio giuridico, nel sapere individuare e tradurre in concreto la relazione più appropriata di un uomo nei confronti dei suoi simili («hominis ad hominem proportio»: Dante Alighieri, De Monarchia, II, V, 1-2).
A questo punto le considerazioni del sociologo si incrociano con quelle del giurista, se è vero che Rodolfo Sacco, nell’opera tenuta presente fin dall’Introduzione del mio volume Nel silenzio del diritto, sostiene essere compito ai dì nostri imprescindibile per gli interpreti fare emergere dal fondo dell’esperienza giuridica quell’insieme di «radici» latente o silente, e quindi «occulto» o «muto» (perché non scritto o formalizzato e neppure altrimenti fatto palese), che, di continuo e giorno per giorno, trascende la norma scritta o esplicita, trasformandola in «diritto operante, regola praticata» o, in altri termini, «diritto vivente».
Quanto detto fin qui sulla problematica generale del «diritto silente» risulta utile ad individuarne le connotazioni specifiche in ambito canonico. Può subito osservarsi che nell’ordinamento della Chiesa l’enigma del diritto tende ad assumere un carattere emblematico perché finisce per intersecarsi col mistero. Si tratta, precisamente, del mistero, indagato dalla teodicea, che riguarda un silenzio eminente: il silenzio di Dio. Sempre nell’Introduzione al mio volume ricordavo come Chinmoku, ossia Silenzio, titolasse l’opera di un romanziere giapponese, Shusaku Endo, reso famoso dalla versione cinematografica del suo romanzo realizzata, qualche mese addietro, dal noto regista Martin Scorsese. Gli echi suscitati dal film hanno indotto vari commenti, tra i quali interessa ai nostri fini segnalare quei contributi che hanno messo in luce come il romanzo di Endo accordi rilevanza ad una concezione del ‘divino’ che si propone come un «pluriel de plénitude» o, se si preferisce attingere ad un’altra corrente dottrinale, come «passività creativa, propria di esseri che possono divenire più di quello che sono». Le singole persone divengono così capaci di aprirsi ad una realtà che, trascendendo la loro peculiare ‘identità’, li mette in relazione di prossimità e di reciprocità con le identità più diverse. Questi medesimi soggetti si identificano con un Dio che consente ad ogni persona umana, convinta e catturata dalla Sua iniziativa, di immedesimarsi con la Sua carità interiorizzandone il precetto ed alimentandosi ad un senso di giustizia sempre «maggiore» di se stessa. L’umana persona si trasforma allora, come direbbe Rosmini, in «diritto sussistente», rendendosi partecipe della «regola e della misura», una volta che si è lasciata regolare e misurare alla stregua della Carità divina. Ciò spiega il rilievo autonomo che nell’ordinamento canonico è offerto alle norme consuetudinarie e finanche ai comportamenti epicheietici, in conflitto con le norme precostituite per motivi di coscienza; e spiega pure quale sia la differenza intercorrente con le esperienze profane con riguardo al «diritto silente». Mentre nelle esperienze secolari appare imprescindibile l’intervento degli operatori giuridici perché il «diritto occulto», pur essendo «vivente», trapassi nelle forme del diritto vigente, nella Chiesa il «diritto silente», purché «sussistente» nel modo prima illustrato, è già effettivamente vigente e vincolante per gli stessi interpreti. Le ragioni di questa differenza sono fondamentalmente riconducibili al fatto che l’adesione alle comunità politiche, o ad esse assimilabili, è frutto di una convenzione (o «contratto», alla Rousseau), là dove l’adesione alla Chiesa, si basa, come si è detto, su di una convinzione:sicché nelle aggregazioni profane la norma formale del dover-fare è l’unica a potere avere un impatto diretto con le specifiche e determinate situazioni dell’umana esistenza, mentre nell’ordinamento canonico è sufficiente (ma anche necessario!) l’immedesimazione di ogni e qualsiasi umana vicenda con la norma-principio del dover-essere (la Carità divina).

In che modo possiamo intendere il diritto divino come fattore dinamico del diritto della Chiesa?
Il diritto divino, per il sistema canonico, si sostanzia nel lóghion evangelico, che consta di due precetti:il primo dell’amore per Dio e il secondo dell’amore per il prossimo (Mt 5,20 e 48;18,21; 22, 37-38; Mc 12,30-31;Gv 13,34; Ef 2, 9-15). Riflettendo sul fatto che il precetto dell’amore per Dio sarebbe un non senso se la creatura non si lasciasse coinvolgere dall’amore di Dio creatore, può ritenersi che, sotto l’apparenza di una norma di comportamento, il primo precetto celi la sostanza di una norma di competenza intrinsecamente dischiusa alla partecipazione e riformulabile nei termini seguenti:«Chi accoglie in sé, senza riserve, l’amore di Dio è abilitato a porsi come legislatore»; o, per dirla con Paolo:«Ipsi sibi sunt lex» (Rm 2,15). In modo analogo – in forza della specifica sottolineatura, rinvenibile nei Vangeli, della similitudine, anzi dell’identità (auté : Mc, cit.), fra l’Amore di Dio e quello del prossimo – la fondamentale regola di comportamento, contenuta nel secondo precetto, più ed oltre che una condotta estrinseca, implica l’adozione di un atteggiamento intrinseco, capace di abilitare il soggetto non ad una pura e semplice esecuzione o concretizzazione del dettato del precetto, ma piuttosto all’attualizzazione o specificazione evolutiva di tutte le implicazioni della norma; il sistema diviene così – come già accennato, riprendendo un’espressione di Capograssi – sempre «maggiore» di se stesso, e dunque estremamente dinamico. In altre parole: il diritto divino, in tal modo declinato, fa sì che la norma giuridica venga osservata non già in forza di un ossequio formale alla maestà della legge, bensì in virtù della certezza che alla base della legittimazione dell’autorità competente vi è la medesima ragione giustificatrice del comportamento posto in essere dal soggetto ‘osservante’, e cioè l’amore del prossimo. Per altro, nel cristiano, quest’amore non si atteggia nel senso di una mera filantropia, i cui contenuti sono predeterminati o predeterminabili dalla legge (secondo Kelsen, la c.d. giustizia della carità), ma, a somiglianza della carità infinita di Dio, è sempre aperto a nuovi contenuti ed è forza ispiratrice di un sempre nuovo e duttile atteggiamento, la carità della giustizia, nel senso di una giustizia ‘comandata’ dalla carità («ad disciplinam dictante charitate»,«ubi chiaritas non est, non potest esse justitia»: Agostino, In Epistolam Joannis ad Parthos, Tractatus VII, 8; De Sermone Domini in Monte, I, V, 13) e protesa al servizio dei bisogni, anche quelli più negletti, del genere umano, che, nel corso della storia, non sono mai prefigurabili una volta per tutte.

Come supplisce il diritto canonico alla lacuna della legge?
Gli ordinamenti secolari – strettamente connessi con i dogmi dello Stato di diritto moderno (comprensivi della formale divisione dei poteri e della preclusione del non liquet: art. 4 Code Napoléon) – risultano propensi a porre rimedio alle lacune della legge facendo ricorso all’argomento a contrario, ossia ad uno strumento concettuale volto a saturare le ‘porosità’ del sistema preservandone l’assetto statico e rispondendo ad esigenze di formale certezza. E’, infatti, ragionevole, per le esperienze giuridiche fondate piuttosto sulle convenzioni e meno sulle convinzioni, che i consociati vengano in ogni caso rassicurati sulla ‘compiutezza’ (ossia sulla formale coerenza) del sistema, altrimenti percepibile come non meritevole dell’affidamento ad esso accordato. A tutte le richieste di giustizia l’ordine giuridico profano deve mostrarsi in grado di dare risposte certe, immediate e prevedibili, se necessario asserendo, e contrario sensu, che tutto quanto non è vietato è lecito, e quindi privilegiando le astratte e statiche risultanze della produzione normativa rispetto alle concrete e flessibili attività degli interpreti.
Viceversa nell’ordinamento della Chiesa, che poggia sulla forza vincolante delle convinzioni proprie dei fedeli, lo strumento principe per colmare le lacune è ravvisabile nell’analogia, e cioè in un ‘utensile’ ermeneutico che assume il sistema non già come un dato inerte e definitivamente compiuto, ma piuttosto come una realtà dinamicamente sempre completabile. Inoltre, nel contesto offerto dall’esperienza di fede, l’analogia, secondo quanto si ricava pure da una corretta lettura del can. 19 del vigente Codex iuris canonici, può senz’altro giovarsi del ricorso all’aequitas che, secondo i classici della canonistica, «nichil autem est quam Deus». Nell’ordito delle relazioni ecclesiali, in cui ciascun christifidelis può – nel rispetto delle condizioni illustrate con le risposte sub 1) e sub 2) – essere «legge a se stesso», l’equità canonica rappresenta, in vero, il filo conduttore che, lungo il sentiero dalla stessa segnato, conduce a farsi carico di tutte le humanae fragilitates, ed a rendere ogni pronunzia, tesa a colmare le lacune evidenziate proprio da quelle imprevedibili ma non trascurabili fragilità, conforme alla ratio fundamentalis dell’ordinamento, ossia al fine della salvezza spirituale di ciascun uomo, impegnato come viator nella ricerca della propria sorte trascendente (dentro o anche fuori la Chiesa).

Come influisce la dimensione di «Chiesa domestica» sul diritto di famiglia nella Chiesa?
Nella Chiesa la dimensione sacramentale del matrimonio non si collega, come per tutti gli altri sacramenti, solo al piano della Redenzione, ma pure al piano della Creazione. Già in ordine a quest’ultimo Agostino discorre del matrimonio come di un magnum sacramentum, riflesso nella famiglia umana per speculum o per imaginem della «famiglia di Dio», ossia la Trinità, espressiva dei paradigmi normativi della Paternità di Dio, della Figliolanza del Cristo e dell’Amore dello Spirito. Per tanto la «Chiesa domestica» – di cui parla il Vaticano II (LG, 11), e su cui insiste, anche con i più recenti svolgimenti di Papa Francesco, sia il Magistero pontificio che quello sinodale successivo al Concilio – rappresenta lo sbocco ineludibile, per il rispetto dovuto a quei paradigmi, dal matrimonio alla famiglia, con il trapasso dalla «chiusura funzionale» («operative Geschlossenheit»: Luhmann) della famiglia nucleare o della coppia erotica uni-duale, allo slancio oblativo («spiritalis hostia»: 1 Pt 2,5) dell’agape cristiana, del desco aperto alla commensalità intergenerazionale ed universale, tipica di una dimensione ecclesiologica, oltre che sacramentale.
Per converso, l’istituzione e la dimensione sacramentale, nel senso appena chiarito, del matrimonio e della famiglia si appalesano necessari, nel quadro della Nuova Alleanza, in ordine alla permanenza ed all’integrità di un modello, quello dell’oikonomia o «regola della casa», che risulta imprescindibile e prioritario per la struttura ordinamentale della Chiesa. Infatti, la dimensione e inflessione familiare non possono non connotare in modo visibile e tangibile la comunità dei fedeli in Cristo, nella cui compagine si realizza, per dirla con il Concilio, l’«Antistitum et fidelium conspiratio» sorretta dallo Spirito (DV,10; LG, 12), aperta alla perenne «reformatio» o «purificatio Ecclesiae» (LG, 8; UR,6). E quindi, all’interno della «famiglia di Dio», che è la Chiesa, il potere non può non prendere ad esempio il modello offerto dalla figura del «fidelis dispensator, et prudens» (Lc 12, 42), la potestas boni patris familiae, che, se rettamentente intesa, è in grado di rendere al meglio il principio di ‘capitalità’ su cui si fonda l’ecclesiologia del Corpo Mistico.
Si badi, però: il paradigma «familiare» va depurato, nel suo riferimento all’esperienza di Chiesa, di tutte le scorie che, nel contesto delle esperienze mondane (o di quelle, anche religiose, omologatesi a dette esperienze), si sono su di esso accumulate nel corso dei secoli per gli influssi o i condizionamenti esercitati dai modelli potestativi dell’autorità civile (De civitate Dei, XIX, 16).

Agli albori del ventunesimo secolo, che ruolo svolge il diritto nella Chiesa?
La consapevolezza circa la sacramentalità creaturale primigenia del matrimonio e della famiglia – recuperata e reintegrata alla luce della redenzione frutto dell’Incarnazione cristiana – deve indurre la canonistica contemporanea a ricostruire e ravvivare, nell’odierna esperienza, il tipo di diritto proprio della Chiesa, secondo le movenze che esso primariamente ha assunto in seno alla famiglia. Ed in vero, nell’atto con cui si instaura la famiglia, come «via della Chiesa» (Lettera alle famiglie, 2 e 16), si genera un incontro risolutivo fra carità e giustizia, fra spontaneità del carisma e doverosità del ministero. Questa originalità dello ius familiare canonico induce a mantenere netto il profilo della distinzione fra la Civitas caelestis, pur nella sua mondana «peregrinatio», e la Civitas terrena; e quindi pure fra la comune, inevitabile e legittima ricerca in entrambe le Civitates di un ordine che assicuri la «terrena pax» e la supina assimilazione al predominante e «sovrano» ordinamento degli Stati o, più in generale, delle comunità politiche. Anche perché le crisi o le «metamorfosi» o, addirittura, le eclissi che oggi viepiù investono gli ordinamenti tipici di queste ultime comunità, non possono coinvolgere, nella sua necessità ed essenza strutturale, l’ordinamento della Chiesa. In quest’ultima, piuttosto, è tempo – una volta compiutasi la fase dell’experimentum crucis realizzatosi con la bipartizione fra codificazione latina ed orientale – di verificare se può aprirsi la strada per un’aggiornata e più autentica impostazione dei rapporti e delle proporzioni fra ius universale (davvero tale e non ridotto o assorbito dal diritto canonico generale di rito latino) e ius particulare (riferibile alle molteplici dimensioni denominazionali ed ecumeniche). Emerge, in ogni caso, l’esigenza dell’apprestamento di una più idonea e piena attuazione, a livello istituzionale, dello «spirito» conciliare o, ancora più esattamente, di tutte le riforme atte ad assicurare una sempre maggiore fedeltà dell’ordinamento giuridico della Chiesa al mandato evangelico ed ai modelli «familiari» delle primigenie cellule di propagazione del Cristianesimo.
In questa temperie, non appare fuori luogo augurarsi la costruttiva riproposizione delle ipotesi di incisive modifiche che un grande canonista, Stephan Kuttner, avanzò in tempi allora non propizi ma forse oggi più maturi. Un valido supporto alle necessarie riforme, così energicamente prospettate ed auspicate dall’attuale Pontefice, non può tuttavia venire se non dal rinvigorimento, in seno al «popolo» o (meglio) alla «famiglia di Dio» (in terra), del riverbero di quel lumen gloriae, che nell’ordine simmetrico ma monotono del reale ha introdotto il dono di un’eccentrica scintilla, suscitatrice della convivialità dell’amore.

Quali vincoli si pongono agli operatori del diritto nella prassi canonistica?
In coerenza con le caratteristiche e le funzioni proprie di un reviviscente ius familiare canonico – secondo i paradigmi esplicitati da Paolo (1 Tm 3,1) e da Agostino (De civitate Dei, XIX, 19), ma poi ripresi pure dai classici della canonistica, nella scansione tipicamente giuridico/giustiziale dell’aequitas, della «iustitia dulcore misericordiae temperata» (Summa aurea : Liber V, § 1) – i limiti da imporre agli operatori del diritto canonico, anche, e anzi tutto, nell’odierna prassi, sono rinvenibili in alcune illuminanti espressioni di Bernardo di Clairvaux, a proposito del supremo ministero episcopale, quello dell’orbis episcopus, cioè del Romano Pontefice: «Praesis ut prosis; praesis ut fidelis servus et prudens, quem constituit Dominus super familiam suam … ut dispenses non imperes». In vero, già Agostino (De civitate Dei, cit.), si era analogamente espresso, non senza una qualche forzatura etimologica, con riguardo all’episcopato nel suo complesso: «….ergo Episcopein, si velimus, Latine super-intendere possumus dice­re, ut intelligat non se esse episcopum qui prae-esse dilexerit, non prod-esse».
Del resto, la ratio del «buon pastore» evangelico (Mt 18,12 s.; Gv 10,1-18) – che poi è il villicus di San Bernardo e, già prima, il pater familias di Paolo e Agostino ­non è quella – o, almeno, non è solo quella – di presidiare la cerchia del proprio ovile, di preservare l’integrità del patrimonio racchiuso nel proprio recinto, ma quella – o anche, o soprattutto, quella – di andare alla ricerca di ogni ratio diffusa o nascosta nel peregrinare delle singole persone, di ciascuna persona umana, «unica semper», anche perché, come scriveva già il Vescovo d’Ippona, questa ratio riposa «in illa ineffabili praescientia Dei», per la quale e nella quale «multi qui foris videntur intus sunt; et multi, qui intus videntur, foris sunt» (De baptismo, 5,38; De correptione et gratia, 39 ss.).
Sono dunque proprio gli operatori del diritto canonico, nel rispetto della ratio fundamentalis di quest’ultimo, a doversi porre non già come freno, bensì come stimolo e sostegno della perenne e continua attività di reformatio Ecclesiae, aperta a ed al servizio del bene-essere dell’umanità tutta intera, a cominciare da quelle periferie del mondo, che tali sono soprattutto perché rischiano di restare «fuori» o, quanto meno, di rimanere lontane dal cuore stesso della Chiesa.

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